No, questa volta no. Non rifaremo
lo stesso errore.
Quello di non ascoltarli.
Di tralasciarli, disorientati dal marasma delle continue uscite discografiche.
I Cult of Luna, intendo.
Il peccato di superficialità
fatto con il meraviglioso “A Dawn to Fear” nel 2019, recuperato poi solo l’anno
scorso, è servito da lezione. Mai snobbare i sei svedesi di Umeå. Perché
il concreto rischio sarebbe quello di perdersi un altro, ennesimo, capolavoro
della band.
Che, lo diciamo subito, continua
imperterrita, a non sbagliare un colpo.
Non fa eccezione “The Long Road North”, uscito a febbraio scorso ancora sotto l’egida
della Metal Blade.
Come è avvenuto per tutti i dischi dei
COL, anche questo si disvela ascolto dopo ascolto. Piano piano. La cura
maniacale dei dettagli, la stratificazione dei suoni, la tensione emotiva del
sound…insomma, i Nostri, perché li si assimili, richiedono dedizione,
concentrazione. E noi, fan indefessi degli svedesi, gli dedichiamo volentieri
la dedizione e la concentrazione necessarie.
Nulla di nuovo all’apparenza: la
solita, elevatissima, qualità di scrittura, la consueta impostazione
dell’alternarsi di pieni e vuoti, di momenti pregni di tensione e rilascio della stessa; di
crescendo e decrescendo, di urla belluine cariche del dolore del mondo e
momenti di dolcezza lacrimevole. Il tutto sempre, come su accennato, attraversato
da una tensione apocalittica dai toni
marcatamente epici.
E questo a partire da quella specie di
richiamo marziale, che pare emesso da un corno vichingo, con cui si apre la
clamorosa opener “Cold Burn”: quasi 10 minuti per mettere le cose in chiaro e
dimostrare, se ancora ve ne fosse bisogno, che i COL sono la più grande post-post-hardcore
metal band in circolazione. Cioè il post-hardcore nato sulla scorta di quell’album epocale, e decisivo per tutto il movimento, che risponde al nome di “A Sun That
Never Sets” dei Neurosis, nel 2001. Da quell’album in avanti, il post-hardcore
ha cominciato a espandersi, ad andare oltre se stesso, copulando con lo sludge,
il post-rock, l’ambient, il prog, il folk e altro ancora. E i COL sono stati i
‘figliocci’ che da un lato hanno saputo raccogliere meglio di tutti l’eredità
dei Padrini di Oakland; e dall’altro, attraverso una ricerca personale e
continua, coloro che stanno lastricando la propria via artistica di pietre miliari.
Parti di un unico percorso che, ad un ascolto superficiale, possono apparire uguali o molto
simili tra di loro; ma che, entrandovi a fondo, ci si accorge essere ognuna un po’
diversa da quella precedente, con caratteristiche originali, con delle novità che
migliorano di volta in volta il prodotto finale (si guardi, ad esempio,
all’atipica e riuscitissima ballad post-metal “Into the Night”).
E così è anche per "The Long Road North" che, dopo
l’opener da urlo, prosegue su quel solco, rivedendo e limando i consueti trademarks
della band: le tre chitarre, tra riffoni slabbrati, solo-riff in stile
post-rock e arpeggi; la sezione ritmica che segue gli umori dei brani,
deflagrando nei momenti più concitati e accompagnandoli pacatamente nelle
sezioni più soft; tastiere che intervengono sempre in modo discreto,
funzionale; gli oscuri campionamenti sospesi nei momenti di quiete.
E tanto altro: arpeggi commoventi,
dissonanze jazzy, un rintocco di xilofono qui, una sezione di hammond là, la
chiusura atipica di “Beyond (II)” a base di sax, flauti e tuba…e, a corredo, testi
che potrebbero essere pubblicati in una raccolta di poesie (“The last birds
have left / Exiled by winter / Lights of the North / A dancing halo”; o ancora:
“The heart directs me north, always / Where the sky erupts with colours / A
faint song turns into a storm / Calling me back to where I belong”, giusto per
darvi un’idea del livello…).
Sapete? i COL sempre più io li paragono a quegli orologiai, quegli artigiani che lavorano tutto il giorno agli ingranaggi dei loro orologi, schiena curva e lente di ingrandimento come monocolo. Orologi da riparare, da restaurare. Da costruire. Meccanica ad altissima precisione. La tecnica di questa meccanica, i principi scientifici che la reggono sono sempre quelli. Ma l’orologiaio ricerca sempre un piccolo miglioramento, un passo in avanti rispetto all’ingranaggio costruito in precedenza. Per approssimarsi sempre più a realizzare quel meccanismo perfetto che possa battere il tempo senza sgarrare di un millisecondo.
Ecco, tutta la produzione degli
svedesi mi pare risponda a questo principio-guida: limare e migliorare l’ingranaggio. Usando la loro scienza
musicale e il loro talento.
Scienza + Talento = unicità
dell’artista.
Questi sono i Cult of Luna. Artisti
Unici.
E il loro nuovo ‘orologio artigianale’, The Long Road North, è lì a dimostrarlo.
Voto: 9
Canzoni top: “Cold
Burn”, “An Offering to the Wild”, “Blood upon Stone” (che gran titoli,
ragazzi!)
Momento top: le linee
vocali di “Beyond (I)”, interpretate da Mariam Wallentin; l’arpeggio portante
di “Full Moon”. E tanti, tanti altri…
Canzone flop: nessuna
Etichetta: Metal
Blade
Dati: anno 2022, 9 tracce, 69’
A cura di Morningrise