“Sai Aaron, la mia ragazza ha detto che vuole prendersi un periodo di riflessione...non so cosa pensare”
“Sappi che stai soffrendo invano,
non tornerete insieme”
“Dici che non mi ama più ?”
“Se ti ha amato è stato per un
attimo, e forse non ti ha mai amato. Anzi, forse non è mai esistita”
“Spero di riuscire a superare questo
momento”
“Durerà per sempre, il dolore non
muore mai, purtroppo non c'è niente oltre il dolore”
“Beh, Aaron, la speranza è l'ultima
a morire, dai!”
“Purtroppo sì. Almeno se tu fossi
disperato finiresti di soffrire, invece non c'è via d'uscita.”
“Però dai,
almeno qualche bel disco l'abbiamo fatto nella vita”
“Sì, una mappa di tutti i nostri
fallimenti”.
Aaron Stainthorpe
(My Dying Bride) è un uomo che ha una parola di sconforto per
ogni occasione, un amico prezioso con cui affogare i propri dolori
davanti a una birra. Perché il dolore non va represso, gli va data
una dignità, e spesso l'alcol serve a questo, a poetare sul dolore.
Ma così facendo si costruisce al dolore un rifugio, poi una casa, un
palazzo e infine un castello che si articola su ogni livello, tra
torri e sotterranei, e ti imprigiona. La storia mentale del dolore
diviene gigantesca rispetto a ciò che lo ha prodotto, la delusione
d'amore. Un cimitero monumentale che ormai ha dignità propria anche
senza tombe, e in cui anzi ci si fa seppellire appositamente per la sua
bellezza.
Il dolore si annuncia già
all'inizio dell'amore, perché l'amore e la felicità sono solo un
momento di distrazione nell'onnipresente vigilanza del dolore. Questa
la descrizione dell'innamoramento:
“Prendi te stesso,
malato e febbrile, e grida forte a Dio, il tuo io sofferente sarà
caricato sulle mie spalle, io che non riesco a vedere il mio Dio;
perditi dentro me, e non dovrò mai domandare: “Chi mai mi vuole? Chi mai può volermi?”... Il dolore è annacquato per un
attimo dall'amore, ma poi crescerà per travolgere come una marea la
vita intera …. “Sto soffrendo, e non so perché, sotto una
pioggia fitta, dai cieli più neri”. Aaron muore con la sua
illusione d'amore sotto questa pioggia come la piccola fiammiferaia,
accendendo uno dopo l'altro i fiammiferi della sua passione, che
nulla possono contro lo scroscio d'acqua del destino negativo. Alla
fine della canzone ("From Darkest Skies") la frase “Non
temere, il mio fuoco basterà per tutti e due” può intendersi
in vari modi: due amanti che si uccidono insieme, oppure due amanti
che consumano il loro amore perché uno rinuncia al fuoco che
potrebbe salvarlo per scaldare l'altro, anche perché secondo la
visione pessimistica di Aaron tanto vincerà l'Inverno. Tanto vale
usare i fiammiferi per la passione, e non per tenersi in vita qualche
minuto in più.
L'idea dell'amore come
eccezione che conferma la regola del dolore è una costante nella
poetica dei My dying.
“Versati a scroscio
dentro di me, la nostra fine si fa così vicina, e io ne piango....
Noi balliamo....e la musica....muore”. Una musica non è
qualcosa che nasce, ma qualcosa che muore, è lo svolgimento della
morte. Quando il fiore sboccia, inizia a morire. La carriera dei My
Dying inizierà infatti con un titolo programmatico “Mentre
il fiore appassisce”: raccontare la vita, gli amori, le
passioni significa raccontare la storia della morte di qualcuno,
l'appassire del suo fiore. Il bocciolo è un'illusione, una promessa
di ciò che non sarà, se non a sprazzi o per un attimo. Dopo anni e
anni di dischi, successi e attività artistica ecco che Aaron se ne
esce con un titolo agghiacciante, retrospettivo: “Una mappa di
tutti i nostri fallimenti”. Questa è la vita: guardando in
avanti, un fiore che appassisce; guardando indietro, una via crucis
di fallimenti.
