11 ago 2024

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: HYPOTHERMIA



Trentesima puntata: Hypothermia - "Rakbladvalsen" (2007) 

Giunti alla trentesima puntata tonda tonda mi sento di dire che stiamo iniziando ad entrare nel vivo della nostra rassegna sul depressive black metal. Lo facciamo ripartendo dalla Svezia, un'altra importante patria del depressive. Perché se è vero che il genere ha mosso i primi passi nelle lande norvegesi grazie alle intuizioni dei vari Burzum, Forgotten Woods e Strid, è con band svedesi come Shining e Silencer che il DBM, ed in particolare la sua costola suicidal, ha assunto le forme sonore che oggi associamo a queste etichette. 

Anche gli Hypothermia sono svedesi e il loro leader Kim Carlsson, come i conterranei Niklas Kvarforth e Nattramn, può essere descritto come un eroe del depressive

Abbiamo già fatto le conoscenze di questo personaggio nelle puntate dedicate ai Lifelover ed ai Life Is Pain, con i quali il Nostro scriveva pagine leggendarie del genere trattato in questa rassegna. Ma il progetto che più di ogni altro può essere indicato come il più rappresentativo della squilibrata visione artistica di Carlsson è quello che porta il raggelante - e non certo invitante - nome di Hypothermia, ove egli, oltre che cantare, suona la chitarra e riveste il ruolo di principale compositore. 

Anche gli Hypothermia, come i Lifelover, sono espressione di un modo di essere "diversamente depressive" che, oltre a concretizzarsi in un'esperienza di ascolto di per sé esaltante, ha saputo introdurre sfumature inedite all'interno del depressive. Carlsson, infatti, è anche uno degli artisti di maggior peso per quanto riguarda lo sviluppo della corrente del post-suicidal black metal, forzando i confini del DBM e finendo per superarli: in direzione rock/post-punk con i Lifelover, verso il post-rock con gli Hypothermia. Quest'ultimi vengono fondati nel 2001 ed arrivano ai nostri giorni attraverso scelte stilistiche coraggiosissime che li hanno condotti dal black metal al post-rock strumentale. "Rakbladvalsen", terzo lavoro edito nel 2007, è l'album spartiacque fra le due fasi artistiche ed è in grado di intercettare e bilanciare suggestioni provenienti da entrambi gli universi sonori. 

Ad oggi (salvo future inversioni di marcia) il repertorio più prettamente metal si concentra nei primi tre tomi, affogati in un mare di demo, split ed EP come da tipica tradizione del DBM. In questa prima fase la band era composta dai soli Carlsson (chitarra e voce) e Nachtzeit (batteria). C'è da dire che fin dagli esordi gli Hypothermia non si sono dimostrati accomodanti nei confronti dell'ascoltatore: esordivano con "Veins" (2006), un album tutto sommato breve, di soli 36 minuti, ma con tre tracce a coprire l'intera durata del platter (di cui una traccia di 18 minuti). Proseguivano con "Köld" (sempre del 2006), il quale estendeva il minutaggio (46 minuti) e contestualmente riduceva il numero dei brani (solo due, rispettivamente di 27 e 19 minuti). Si arriva dunque a "Rakbladvalsen" che supera l'ora di durata e di brani ne conta quattro: brani che in realtà sono da vedere come le quattro sezioni di un unico viaggio sonoro. E di queste quattro sezioni solo la prima conta 35 giri di orologio. Come appropinquarsi ad un'operazione del genere? 

Con tanta, tanta pazienza. Lo dico da persona che è abituata ad ascoltare musica dove non accade nulla, ma davvero nulla, e devo ammettere che con "Rakbladvalsen" mi sono ritrovato innanzi ad uno dei dischi più estremi in tal senso. La ripetitività tinta di umori ossessivi può avere il suo fascino, ce lo ha insegnato BurzumCerti artisti, e non da ieri o dall'altro ieri, ci hanno fondato carriere intere, a volte in modo geniale, altre con non poca furbizia, e a noi è andata sempre bene così, non ci siamo mai fatti troppi problemi. In questo caso, tuttavia, anche la pazienza dell'ascoltatore più smaliziato sarà messa a dura prova. Ed attenzione: toglietevi dalla testa drone, ambient ecc.: qui si parla il linguaggio di un black metal molto scarno ed essenziale che procede attraverso la estenuante ripetizione di riff su pattern ritmici mediamente lenti. I nomi a cui dice di ispirarsi la band sono Burzum ed Arckanum (one-man band svedese che personalmente non conosco e che - mi si perdoni - non ho voglia di approfondire, almeno in questo momento storico). Il titolo dell'album, tradotto dallo svedese, significa "il walzer delle lame", ed abbiamo già detto tutto. Anzi no...

