6 ago 2024

I MIGLIORI ALBUM DI ATMOSPHERIC BLACK METAL - AGALLOCH: "PALE FOLKLORE" (1999)


Una cosa importante da precisare in merito all’atmospheric black metal è la sua duplice natura. E’ un genere di nicchia, con le caratteristiche che abbiamo visto in sede di introduzione e che ha introdotto un modus operandi che si sarebbe presto propagato per l’intero globo, in particolare ispirando una dimensione in solitaria fatta di misantropi armati di chitarre, tastiere, laptop e vogliosi di esplorare con la loro musica gli infiniti spazi della mente, fra natura, folclore, esoterismo, fantasy ed esplorazioni galattiche (mi riferisco a nomi come The Ruins of Beverast, Midnight Odissey, Mare Cognitum, Panocticon, Paysage d’Yver e moltissimi altri). 

L’atmospheric black metal, tuttavia, ha anche avuto un ruolo di rigenerazione nella storia del black metal, perché è proprio grazie all’ampliamento del range espressivo che il black metal è potuto arrivare ai nostri giorni. Il black metal duro e puro c’è ancora ed esisterà per sempre, ma è oggi un ambito di applicazione limitata, visto che le band odierne preferiscono ricorrere all'introspezione, all’atmosfera per imporsi all’attenzione del pubblico contemporaneo, ben propenso ad immergersi in brani lunghi e dalle mille sorprese piuttosto che nella violenza senza compromessi di certo black metal satanico, ideologico o guerrafondaio. Questa rigenerazione è avvenuta grazie a band che hanno saputo rileggere le lezioni dei maestri scandinavi degli anni novanta attraverso una nuova sensibilità. Fra queste hanno avuto un particolare rilievo certe formazioni nord-americane: un paradosso, se si pensa che la terra americana era stata da sempre un territorio storicamente ostile al black metal, essendo stata prima la culla del thrash metal e poi quella di molto death metal (generi più pragmatici e fondati sulla tecnica). 

Di solito si fa coincidere l’avvio della brillante stagione dell’US Black Metal con i Weakling che nel 1999, già dopo essersi dissolti, davano alle stampe il masterpieceDead as Dreams”, ma tendiamo a dimenticare che nel medesimo anno usciva anche “Pale Folklore”, il debutto discografico degli Agalloch. E proprio del combo dell'Oregon parleremo oggi. 

Gli Agalloch sono autori di una carriera straordinaria, seppur concentrata in pochi dischi ed EP. Dire quale sia il migliore fra i primi tre album è una lotta durissima: quei tre tomi, così diversi fra di loro, si fronteggiano a testa alta, ognuno con caratteristiche peculiari da offrire. Per convenzione si usa indicare come momento più alto della loro discografia il terzo “Ashes Against the Grain” (2006), album della maturità e capolavoro formale che sapeva coniugare l'intensità del black metal con la forza descrittiva del post-rock. Percorso che era già stato avviato con il precedente “The Mantle” (1999), peraltro intriso di umori squisitamente (neo)folk. Il debutto “Pale Folklore”, invece, era nato sotto la stella del gothic metal - retaggio probabilmente della militanza nei doom-deathers Aeolachrymae da parte di alcuni membri della band - cosa che rendeva il black metal degli Agalloch estremamente suggestivo e tendente all'atmosferico. 

La proposta di John Haugham (voce, chitarra, batteria), Don Anderson (chitarra), Jason William Walton (basso) e Shane Breyer (tastiere) guardava infatti a nomi come Katatonia ed Opeth, oltre che a certe propaggini più melodiche del black metal scandinavo come Dissection e primi Ulver, privilegiando la dimensione atmosferica ed introspettiva ed espandendo il black metal in direzione folk e progressive. 

Di base c’era un profondo legame concettuale con quelle terre scandinave che avevano dato il la per un nuovo paradigma del metal. Potrebbero essere stati i suggestivi paesaggi boschivi del freddo Oregon, fatto sta che in questo primo lavoro si respira aria di Svezia e Norvegia, sentori di natura incontaminata ed antichi riti pagani: una sensazione che sembra esalare direttamente dal monicker prescelto ("agalloch", dal greco, è il durame resinoso che si forma negli alberi di Aquilaria quando vengono infettati da un particolare tipo di muffa: l'albero produce una resina aromatica apprezzata per il suo profumo caratteristico ed usata per produrre incenso e fragranze). 

Sebbene le influenze siano evidenti, il tocco degli americani rimane unico e destinato ad aprire ulteriori nuove vie nel black metal, da quello più di stampo folk a quello che verrà definito post-black metal, senza sminuire l’importanza per lo sviluppo del filone atmosferico. 

