29 mar 2024

Capitolo 1 - UNA FRONTIERA UNDERGROUND NEL METAL ESTREMO: GLI ZULU

 


Iniziamo il nostro viaggio nel calderone ribollente del Deep South degli Stati Uniti attraverso le nuove frontiere dei generi (per chi ama le etichette): punk, hardcore, thrash, sludge, noise, grind e... rap! 

Molti dei gruppi oggetto di questa Rassegna sono segnalati e sostenuti dal Southern Punk Archive che è un database attivo nell'Università del Mississippi. Ma, per testimoniare la varietà del sound, ho aggiunto spunti e riflessioni personali, perché credo siano realtà degne di attenzione. 

Per coloro che non maneggiassero bene il powerviolence possono ripassare l’operato della label Slap-a-Ham Records di Chris Dodge (bassista e cantante degli Spazz): un sottogenere estremo dell'hardcore punk legato al grind. Chris Dodge a San Francisco ha plasmato l'ibrido californiano del fenomeno con band come i Melvins, Neanderthal, No Use for a Name e Fu Manchu. Similmente il batterista degli Spazz, Max Ward, fondò un’etichetta, la 625 Thrashcore che diede anch'essa un contributo al powerviolence.

Troppo fango i neri hanno mangiato da queste parti per ignorare gli Zulu e la loro proposta. Si dovranno ricredere coloro che pensavano alla musica nera come rap, soul o r’n’b perché, in questa ottica, “A New Tomorrow” sembra un presagio più che un titolo.

Gli Zulu hanno una missione: ampliare i confini dell’hardcore del nuovo millennio mischiandolo con l’urgenza comunicativa delle radici black. Trascinare i numerosi stili della musica nera nell’universo estremo, iniettando blastbeat e riff con campionamenti classici soul e reggae, per stemperare il nichilismo e liberare un caleidoscopio di perseveranza verso un futuro migliore. 

La sofferenza dei neri è il centro dei testi, ma è come se considerassero inutile ripetere la loro situazione senza mai mettere in evidenza i valori positivi. Le parole della cantante Anaiah Lei ci aiutano in questa ricetta: Siamo favoriti dal sole da quando veniamo creati con la pelle morbida e dolce come una serenata. Potremmo essere pallidi come marshmallow o ricchi come la roccia basaltica del Nyiragongo. Perché devo raccontare solo il nostro dolore quando la forza è l'azzurro delle nostre vene?

Quello che fa degli Zulu qualcosa di  nuovo in un panorama violento è l'intento di rapportarsi alla realtà non solo con rabbia ma attraverso l'orgogliosa celebrazione della creatività black nel recinto di sonorità svilitesi sui gusti bianchi. Secondo Anaiah Lei, il legame tra musica estrema ed espressioni di rabbia per il clima attuale è troppo prevedibile: Volevo che ci fosse un po' di musica dal suono arrabbiato, ma ascolta attentamente ciò che viene detto e non sarà quello che pensi che sia, perché non si tratta solo di aggressività. Voglio dire, sì, ce n'è un sacco, ma io sono stanca di dare quello che ci si aspetta. Voglio esprimere amore.

Anaiah Lei è una polistrumentista che ha iniziato la sua carriera da adolescente insieme al fratello Mikaiah Lei nella band indie rock The Bots. Ha fondato gli Zulu nel 2018 e con i primi due EP, “Our Day Will Come” del 2019 e “My People... Hold On”, ha defininto lo stile della band: sferzate grind e groove con campionamenti di artisti classici soul e reggae a favore della comunità nera.

Attraverso 15 tracce che non raggiungono nemmeno mezz'ora, gli Zulu sono un contatto tra mondi disparati, non una contraddizione.

"Lyfe Az A Shorty Shun B So Ruff" (che è un riferimento al verso del rapper Inspectah Deck dei Wu-Tang Clan) è il paradigma del loro modo di intendere il power violence e anche interludi come "Shine Eternally" consigliano, a loro modo, di prendere cura di noi stessi e di non perderci nell'aggressività. 

La forza dinamica della powerviolence non è la parte più rumorosa di “A New Tomorrow”, ma consiste nel modo in cui l'album incorpora le urla in brani eseguiti con gli stili resi popolari dai neri. Per questo, è un disco audace, espressione di un sentimento  solidale che si esprime in un mondo in cui everyone wants to be black, but nobody really wants to be black. Forse è presto per parlare di un vero movimento, ma è chiaro che da queste parti, quelle dei suoni con cui storicamente si è fatta la rivoluzione, qualcosa si sta muovendo. Tutto questo porta a una narrazione non lineare che alterna stili e generi. Dall’aggressione di pezzi come “For Sista Humprey” o “Fakin’ Tha Funk (You Get Did)” fino ad accattivanti intermezzi strumentali o spoken words.

In questa opera di ibridazione e di arricchimento dell’hardcore con temi cari alla comunità nera americana (come l’abuso bianco o il degrado delle periferie), i Nostri definiscono la loro presenza nella scena.

Alla fine di questo viaggio ci si ritroverà in un’altra Africa che è la disillusa e disperata America delle periferie

Ma questo è solo il primo passo...

To be continued...