6 nov 2018

AN EVENING WITH...KING CRIMSON (LIVE AT LONDON PALLADIUM, 03/11/2018)


Questa volta Londra arriva dopo l’Italia. L’“Uncertain Times” tour 2018 dei King Crimson aveva solcato gli italici lidi già quest'estate per approdare solo in autunno inoltrato nella terra di Albione. La parte di redazione di Metal Mirror con base nella capitale inglese, seppur in ritardo rispetto ai fan italiani, non poteva esimersi dal presenziare all’evento per tributare i dovuti onori a sir Robert Fripp, uno dei più grandi geni musicali di tutti i tempi. 

Ah già, i King Crimson non suonano proprio metal, ma eccovi tre ragioni per cui dovreste ascoltarli anche voi, o Cultori del Metallo: 1) Se amate Porcupine Tree, Steven Wilson, Opeth e tutti quegli artisti o quelle band che usiamo classificare sotto l’ombrello onnicomprensivo del neo-progressive, una rispolverata alla discografia del Re Cremisi potrebbe farvi capire da dove vengono molte delle idee adottate oggi dai vostri paladini; 2) sì, Fripp e soci suonano prog e non metal, ma sanno anche graffiare ed hanno il pallino per il riff pesante: ascoltatevi album come “Starless and Bible Black” e “Red” per capire come Voivod e Tool abbiano pescato a piene mani dal repertorio crimsoniano; 3) i King Crimson sono una delle band più importanti del Pianeta Terra, se non avete mai ascoltato “In the Court of the Crimson King”, correte a rimediare; se vi ostinate a non volerlo fare, allora andatevi ad impiccare! 

Giungo al London Palladium con le idee abbastanza chiare su quello che mi aspetta: tre ore di show in cui la carriera cinquantennale della band verrà ripercorsa e reinventata da una formazione spettacolare di otto elementi. Intorno al guru Robert Fripp troveremo ben tre batteristi, fra cui l’oramai storico Pat Mastelotto, il turnista di lusso Jeremy Stacey e il noto Gavin Harrison, che come ben sappiamo ha prestato le bacchette a Porcupine Tree e a molti altri progetti prog-para-metal (OSI, Storm Corrosion ecc.). Abbiamo poi il fido Tony Levin al basso (alla corte del Re Cremisi dall'inizio degli anni ottanta, ma anche collaboratore storico di Peter Gabriel e conosciuto nel mondo metal per il progetto Liquid Tension Experiment, condiviso con membri dei Dream Theater), Mel Collins ai fiati (membro della prima ora riemerso in anni recenti), Bill Rieflin alle tastiere (new-entry che vanta trascorsi addirittura in Ministry e Swans, tanto per capire che qui non si frigge con l’acqua) e il cantante/chitarrista Jakko Jakszyk, chiamato nell’ingrato compito di ricoprire il ruolo dei grandi nomi che l’hanno preceduto (da Greg Lake a Adrian Belew passando per John Wetton): sfida che supererà egregiamente grazie alla sua voce cristallina che ricorderà in più frangenti quella del mai troppo compianto Lake (mentre nella capigliatura ricciola brizzolata mi ha ricordato a volte Riccardo Fogli con i Pooh - immagine nefasta che mi sono dovuto togliere con prepotenza dalla testa a suon di birre). Ma sinceramente quando una Leggenda della Musica (con la L e la M maiuscole) si manifesta, poco importa chi fa cosa: semplicemente sai che sul palco ci sono musicisti superlativi sotto la scrupolosa direzione artistica di Robert Fripp, che di passi falsi nella vita ne ha fatti davvero pochi. 