Più di un’ora di durata per otto brani (anzi sei, se si considerano i primi tre come parti di un’unica lunga suite) è il biglietto da visita per addentrarsi nel suono misterioso ed affascinante degli Agalloch. Il cuore pulsante della band è Haugham, compositore principale, voce, chitarra, anima e pure batterista nei primi due album della band: il suo drumming non è sopraffino, ma è sufficientemente vario per supportare le evoluzioni di questi brani, così imprevedibili e coinvolgenti. Per qualcuno questo potrebbe essere un limite, ma a parere di chi scrive è un’ulteriore arma vincente di questi primi Agalloch, impegnati ad inseguire le proprie visioni e tramutarle in emozioni per l’ascoltatore, e non più di tanto interessati a levigare le forme (questo, come si diceva sopra, avverrà con “Ashes Against the Grain”). 

Come tutto il resto, la batteria è suonata con il cuore, perfetta nello scandire adeguatamente le melodie struggenti che pervadono il platter con efficacia katatoniana (un plauso nello specifico all’altra ascia Don Anderson, incaricato delle parti soliste). Capolavoro nel capolavoro è la suite iniziale “She Painted Fire Across the Skyline”, divisa in tre sezioni, lunga in tutto una ventina di minuti. Il brano coinvolge fin dall’inizio fra il soffiare del vento (un espediente "scenico" che verrà utilizzato più volte durante il disco) e fraseggi di chitarra che sembrano uscire dalle mani di Gregor Mackintosh dei Paradise Lost. Ci vorranno diversi minuti prima che il brano prenda il suo avvio, ma fra intrecci chitarristici da brividi, pause riflessive ed epiche ripartenze, grandi aspettative si genereranno nell’ascoltatore. Aspettative che non verranno in nulla disattese grazie ad un sound dinamico che non risparmia colpi di scena e passaggi di grande suggestione, a partire dall’attacco della voce che mette subito in risalto una delle caratteristiche che diverranno tipiche dell’Agalloch-sound: il sussurro spiritato di Haugham, a metà strada fra uno screaming e un bisbiglio, per l’occasione accompagnato dai gorgheggi di un soprano femminile. 

Dopo un così sublime tour de force emozionale, solo una strumentale atmosferica poteva essere una soluzione possibile, ed infatti gli Agalloch capiscono che è il momento di riprendere fiato, piazzando strategicamente i quasi cinque minuti di “The Misshapen Steed”, di sole tastiere e rumori ambientali, divisa fra momenti di pura poesia pianistica e passaggi più maestosi di intensità morriconiana. A metà strada fra dungeon synth e colonna sonora di film fantasy, la traccia non rappresenta assolutamente un riempitivo, anzi, è proprio qui che ti rendi conto della caratura da entità superiore degli Agalloch, sempre padroni della materia sonora da loro maneggiata, attenti a calibrare con il giusto equilibrio le diverse componenti della loro visione sfaccettata (un equilibrio che io oserei descrivere come pinkfloydiano, sebbene non vi siano da aspettarsi, a livello stilistico, grandi affinità con la storica band inglese). 

Il secondo lato dell’album si presenta in modo più canonico, suddiviso in quattro lunghi brani che continuano ad esprimere le qualità dell’ensemble in un’ottica meno progressiva, più gothic-metal oseremmo dire, ma riuscendo sempre dannatamente magnetica: ritmi travolgenti, cambi di tempo, prelibatezze acustiche, riff ed arpeggi memori dell’epopea darkwave, con in primo piano un gusto melodico ed una capacità di scrivere brani vari e fluidi decisamente fuori dal comune. Fare un track by track a questo punto risulterebbe noioso quanto inutile, dato che probabilmente chi sta leggendo queste parole conosce i brani già a menadito, ma – almeno a titolo personale – lasciatemi segnalare la bellezza di “As Embers Dress the Sky”, aperta da cori puliti di ulveriana memoria. 

La band, secondo alcuni ancora gravitante con questo debutto nell’ampio bacino del gothic metal, si orienterà successivamente verso un sound più blackish (percorso che toccherà il suo apice con il crudo “Marrow the Spirit”): un medium sonoro che si rivelerà via via il più congeniale per assecondare/supportare la vocazione alla ricerca spirituale che fin dagli esordi ha caratterizzato il cammino degli Agalloch. E non è un caso che, insieme al black metal, la band approfondirà anche la propria indole neo-folk (un genere che - si è visto - presenta salde connessioni con il black metal stesso), annettendo nel proprio bagaglio sonoro elementi mutuati dal canzoniere di Death in June e Sol Invictus

L’impressione, più che altro, è che gli Agalloch abbiano sempre agito in piena libertà, scegliendo di volta in volta la veste sonora che meglio calzasse ai propri intenti poetici. E questa liberà, invero, si è trasmessa al black metal come genere, più libero oggi - grazie a band come gli Agalloch - di mantenere una propria “purezza” grazie a solide basi concettuali e senza doversi barricare dietro ad invalicabili rigidità stilistiche. Una lezione fondamentale, questa, per chi in seguito avrebbe intrapreso la via dell'atmospheric black metal...