Ogni anno a Pasqua, i Cattolici
di tutto il mondo celebrano il rito della Via Crucis, la Via della Croce, il
percorso che, secondo la tradizione, Gesù fece dal Palazzo di Pilato, dove
venne condannato a morte, fino al Golgota - Calvario, luogo della sua
Crocifissione.
Quella via ha tuttora un nome a
Gerusalemme: si chiama via Dolorosa. Questo è anche il titolo di un album assolutamente
straordinario, pubblicato esattamente 20 anni fa (maggio 1995) per conto della
nostrana Avantgarde Music, griffato dagli svedesi Ophthalamia.
Parlare di metal estremo in
Svezia agli albori dei ‘90, così come stava accadendo in quel periodo nella confinante
Norvegia, vuol dire parlare di un ambiente in assoluto fermento, ricco di idee
e spunti geniali ed innovativi. E vuol dire anche parlare di una Scena,
nell’accezione più piena del termine, caratterizzata da una continua
interazione tra diverse band su più livelli: concettuale, compositivo
e di reciproci "prestiti" di musicisti nelle line-up.
In questo contesto gli Ophthalamia
nascono proprio come progetto parallelo di giovani ragazzi impegnati già in
pianta stabile in altri gruppi. Mastermind dell’iniziativa era infatti Tony
Sarkka, in arte IT, polistrumentista leader della Black metal band Abruptum,
che chiamò attorno a sé diversi musicisti, tra cui anche Jon Nodtveidt (si
proprio lui, il genio dei Dissection…R.I.P.) e il suo fratellino Emil.
Ma che cos’è Ophthalamia?
Per rispondere bisogna andare a Finspang, cuore della Svezia, a metà strada tra Goteborg e Stoccolma, paesello di 12.000 anime a vocazione metalmeccanica...insomma, non propriamente un posto ameno. Finspang però ha dato i natali, oltre che al grande Dan Swano dei sublimi Edge of Sanity, anche a It che, probabilmente per evadere dal suo quotidiano, si crea un mondo di fantasia, guidato da una Divinità femminile, chiamata
Elishia (raffigurata nella copertina di "Via Dolorosa"), assistita da orde di demoni: Ophthalamia, appunto. Tutti i loro dischi trattano tematiche
collegate a quel Mondo, governato da proprie leggi e dinamiche e del
quale It tratteggiò, come un novello Tolkien, anche gli ambienti relativi:
spiagge, mari, monti e persino una nuova lingua per i suoi abitanti.
Spostandoci sul versante
musicale, la proposta degli Ophthalamia è davvero unica e coinvolgente perchè riesce a coniugare in maniera mirabile
la grande tradizione del doom svedese (Candlemass, i Tiamat del capolavoro
“Clouds”, alcuni stilemi dei primi Katatonia) con quello che era l'approccio degli Abruptum e dei Vondur, band di origine di It e del
primo vocalist, ALL (Jim Berger).
Dopo il primo, notevole, full-lenght “A
journey in darkness” del 1994, il botto arrivò l’anno successivo con "Via Dolorosa". Cambiato il
vocalist (via All, dentro LEGION), It creò un intreccio complesso, ardito e
originale di riff gelidi, malinconici e potenti, dando vita a una sorta di doom
oscuro, molto melodico e fortemente progressivo (con rimandi neanche troppo velati al rock settantiano). Capisco...difficile da immaginare, eh?!
All’interno dei singoli brani, che sono tutti molto lunghi e che si assestano (ad eccezione dei sensazionali “Intro – Under ophthalamian
skies” e “Outro – Message to those after me”) sui 7-11 minuti, la band quasi
senza soluzione di continuità cambia ritmi e umori lungo 68’ di
assoluta genialità compositiva. Il basso dell’appena 19enne Emil Nodtveidt, qua
in arte NIGHT, è sempre in bella evidenza e si ritaglia spazi importanti,
cesellando le sue parti all’interno delle ricamate ragnatele di chitarra di It.
Il disco si dipana quindi attraverso chiaroscuri suggestivi in cui le trame chitarristiche
ci guidano in maniera serrata ed inquietante nel mondo ophthalamico, salvo poi liberare la tensione accumulata con aperture melodiche struggenti.
Emblematiche in tal senso gli highlights “Slowly passing the frostlands” e
“Ophthalamia”.
E il Black? Beh, nonostante la
consueta miopia dei critici musicali che lì definì come una melodic-black metal
band, del Black che si suonava in quegli anni in Scandinavia, e soprattutto
com’era stato codificato nei tre anni precedenti in Norvegia, avevano davvero poco. Qualche richiamo in merito lo possiamo ritrovare giusto nella freddezza
dilatata di alcuni accordi arpeggiati, nell’utilizzo in tutta la seconda metà
del disco della lingua svedese o nella riuscitissima cover bonus di “Deathcrush” dei Mayhem. E ancora in parte nella voce strepitosa dell’allora
ventenne Erik Hagstedt, in arte Legion (lo so, originalità dei nomi pari a zero..):
la sua prova dietro al microfono fu talmente strabiliante che dall’anno
successivo venne assoldato addirittura dai Marduk. Ma rispetto ai canoni norvegesi lo
screaming di Legion, alternato ad azzeccatissime parti narrate o sussurrate come
nella splendida titletrack, era più cavernoso, più corposo, meno agonizzante e/o
sofferente.
Estrapolare una singola canzone dall'album è davvero impossibile, essendo tutte tasselli collegati di questa via di dolore all’interno del
mondo di Ophthalamia. Anche la produzione, nonostante l’album venne autoprodotto
in appena sei giorni, rende pienamente il mood del disco che rimane sì sempre
intriso di dolore ma al contempo disseminato di inaspettate aperture melodiche,
suadenti mini-assoli ed epiche partiture dark/doom.
Il progetto però non proseguì a lungo, sia per
gli impegni nella rispettive band di provenienza dei componenti sia per il
fatto che in Svezia il 1995 fu l’…Anno, con la A maiuscola! Uscivano infatti il
trittico di dischi-capolavoro che avrebbe marcato la nascita del c.d. Swedish
Death Metal, alias “Gothenburg Sound”. Contro “Slaughter of the soul” degli At
the Gates, “The Gallery” dei Dark Tranquillity e “Subterranean” degli In Flames
(perfetto EP apripista per l’altro masterpiece “The jester race” che uscirà
agli inizi del 1996) poco si poteva fare per emergere, stargli sopra e catturare l'attenzione di pubblico e critica. E senza contare che quello stesso anno facevano il loro esordio, con l'abnorme "Orchid", dei tizi di Stoccolma di nome Opeth...detto tutto...
E così, dopo il valido ma inferiore “Dominion”
del 1998, gli Ophthalamia, probabilmente esaurita quell’urgenza comunicativa
che aveva caratterizzato le loro prime opere, non produssero più nulla.
Quello che ci rimane da questa
decennale esperienza è un gioiello: “Via Dolorosa”, un esempio fulgido di
sperimentazione che non conoscerà esempi analoghi negli anni a venire, diverso
anche dalle esperienze death/doom delle grandi band coeve inglesi e olandesi.
Il Black avrà sì mille derive, mille contaminazioni interessanti, ma nulla di
simile alla proposta degli Ophthalamia, che portarono la personale croce di
sofferenza musicale fino al loro Golgota per poi spegnersi under an
ophthalamian sky…(“Grey and cold is the gloomy ophthalamian sky / It’s under
that majestic sky I’m ready to die”).
Capolavoro da avere in ogni
collezione metal che si rispetti.