23 mar 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: SHAPE OF DESPAIR


Quinta puntata: Shape of Despair – “Angel of Distress” (2001) 

Facciamo un salto in avanti di qualche anno rispetto al blocco delle puntate precedenti ed accediamo ad una fase ulteriore del nostro viaggio nel funeral doom. Se nell'anteprima e nelle prime quattro puntate abbiamo osservato il crearsi, lento e multiforme, di questo nuovo filone del metal estremo, con band che, imboccando vie diverse, pervenivano alle medesime conclusioni, approdiamo adesso al nuovo millennio ed entriamo nel periodo d’oro del genere, quando oramai esso aveva assunto una forte consapevolezza in merito alla propria identità ed alla propria missione, e di conseguenza gli stilemi si andavano a cristallizzare in forme ben precise. 

Lo facciamo rimanendo in Finlandia, la patria del funeral doom, introducendo una band emblematica per l’intero movimento: gli Shape of Despair

La storia del combo finlandese era iniziata nel 1995 sotto il nome di Raven, monicker dietro al quale operava il nucleo originario della band. I Raven non suonavano funeral doom, ma una forma (inizialmente) strumentale di depressive black metal, dall'incedere lento e scarabocchiato con vibranti riff in tremolo. Si prendeva spunto dai connazionali Unholy, ma le lezioni dei maestri norvegesi (Burzum in primis) erano ben evidenti. 

Era chiaro alla band che in quel modo non si andava da nessuna parte, con un nome che peraltro sfiorava l'anonimato più assoluto, per questo motivo un differente indirizzo artistico fu presto imboccato. Nel 1998 si ebbe anche il cambio di monicker nel più congeniale Shape of Despair, visto che la formazione si era spostata, nel frattempo, verso lidi più propriamente funeral doom. 

Dunque il debutto con “Shades of…” nel 2000 e il brillante seguito “Angel of Distress” nel 2001. Rispetto ad altri illustri esponenti del movimento, gli Shape of Despair sono profondamente radicati nell’epopea gothic-metal, nelle atmosfere, nelle liriche, nell’immaginario rappresentato. Sono dunque estranei a certe pulsioni acide e psichedeliche mutuate dal doom classico e per questo, agli orecchi di molti, possono apparire patinati od eccessivamente pomposi, aspetto che la produzione pulitissima e potente va a supportare alla grande. 

Se dovessimo descrivere gli Shape of Despair con un linguaggio cinematografico (lettura che si presta bene alla proposta densa di visioni dei Nostri) si tratterebbe di uno di quei tipici film lentissimi, dominati da lunghi piani-sequenza e con i dialoghi ridotti all'osso. I personaggi morirebbero uno ad uno lungo il corso della trama, ed una voce fuori campo interverrebbe puntuale interrogandosi sul senso (o sull'insensatezza) della vita, vista come una valle di dolore e destinata al buio della morte.   

Se dovessimo invece riassumere il sound della band con un’unica espressione, mi azzarderei a dire, senza denigrazione alcuna, che gli Shape of Despair sono un po’ come dei “My Dying Bride al cubo", My Dying Bride che proprio in quegli anni tornavano a calcare lidi estremi dopo le sperimentazioni della seconda metà degli anni novanta. Un album come "The Light at the End of the World", attraversato da riff imponenti e possenti orchestrazioni, rende bene l'idea del punto da cui gli Shape of Despair sono partiti per scrivere e realizzare musica, che sembra il frutto di un processo di semplificazione/enfatizzazione delle delizie gotiche magistralmente raccontate da Aaron Stainthorpe e soci. 

Semplificazione perché nel sound dei finlandesi tutto è estremante semplice e dunque fluido, basato su strutture che amano indugiare sulle stesse trame melodiche, con cambi di tempo rari e la totale assenza di mutazioni vertiginose di umori. 

Enfatizzazione perché le poche idee vengono vitaminizzate con l'impego di una vigorosa stratificazione sonora fatta di chitarre, tastiere, violino e voce femminile (poco più che un orpello): modus operandi che alimenta, anzi esaspera, le sensazioni suscitate dal semplice alternarsi delle note.

Il motore pulsante del combo risponde al nome di Jarno Salomaa, chitarrista e tastierista, nonché autore di tutte le musiche e delle liriche. I suoi riff di chitarra fungono da riempitivi chiamati a sorreggere le tastiere, che hanno un ruolo predominante, e la stessa cosa si può dire degli sporadici assoli, che in verità sono il prolungamento di singole note chiamate ad infarcire il denso sound della band. Dal canto loro, le tastiere si prodigano nella ripetizione ossessiva dei medesimi giri. Non un virtuoso, dunque, il nostro Jarno, ma egli indubbiamente sa come mettere insieme i suoni per generare un effetto di enorme decadenza ed afflizione. 

Il tutto viene enfatizzato dal canto di Natalie Koskinen e dal violino dell’ospite Toni Raehalme. Non vi saranno guizzi di sorta né per quanto riguarda la voce femminile (per lo più fonte di vocalizzi eterei che confluiscono sistematicamente nelle tastiere come se fossero un ulteriore strumento), né per quanto riguarda il violino (mero accompagnamento alle orchestrazioni sintetiche che infestano tutto il platter). 

