3 feb 2024

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: BEATRIK


Sedicesima puntata: Beatrìk – “Journey Through the End of Life” (2002) 

Il binomio depressive black metal e Italia non può che far venire in mente i piacentini Forgotten Tomb. Nel capitolo a loro dedicato abbiamo avuto modo di rimarcare un certo orgoglio nel poter rivendicare che una volta tanto una band italiana abbia saputo comportarsi da leader e non da follower, divenendo negli anni un punto di riferimento per un certo tipo di sonorità. 

Con oggi ci gonfiamo il petto di un orgoglio ancora più grande in quanto possiamo dire che i Forgotten Tomb non sono stati gli unici! Il panorama depressive tricolore conta infatti almeno un altro nome di rilievo: quei Beatrìk che dal Trentino, negli stessi anni, sperimentavano le medesime sonorità. 

Anzitutto c’è da dire che i Beatrìk, autori di un paio di ottimi album all'inizio degli anni zero (ed oggi, ahimè, non più esistenti), sono stati coevi alla creatura di Herr Morbid, essendosi formati più o meno nello stesso periodo, anzi addirittura un pelino prima (loro nel 1998 e i Forgotten Tomb nel 1999). Quando nell’agosto del 2002 i Forgotten Tomb davano alle stampe il seminale “Songs to Leave”, solo qualche mese dopo, e per l’esattezza nel dicembre del medesimo anno, anche i Beatrìk esordivano, rilasciando sul mercato un tomo dal nome altrettanto "incoraggiante", ossia “Journey Through the End of Life”. 

I Beatrìk nascevano come emanazione della mente visionaria del polistrumentista Frozen Glare Smara (anche conosciuto come Atratus nella sua altra formazione Tenebrae in Perpetum) per poi consolidarsi come un duo con l'ingresso in formazione del batterista Vilharr (all'anagrafe Enrico Scriminich, compagno di Atratus anche nei sopra citati Tenebrae in Perpetum). I due realizzavano il debutto “Journey Through the End of Life” con l'ausilio esterno del bassista Ferghus. Uscito in vinile in sole 500 copie, l’album sarebbe poi stato ristampato e distribuito l'anno successivo dalla lungimirante Total Holocaust Records. Da segnalare che questa seconda versione non includeva più la trascurabile cover di "Spell of Destruction" di Burzum: dico trascurabile non perché fosse mal fatta o brutta a sentirsi (anzi!), ma perché molto simile all'originale. Del resto quella cover costituiva una vera scelta da intenditori visto che all'inizio della nostra rassegna avevamo definito "Spell of Destruction" probabilmente il primo brano in assoluto di DBM: un indizio importante sulla direzione artistica che i Nostri avevano imboccato. 

Musicalmente parlando, le proposte di Beatrìk e Forgotten Tomb non differivano di molto, offrendo entrambe le band un black metal dall’indole oscura, un black metal burzumiano nel cuore e con vaghi rimandi alle atmosfere decadenti di certo death-doom di inizi anni novanta. In quel sound ancora un po' acerbo ed in parte derivativo, era possibile individuare chiare influenze che gravitavano intorno a quel black metal “rallentato” che, verso la metà degli anni novanta, aveva preso forma grazie all’operato di Burzum, Ophthalamia e (primissimi) Katatonia

Se da un lato è comprensibile come al momento della sua uscita l’opera non avesse certo scombussolato il panorama del metal estremo dell'epoca, nell’ottica di una ricostruzione di come il fenomeno del DBM abbia attecchito e si sia consolidato, l’operato dei Beatrìk si va ad inserire con dignità in un contesto in cui certe band azzardavano una commistione fra black metal e doom - chi con più, chi con meno consapevolezza ed aderenza alla nascente causa del depressive

A nobilitare i Beatrìk e far sì che non possano essere liquidati come una delle tante realtà-fotocopia del black metal del nuovo millennio, troviamo una scrittura fantasiosa con Frozen Glare Smara ad imporsi come un valido riff maker, uno che non si limita a riproporre lo stesso accordo per un quarto d’ora. Questa qualità, unita ai suoni grezzi, al drumming secco ma sufficientemente dinamico, ad uno screaming raggelante che secerne ancora tanta cattiveria, ma anche molta sofferenza, colloca i Beatrìk a metà strada fra un black classico, per certi aspetti ancora fiero e belligerante, e l'emotività degradata tipica di quelle band che di lì a poco si sarebbero professate appartenenti al movimento del DBM. 

La bella traccia di apertura "Buried Among Skeletal Woods" per la prima metà è una marcia funerea che ricorda proprio gli Ophthalamia di "Via Dolorosa" (riferimento che troveremo più volte nel corso dell'ascolto dell'album), con una chitarra ossessiva e liturgica che prende subito per mano l'ascoltatore e lo conduce in scenari di estrema desolazione, fra paesaggi autunnali ed oscure foreste. Nella seconda metà, dopo un breve arpeggio, il brano esplode e si abbandona ai blast-beat di Vilharr, conducendoci in territori darkthroniani, altro riferimento di peso nell'economia del suono dei primi Beatrìk. Il loro non è un black metal rigoroso; è bensì umorale, incostante, scosso da quelle intemperanze che diverranno tipiche del DBM. 