In "Del I" lo stesso mood si trascina per circa 35 minuti con qualche variazione (sia ritmica che melodica) a dare la forza all'ascoltatore affinché proceda avanti con l'ascolto. Al termine di ogni giro ti aspetti qualcosa, speri che accada qualcosa, una cazzo di qualsiasi qualcosa, ma niente, ogni speranza naufraga miseramente, ogni volta, minuto dopo minuto, fino alla fine, non succede proprio un cazzo. A tratti ti senti preso per il culo e spunta il sospetto che non si tratti altro che di una lunga jam improvvisata da due musicisti modesti: ti immagini 'sti due coglioni con gli occhi chiusi e la sigaretta in bocca che continuano a suonare all'infinito dietro l'ispirazione di una mezza idea. Con il trascorrere del tempo, tuttavia, il brano acquisisce un carattere ipnotico e la malinconia del riff non stufa, anzi, in qualche modo finisce per avvolgerti. Ci si ferma, si riparte, la batteria è sempre settata su tempi pacati, nei primi minuti i singulti di Carlsson ci ossessionano, uno screaming veramente strozzato in gola, il suo, da pazzo suicida, poi anche quello si eclissa e rimangono per molto, molto tempo solo la chitarra e la batteria (da notare che la mancanza di basso incide nella resa complessiva rendendo il suono ancora più gelido e vuoto di speranza). 

Alla fine di questo primo brano mi sono dovuto andare a tradurre il testo (dallo svedese) perché dovevo capire a quale messaggio lirico si prestasse questa sinfonia straziante. Eccolo riportato per intero in una traduzione arraffazzonata direttamente copiata da Google Translate:

"Le mie dita odorano di sangue, / Dolce, aspro, noioso, astringente, dall'odore amaro / Un fetore di carne e pelle in putrefazione / L'odore copre i miei vestiti, il mio corpo / Tessuto cicatriziale che si apre per ulteriore decadimento / Questo mi disgusta e mi affascina immensamente / È bello ma disgustoso / Il confine tra amore e disprezzo non è mai stato così netto / Il braccio è rovente, il sangue nelle mie vene brucia e mi lacera / Sta ribollendo dentro di me, sono in fiamme dentro / Un'incisione farebbe sparire ulteriormente il dolore o semplicemente lo peggiorerebbe?"

Bene, si sarà capito che siamo nella narrazione più basica e didascalica che ci possa essere, la mera descrizione delle sensazioni che prova una persona che si sta tagliando le vene. I due brani successivi, pur con durate più contenute e l'impiego di tempi leggermente più veloci (ma non attendetevi un grande brio, eh!), si muovono sulle stesse coordinate stilistiche. Chi fosse interessato a sapere come la storia va avanti legga qua sotto (occhio agli spoiler!):

"La puzza diventa sempre più evidente più a lungo rimango con essa / L'odore oscuro del sangue rappreso non può essere ignorato / Sotto, il sangue che è stato erogato si sta ancora muovendo / Striscia sotto la pelle, nella pelle, sulla pelle... / Non è molto chiaro se le ferite stiano guarendo o marcendo / La puzza difficilmente fa chiarezza sulla faccenda, anzi il contrario..."

E dunque:

"Il caldo persiste e brucia peggio di prima / Mi brucio con il mio stesso sangue / Apro ancora una volta le ferite rimarginate / Per far emergere la fiamma infernale che mi brucia nelle vene / Le mie vene scoppiano e il mio braccio coperto di sangue coagulato torna in vita / Non riesco più a contare il numero delle ferite aperte, il sangue riempie il tessuto cicatriziale e gli ridà vita / Ho le vertigini per tutto il sangue che scorre lungo il mio corpo e che ne esce coprendo il pavimento / Il mio braccio inizia a diventare insensibile e le punte delle mie dita formicolano, brividi freddi pulsano lungo il mio corpo / Mi sento lentamente perdere conoscenza sempre di più con ogni goccia di sangue che lascia le mie ferite / Il campo visivo diventa sfocato e non riesco più a sentire quello che dico, non sento niente, non sento niente, non vedo niente / Sto lentamente sanguinando e mi avvicino all'incoscienza di minuto in minuto..."

"Del IV" è una strumentale che riprende il tema melodico della prima parte dell'album (e come dimenticarselo?), lo fa senza parole come se il processo di dissanguamento proseguisse senza che il protagonista della vicenda narrata sia cosciente per poter raccontare le sue sensazioni. Come silenti titoli di coda, le note scorrono senza distorsioni, in una "marcetta" post-rock che va ad anticipare il corso futuro della band. 

Tramutatosi in trio (via Nachtzeit, dentro Johannes Abrahamsson e Richard Abrams, rispettivamente a chitarra e batteria), il combo svedese si allontanerà ulteriormente dal black metal, ma senza abbandonare il mood depressivo. Il bellissimo "Skogens Hjärta" (2010) sarà una suite strumentale di quasi un'ora e dieci, perché il lupo perde il pelo ma non il vizio

Tornando a "Rakbladvalsen", questo è un album indubbiamente particolare e va trattato con un certo sforzo di comprensione, non come fanno certi recensori in rete che lo tacciano di prolissità in modo anche troppo frettoloso. Quando infatti si parla di un disco di depressive bisogna tener conto che le logiche che stanno dietro alla sua stesura non sono quelle di una band normale: chi si muove in questo campo, si diceva, si focalizza su determinati stati d'animo e il modo per esprimerli può prendere delle pieghe che possono non piacere a tutti. 

O non piacere affatto: si parla un linguaggio estremo, spesso parlato da menti deviate. 

Prendere o lasciare....