Ma come dicevamo questa
dimensione dolorosa alla fine permea dall'inizio l'amore e il
desiderio, e quindi diviene essa stessa parte del desiderio, anche
perché nel dolore sopravvive l'amore perduto, che altrimenti sarebbe
solo perduto, scomparso, spento. “La sensualità della sofferenza”
è la dimensione poetica dei My Dying Bride: i My
Dying Bride fanno l'amore con il proprio lutto, non lo
espongono come un vessillo, né lo maledicono come un sentimento
negativo. C'è in questo una perversione, un'accidia, che è diversa
da quella del doom vero e proprio. Nel doom vero e
proprio si rimpiange un tempo antico e andato, che non tornerà
perché è una soluzione mancata, oppure è una delusione storica, un
lutto, qualcosa che interrompe la vita oppure la vanifica, o ancora
la tradisce.
Per il buon Aaron invece
il problema non è che le cose sono andate male, iniziano già con la
morte in tasca, dirette verso la morte (noi balliamo, e la musica
muore...), plasmate dalla morte, per quello la morte è intrisa
d'amore, e non il contrario. Aaron più che doom è decadente,
esiste nella decadenza e non altrove, dipende dalla decadenza.
L'amore è la parte più bella della morte, per chi riesce a
coglierla. “La mia sposa morente” (My dying bride),
appunto...
L'amore è l'unico
aspetto sublime, ma non dà riscatto, né salvezza, perché è
l'altra faccia di una moneta dolorosa. Su una faccia l'effigie
(testa), sull'altra il valore della moneta (croce). L'amore è testa,
il dolore è il prezzo, croce. Non c'è fiamma senza cenere, anzi non
c'è cenere senza fiamma, ed è un peccato non vivere la fiamma
allora, e non farla rivivere nel ricordo anche in mezzo alla cenere.
Ad un certo punto della
discografia qualcuno ha potuto credere che i My Dying Bride
avessero cambiato visione, perché il titolo “La luce alla fine
del mondo” poteva far pensare ad un barlume di speranza, ad una
rivelazione finale di redenzione, felicità, senso compiuto. Niente
di tutto questo, non è la luce in fondo al tunnel, è un'immagine
raggelante, allegoria del senso della vita secondo i My Dying
Bride. Innanzitutto, un destino individuale, cioè, come diceva
anche de André “cari fratelli sull'altra sponda, amammo
in cento l'identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra:
questo ricordo non vi consoli: quando si muore, si muore soli”.
La luce è quella
dell'alba, un'alba perenne che rimane a tormentare l'uomo con i
ricordi di un'unica breve notte d'amore. L'uomo la contempla, sul
ciglio del mondo, da un'isola in mezzo al mare. La salvezza non è da
attendere, non è la luce: l'unica salvezza era la notte donata per
distrazione dagli dei, che sparirà con l'alba. La notte diverrà
giorno, e il giorno non finirà più, coprirà tutto il tempo che
resta. Un sentimento depressivo, questo dell'alba come momento di
disperazione, di angoscia essenziale, che chi è depresso ben conosce
(esiste un quadro, “Disperazione all'alba”, che
rappresenta proprio questo, di Fussli). Un faro impietoso
illumina l'isola “sul ciglio del mondo”, costringendola ad
un lungo giorno di ricordi dopo una notte di passione. Non resta che
il sonno, unica fuga dalla realtà, in cui il ricordo può ancora
vivere, protetto dalla luce. La luce è la crudeltà degli dei, la
volontà di illuminare l'assenza. Come dicono i Paradise Lost
“L'alba saluta le mie ferite aperte” (sunlight greets
my open wounds).
La speranza sarebbe una
condanna, farebbe sopportare il giorno nell'attesa che la luce
riporti la persona amata, la felicità, la pienezza. La speranza
proietterebbe in avanti, ma in avanti c'è solo la fine, e
distaccherebbe dal ricordo, unico retrogusto dolce del dolore. No, la
speranza è l'ultimo dei mali, cioè il più tenace a morire, quello
che mantiene aperte le ferite così che il sole dell'alba continua a
scottarle. Ma i My Dying Bride non ci cascano, e uccidono
la speranza disco dopo disco.
A cura del Dottore
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