Il resto della band fa il minimo indispensabile per arricchire di sfumature il sound compatto di Salomaa: Tomi Ullgrèn chitarrista ritmico ed all’occorrenza bassista procede a testa bassa e con approccio da manovale si limita a gettare palate di cemento nella betoniera; quanto a Samu Ruotsalainen, che peraltro militava all’epoca anche nei Fintroll, se dovessi giudicarlo dalla sua performance in “Angel of Distress”, non esiterei a definirlo uno dei batteristi più scarsi mai uditi in vita mia: non perché egli si macchi di chissà quali nefandezze, ma il suo drumming è veramente elementare, tanto che se egli avesse avuto un solo braccio ed una sola gamba non avremmo percepito la differenza, e forse forse una drum-machine avrebbe fatto di meglio. 

Completa la formazione niente meno che Pasi Koskinen, che i fan degli Amorphis conosceranno bene in quanto vi ha militato dal 1995 al 2004. Ma ci si dimentichi del suo canto pulito e cristallino, ci si tolga dalla testa le sue prove dietro al microfono in album come “Elegy” e “Tuonela”, in quanto il Nostro per gli Shape of Despair avrà in riserbo non altro che un growl devastante. 

Insomma, non manca niente all'appello: voce sepolcrale, lentezza, pesantezza e....nemmeno la lunghezza poteva mancare! I cinquantacinque minuti di "Angel of Distress" si articolano in sole cinque tracce, di cui la prima e l'ultima relativamente brevi (rispettivamente sei e sette minuti) e che andrebbero considerate piuttosto come un intro ed un outro, sebbene esse siano brani a tutti gli effetti. 

L'iniziale "Fallen" è il perfetto biglietto da visita per accedere nel mondo degli Shape of Despair, con introduzione di tastiere ed esplosione di chitarre e voce all'unisono al minuto uno. L'attacco di voce, nello specifico, è quanto di più emblematico possa offrire un album di funeral doom, con quell'effetto di "bottiglia stappata" da cui sembra uscire una melma vischiosa che difficilmente si stacca dai vestiti. Seguono cinque minuti di maestoso baccanale gotico, dove quasi al termine il brutale ruggito di Koskinen torna "sdoppiato" a recitare un breve testo: come si diceva, è solo l'inizio. 

Saranno i tre brani centrali a costituire il corpus essenziale dell'opera, con i quasi dieci minuti della title-track, i quasi quindici della meravigliosa "Quiet These Paintings Are" e gli oltre diciassette di "...To Live for My Death". Non che gli umori varino molto da un episodio all'altro, anzi l'intera opera può essere vista come un unico flusso, un lento saliscendi emotivo che vede il continuo alternarsi di pieni e vuoti, eleganti intermezzi di tastiere e nuove affossanti detonazioni elettriche. La forza di questa musica sta indubbiamente nell'impatto sonoro e, come suggerito dal monicker, è chiaro l'intento della band nel voler modellare la forma della disperazione. Un suono unidimensionale, si diceva, ma che con qualche ascolto in più può svelare sfumature che altrimenti sfuggirebbero ad uno sguardo superficiale. 

La title-track è ideal-tipica nel descrivere quel suono che abbiamo appena provato a rendere a parole: un'ode apocalittica in cui l'incombenza dell'Angelo dell'Angoscia è seriamente palpabile, e la ripresa del tema principale nel finale, fra violino, eterei gorgheggi femminili ed interventi di chitarra solista, ha il suo discreto effetto. Spicca la lunga introduzione di pianoforte della bellissima "Quiet These Paintings Are", probabilmente il miglior momento del lotto, una suite superlativa da tutti i punti di vista e che già dai suoi primi movimenti ne fa presagire il carattere monumentale. Non di meno sarà la successiva "...To Live for My Death", che al suo interno ospita un raro passaggio in cui i coniugi Koskinen si lanciano in un duetto, con Natalie che si degna di recitare un testo e Pasi che l'accompagna con registri puliti. E poi l'intervento di violino nel finale è un vero colpo al cuore. Del resto agli Shape of Despair piace vincere facile. La strumentale "Night's Dew" chiude le danze alzando leggermente i tempi, con un andamento più sostenuto e sfiorando sciccherie chitarristiche à la Katatonia (se solo Salomaa avesse uno straccio di gusto melodico). 

Se devo essere onesto, non è questa l'accezione di funeral doom che prediligo. A mio modesto parere negli Shape of Despair sembrerebbe prevalere la forma sulla sostanza, l'auto-compiacimento estetico sulle effettive intuizioni melodiche. Gli stessi testi sembrano indugiare eccessivamente su concetti esistenziali assai basici, in primis sull'incomprensione del perché della Vita, se essa deve condurre necessariamente alla Morte. E' innegabile tuttavia il fatto che i cinque finlandesi siano in grado di edificare un suono colossale che gronda tragedia da tutti i pori. Se questo era il loro intento, ci sono riusciti in pieno, e sono sicuro che i cuori di molti verranno rapiti da cotanta tragica bellezza...