2 apr 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: EVOKEN



Sesta puntata: Evoken - “Antithesis of Light” (2005) 

Attraversiamo l’oceano e migriamo negli Stati Uniti, altro angolo del globo dove il seme del funeral doom ha saputo attecchire e dare buoni frutti. 

Gli Evoken, dal New Jersey, non sono annoverabili fra i pionieri del funeral doom, ma il loro è un nome di peso all’interno del genere. Gli Evoken sono il classico gruppo che non fa cazzate: testa bassa e solo capolavori. Ognuno potrà esprimere la sua preferenza in una discografia di altissimo livello; quanto a noi, optiamo per “Antithesis of Light”, terzo full-lenght, comunemente considerato il loro lascito di maggior pregio. 

Nati dalle ceneri dei Funereus, dove militavano Nick Orlando (chitarra) e Vince Verkay (batteria), gli Evoken si formano nel 1994 con l’aggiunta del bassista Bill Manley, che avrebbe avuto vita breve nell’organico, e del cantante/chitarrista John Paradiso, che invece con il tempo avrebbe ricoperto un ruolo di leadership crescente. 

Le idee son chiare fin dall’inizio, tanto più che il monicker Evoken è scippato dal repertorio dei seminali Thergothon (“Evoken” era un brano contenuto nel primo demo dei finlandesi). Anche i My Dying Bride del periodo “As the Flower Withers”/“Turn Loose the Swans” sono una chiara influenza, ma divengono un riferimento forviante, in quanto i Nostri hanno un tocco tipicamente americano, percepibile non solo in certe fascinazioni per il death metal a stelle e strisce, ma anche e soprattutto per un approccio agli strumenti squisitamente pragmatico, volto allo sviluppo delle idee piuttosto che alla mera suggestione. 

Il modus operandi volto a calare il linguaggio sabbathiano in lunghe suite dagli umori catastrofici schiude delle analogie con i primi Neurosis, sebbene si tratti chiaramente un "effetto ottico". Ma pur considerando la distanza siderale fra le due formazioni, si possono percepire echi di lavori come “Enemy of the Sun” e "Through Silver in Blood", soprattutto nel loro lato più brutale ed estraniante, complice il passo rituale/tribale delle percussioni (si abbia presente l’incipit di “The Mournful Refusal”) ed una produzione grezza che sa farsi stordente in occasione dei riff più grevi e deflagranti. 

Indubbiamente gli Evoken vanno lenti, ma la loro lentezza è una lentezza irrequieta. Incide il drumming dinamico di Verkay, fra lunghissime rullate, secchi contro-tempi e persino qualche blast-beat disseminato intelligentemente, cosa che richiama la schizofrenia lento/veloce che caratterizzava la cifra stilistica di un altro nome di rilievo per il genere, i Disembowelment

Un'altra caratteristica dell'Evoken-sound è quella di associare un riffing tranciante ad una chitarra pulita che si prodiga in sinistri arpeggi. La produzione in "Antithesis of Light" non sempre riesce ad integrare perfettamente le due dimensioni, ma proprio a causa di questa sfasatura il loro accostamento diviene allucinante, inquietante, stridente, come se due forze opposte si affrontassero in una feroce contesa: lo spirito che cerca di elevarsi al cielo, il peso della carne che lo trascina sottoterra - metafisica e fisico orrore che convivono in musica così come nella macabra copertina, che conserva certe visioni tipiche del death metal. 

In questa cornice vanno collocate infine le spettrali tastiere di Denny Hahn e le vocalità sepolcrali di Paradiso, che in questa release ricopre anche il ruolo di bassista, oltre a quello di chitarrista insieme ad Orlando. Mai come negli Evoken conta il lavoro di squadra: tutti e quattro i musicisti concorrono diligentemente al raggiungimento dell’obiettivo di calare l’ascoltatore in un vicolo cieco esistenziale, accompagnandolo subdolamente attraverso un labirinto di suoni claustrofobici. Davvero qui il “senso di baratro” viene costruito mattone dopo mattone, con una pazienza, con una dedizione ed una intelligenza architettonica che rendono la band americana davvero qualcosa di unico nel panorama funeral. 

Tolto l’intro di quarantanove secondi, i rimanenti sei brani sono tutti sopra i dieci minuti di durata e al loro interno si aprono sentieri dalle traiettorie imprevedibili che si inerpicano su per funesti landscape sonori con la logica dell’incubo. E la forza d’urto, il metodo con cui la band porta avanti la propria opera di devastazione per settanta impegnativi minuti sono qualcosa di encomiabile. 

L’openerIn Solitary Ruin” è la perfetta esemplificazione di quanto sopra descritto: scudisciate di chitarra che vanno e vengono e che aprono voragini nelle quali si incuneano arpeggi sulfurei e il rantolo infernale di Paradiso (scusate l’infelice gioco di parole). Verkay nelle retrovie scatena il finimondo con il suo sconquassante drumming, fra improvvise accelerazioni, mitragliate di doppia-cassa e rallentamenti catatonici. 

Gli Evoken sanno muoversi in un range espressivo variegato ma che risulta sistematicamente funzionale a generare un senso di oppressione insopportabile: un tangibile cappio al collo che l’ascoltatore percepirà dalla prima all'ultima (sospirata) nota. Si pensi al giro di pianoforte nel finale della già citata “The Mournful Refusal” (tutt’altro che liberatorio) o la (sofferentissima) voce pulita che sbuca ad un tratto in “Pavor Nocturnus” (altre sei metri sotto terra) e che si ripresenterà nella conclusiva “The Last of Vitality”, annichilente finale che consegna l'ascoltatore (o quello che ne rimane) alle tenebre più fitte. 

Ci sono scritti in cui fatico dannatamente a tirare fuori parole e concetti, e il presente è uno di questi. Ho dovuto ricorrere al mestiere per rendere a parole questi suoni, e di questo mi scuso, ma posso assicurare che terminato l’ascolto l’impressione è quella di esser usciti da un virus intestinale che ci ha piegato con la testa nel cesso per un paio di giorni (sì, lo ammetto, durante l'analisi di questo album, per la regola che le disgrazie non vengono mai da sole, mi sono sentito poco bene per motivi del tutto estranei all'ascolto del platter in questione, che tuttavia si è prestato alla grande come perfetta colonna sonora per lo stato psicofisico del momento). 

Come si diceva in principio, la discografia degli Evoken (ad oggi sei full-lenght) andrebbe perlustrata nella sua interezza, in quanto i Nostri non hanno mai rilasciato lavori meno che ottimi, a partire dall'apprezzato esordio "Embrace the Emptiness" (1998) e dalla superba opera seconda "Quietus" (2001). Chi volesse gettarsi nell'episodio più catacombale del loro catalogo (che equivale a dire: chi fosse desideroso di farsi uccidere nel modo più sadico da Jack lo Squartatore) può farsi coraggio ed addentrarsi in "Atra Mors" (2012). Per tutti gli altri curiosi, "Antithesis of Light" rimane un buon punto di partenza.