Diciannovesima puntata: Krohm - "A World Through Dead Eyes" (2004)
A questo punto della nostra rassegna, e giunti al 2004, possiamo dire che il depressive black metal aveva sfornato i suoi classici. Da adesso in poi, dunque, i lavori che andremo ad analizzare apparterranno ad un mondo di nicchia sconosciuto ai più, con qualche eccezione qua e là volta a rappresentare coloro che, nel corso degli ultimi venti anni, hanno saputo far parlare di sé per aver introdotto significative novità nel genere sia a livello stilistico che concettuale.
Giunti alla diciannovesima puntata, non possiamo nemmeno più ignorare il fatto che nel corso della seconda metà degli anni novanta si era sviluppato in parallelo un altro sotto-genere estremo con la vocazione di sondare i recessi più degradati dell'animo umano: il funeral doom.
Funeral doom e DBM si sarebbero talvolta intrecciati, come testimoniato da nomi quali Nortt ed Abyssmal Sorrow. Un punto di contatto fra i due mondi è anche costituito dal signor Dario Derna che ha suonato le tastiere negli Evoken (fra le entità più illustri del funeral doom) e che troviamo anche alla guida del progetto Krohm, il cui debutto "A World Through Dead Eyes" è l’oggetto del nostro interesse quest’oggi.
Si parla di un black metal malinconico e dal passo sconsolato che tiriamo dentro il calderone del depressive per le tematiche trattate. Quanto all'impatto complessivo, la musica dei Krohm non costituisce una esperienza degradante come altre. Il tutto paradossalmente fila liscio, liscio come l'acqua: non proprio, però, come berne un bicchiere, ma almeno una cisterna, considerata la pesantezza della proposta. A trionfare in questo debutto targato 2004 sono un discreto equilibrio compositivo, la pulizia dei suoni ed una certa eleganza di fondo che avvicina i Krohm alle realtà più patinate e ripulite del DBM (potremmo citare gli Shining e i Forgotten Tomb dei loro lavori intermedi), sconfinando nell’atmospheric black metal grazie alla fondamentale influenza esercitata da un lavoro come “Filosofem” di Burzum.
Ogni strumento si guadagna il suo meritato spazio, persino il basso è udibile, sebbene l’opera non perda quel carattere minimale che caratterizza il genere. Per dire: i tempi sono in genere lenti, ma la batteria viene utilizzata con perizia, offrendo svariate variazioni sul tema (incluse porzioni di doppia-cassa) che rendono il tutto più scorrevole. La chitarra occupa il centro della scena, ma senza strafare, concentrandosi principalmente sulla dimensione ipnotica di arpeggi elettrificati che si avvicendano con grande mestizia.
La voce è uno screaming sconsolato che rifugge ogni tentazione teatrale per farsi lamento e complemento alla musica. Le tastiere vanno e vengono, quasi mai svolgono un ruolo predominante, ma come la cera sulla carrozzeria di una automobile, esse rendono più plastiche e brillanti le forme dei brani apportando sfumature che alla lunga aiutano a digerire meglio una musica che non ama gesti eclatanti. Un ascolto passivo non rende certo giustizia ad un album elaborato e definito nei dettagli: è semmai una partecipazione attenta all’esperienza che potrebbe far entrare i Krohm nelle vostre grazie.
Se infatti non indicheremmo il progetto fra i nomi più rappresentativi del DBM, di certo consigliamo l’ascolto di questo “A World Through Dead Eyes” a chiunque abbia il debole per atmosfere sinistre e notturne: 53 minuti, sette brani di considerevole lunghezza, umori costantemente settati su una tristezza soffusa ed impalpabile. Sensazioni che vertono sistematicamente sulla fatica e sull’insostenibilità del continuare a vivere (evviva!) si intrecciano ad una narrazione onirica (per mezzo di immagini musicali che si susseguono senza strappi, come in un sogno appunto) ed alla ricerca esoterica (con il sacrificio di sé a costituire il degno epilogo di una miserabile esistenza). Tutto perfettamente descritto dalle suggestive parole della "carezzevole" “When Morning Never Returned”, brano cardine del platter:
“From towers of sleep, down coiled steps
I slowly descend, to my oneiric dungeons
Knowing that I walk to meet my shadow
And greet pure anguish, pure desecration
I reach an alcove lit by a strange moon
Where a familiar body lies on the ground
What secrets have brought me here?
(only the breathing trees can know ...)
The crystal visions shatters into reflection of frozen blood
As the knife in my hand, reveals the final moment
(... in the forest, you will die ...)
And the dead rejoice with glee
For the night has bestowed their coldness in me!”
Azzeccata, a mio parere, l’immagine che descrive la discesa, lungo gli scalini a chiocciola, all'interno di una torre - con la torre che già di per sé restituisce l’idea di isolamento - mentre il processo discendente è atto a descrivere l'idea della fuga della realtà e di una lenta penetrazione in un’altra dimensione, con la Notte che sussurra (si vedano le parole fra parentesi), si insinua, suggerisce, conduce subdolamente al “gesto fatale”.
Parole ed immagini azzeccate perché ben rappresentano le sensazioni che ci accompagnano lungo l’ascolto con le iniziali “I Suffer the Astral Woe” ed “A Lurking Dream” (sette minuti cada una) a dare il benvenuto fra arpeggi burzumiani, stratificazioni lacrimevoli di chitarre ed un incedere avvolgente, quasi cullante.
La splendida “The Waning” costituisce il primo picco dell’opera, mostrando un piglio più dinamico (l’inizio è in blast-beat) ma sempre al servizio di frasi melodiche da brividi. Gli intrecci di chitarre elettriche ed acustiche e quelli di chitarre e tastiere rappresentano i momenti di maggiore fascino e pregio della musica dei Krohm.
E’ con la già citata “When Morning Never Returned” che l’album cambia passo, spostandosi su un piano più meditativo attraverso passaggi memori del funeral doom degli Evoken e tastiere fantasmatiche - più invadenti del solito - che sembrano voler mimare le spesse nebbie che si addensano sul terriccio di un cimitero: desolazione dell'anima allo stato puro.
Da lì in poi l’ascolto si farà più ostico per chi non è avvezzo alle sfide del DMB, ma esaltante per chi quelle sonorità le mastica: una cappa asfissiante che cala sull’ascoltatore in modo crescente, progressivo, fino ai nove minuti e mezzo della superba “My Hearse” che conclude l’opera all’insegna di funeree suggestioni acustiche e, in qualche modo, spezzando (almeno nella forma) quelle modalità operative che erano state portate avanti con metodo rigoroso.
Rigore è forse la parola che può meglio descrivere il modus operandi del sig. Derna nel suo debutto come Krohm, dimostrando discrete competenze esecutive e la volontà di confezionare un prodotto sofisticato e di qualità da tutti i punti di vista, inclusi produzione ed arrangiamenti. Forse qui l'equilibrio e il raziocinio finiscono per prevalere sull’estro, il tutto può sembrare un po' algido rispetto ad altre estrinsecazioni del DBM, più immediate ed estreme. Si avvicini dunque con circospezione chi del depressive predilige una concezione morbosa e sbalestrata, mentre si facciano avanti senza esitazioni tutti gli altri...