E' un black metal per lo più lento, che ricorre sovente alla chitarra arpeggiata, ma che al tempo stesso non disdegna accelerazioni (si pensi alla seconda traccia, per lo più velocissima, "To Feel the End Near" - non sarà questo l’unico esempio in cui ai Nostri interesserà premere il piede sull’acceleratore). Il riffing ha una vocazione "circolare", aprendosi a più note ed a molte variazioni: da qui l'assonanza con certe tronfie progressioni dei primi Satyricon (quelli di "Dark Medieval Times"). Insomma, quello dei Beatrìk è un black metal che si sviluppa in modo libero, senza gabbie, sedotto da soluzioni melodiche sconosciute ai maestri norvegesi (si pensi al bellissimo assolo nel finale di "Last Dawn" o alle struggenti melodie doom/black di ispirazione “katatonica” che animano la lacrimevole title-track,  probabilmente l'episodio migliore dei sette brani in scaletta). 

Sempre nel post sui Forgotten Tomb ci siamo chiesti se il depressive all'italiana non fosse altro che un black che flirta con il doom e il gothic, e poi solo successivamente etichettato come depressive. Per i Forgotten Tomb la risposta è stata un no deciso, in quanto la consapevolezza nel voler portare avanti un certo specifico messaggio artistico era stato palese fin dall'inizio (si pensi alla copertina di "Songs to Leave" e ai testi dei brani). Con i Beatrìk la risposta è un titubante ni
 
Un ni perché se la vicinanza ai temi prediletti del depressive è chiara, il modo con cui essi sono esplicitati si distanzia da quelli che diverranno i cliché del genere: un insieme di cose che rende i Beatrìk un caso a parte nel più vasto mondo del DBM. L’opera, come anche ribadito dal titolo, intende descrivere il viaggio che si compie verso la fine dell’esistenza terrena ma, approfondendo i testi, vi troviamo ancora un approccio tendente al “fantastico”, all’orrorifico”, alla pura suggestione. 
 
Mi spiego meglio: nel testo di "Beatrìk", per esempio, si menzionano streghe, lupi ed altre figure tipiche di certe tradizioni pagane; in "Last Dawn" si descrivono gli ultimi pensieri di un guerriero in battaglia. Nei testi dei Beatrìk, in generale, non troviamo quel carattere esplicito, didascalico, vivido, descrittivo che molte band depressive abbracceranno per raccontare il loro desiderio di morte: qui le immagini evocate sono ancora molto astratte, la morte di cui si parla è impalpabile, lontana dal sangue, dalla lametta ed anche dal disagio psicologico. Un aspetto che si riverbera sulla copertina, evocante l'idea del viaggio ultraterreno attraverso la silhouette confusa di una mesta carrozza nella penombra: un soggetto fantasy ribadito anche dai caratteri in stile gotico con cui il titolo dell'album è riportato sulla copertina. 

Che i Nostri non fossero immersi fino al collo nella causa del depressive lo dimostra anche il drastico cambio di rotta che si sarebbe registrato con la release successiva “Requiem of December” del 2005. Il platter avrebbe rappresentato per certi aspetti un miglioramento su tutti i fronti (scrittura, esecuzione, produzione), pur non costituendo una evoluzione diretta delle sonorità esplorate con l'esordio. Anzi, ascoltando i due album senza sapere che si tratta della stessa band, verrebbe da dire che sono stati rilasciati da due gruppi differenti. Il suono catturato dai sei brani di “Requiem of December”, infatti, è molto meno black metal del predecessore, spostandosi significativamente verso i lidi del funeral doom, anche da un punto di vista meramente concettuale, visto che l’indagine passerà dalla fase di “pre-morte” a quella del “post-morte”. I due album, in un certo senso, rappresentano la continuazione l'uno dell'altro dal punto di vista concettuale, ma senza avere alcun punto significativo di contatto stilistico. 

I suoni si faranno nitidi, maestosi, monumentali. Poiché gli strumenti sono più finemente ritagliati e ricondotti ad un insieme più ordinato e composto, anche l’approccio all’ascolto cambia, stimolando nell’ascoltatore una ricezione dell'opera più attiva e partecipe. I tempi, in generale, rallentano, il drumming stesso si fa più solenne e funebre, in perfetta simbiosi con le bellissime linee melodiche delle sei corde e con gli interventi di organo presente fra un brano e l’altro a tracciare un continuum lungo tutto l’album, da vedere come un’unica suite di 47 minuti. La voce, infine, si smarca dallo screaming degradato che aveva caratterizzato l’esordio per portarsi a metà strada fra un rauco growl ed un grido disperato. 

“Requiem of December”, stilisticamente inclassificabile, è un’opera caldamente consigliata e probabilmente rappresenta l’apice artistico della band, ma in seno alla nostra rassegna sono i Beatrìk del loro rozzo e toccante debutto a risultare maggiormente centrati nel rappresentare una fase in cui il depressive si stava ancora assestando come movimento autonomo nutrendosi dei contributi di tutte quelle band che, del black metal, intendevano perseguire una visione oscura, introspettiva, sofferente.