Entrando nel teatro ancora mezzo vuoto, impressiona non poco l’imponente strumentazione disposta trionfalmente sul palco deserto: ti esalti al sol pensiero che tutti quegli “arnesi” saranno utilizzati dai personaggioni sopra elencati sia per riproporre classici senza tempo che per dare vita a spericolate improvvisazioni come la tradizione prog esige. Il pubblico ha l'approccio scientifico di chi non è disposto a perdersi il più insignificante dei dettagli. Si ha quasi il timore di respirare o di fare un movimento brusco: per uno starnuto al momento sbagliato, potrebbero ucciderti. Insomma, c'è aria di grande concentrazione, ed aiuta senz'altro il fatto che non sarà permesso scattare foto e fare video, come da richiesta fatta espressamente dalla band: una scelta che ho appoggiato in pieno, in quanto ci ha permesso di godere dello spettacolo senza l’ansia di dover immortalare il momento topico in una serata che di momenti topici ne proporrà uno dopo l’altro (troppi per rimanere con il cellulare in mano e l'occhio fissato sullo schermo). Del resto intorno a me ci sono più Nokia che smartphone: non penso che la privazione del più popolare dei dispositivi elettronici dei tempi moderni sia vista come un'onta irreparabile da parte della gente in platea, divisa fra cariatidi che i King Crimson li seguivano negli anni settanta e giovani che sembrano ancora più vecchi dei vecchi stessi. 

Benché insolita, l’idea di collocare in prima fila le tre batterie si rivelerà decisamente vincente, in quanto i tre percussionisti saranno i veri mattatori della serata. Quante prodezze si insceneranno innanzi ai nostri occhi: partiture complessissime suonate all'unisono, geniali deviazioni individuali, duelli, staffette, momenti di tronfia gloria personale. Stacey, armato di carisma e bombetta (unico orpello scenico concesso dal patron Fripp), volterà spesso le spalle al suo kit, destreggiandosi (sapientemente) fra piano e tastiere, cedendo la scena ai tocchi istrionici di Mastelotto e ai tempi impossibili dell’infaticabile Harrison. Che spettacolo per occhi ed orecchi! 

In tutto questo Fripp è l’anti-divo per eccellenza, seduto nel suo cantuccio, in posa composta da vero lord inglese, circondato da tastiere, chitarre ed una miriadi di dispositivi. Ma tutta la band, fatta eccezione dei tre fantasisti alle pelli, si rivelerà statica, in un contesto di totale assenza di scenografia: del resto stasera non occorrono stronzate sceniche, perché sarà la musica a parlare! 

Sul palco sembrano alternarsi due band differenti: quella delle splendide ballate che impreziosiscono il canzoniere dei primi anni di attività della band, e quella ben più scatenata delle contorsioni elettriche che si sono imposte a partire da “Larks’ Tongue in Aspic”. Proprio con la prima parte della title-track di quel capolavoro del 1973 si dà avvio alle danze, cosa che provoca in me orgasmo ed infarto al tempo stesso. Non mi dilungherò nei dettagli, in quanto certe esperienze non possono essere espresse a parole, ma certo una cosa è lampante: la straordinaria attualità delle soluzioni inventate dalla band più di quaranta anni fa. I riff reiterati e distorti di Fripp sembrano infatti anticipare di circa venti anni le efferatezze sonore che avremmo conosciuto negli anni novanta. In più colgo, in quella mano ferma e decisa, un certo gusto per il riff pesante e d’impatto, uno stile quasi sabbathiano potremmo dire, anche se poi c’è da ricordare che King Crimson e Black Sabbath sono stati coevi e che i riff che oggi definiamo metal costituirono in origine una forma audace di avanguardia per le frange più coraggiose del rock. E' in questi frangenti che ho trovato più in difficoltà il divino Tony Levin, il cui stile "gommoso" non gli ha permesso di bissare l'intensità delle micidiali vergate di basso del fu Wetton (per questo, in molti episodi del repertorio degli anni settanta, gli sono dovute venire in soccorso le sei corde di Jakszyk, provvidenziale in più di una occasione).

Il set, organizzato in due parti con una pausa di venti minuti atta a riprendere fiato, scorre all’insegna di emozioni senza sosta, fra imponenti muri di suono (la seconda parte di “Larks’ Tongue in Aspic” per esempio), saggi di cervellotica ricerca frippiana (si pensi all’uno-due di “Disciline”/”Indiscipline”) ed oasi di struggente romanticismo: dimensione che ha visto i suoi momenti migliori nella riproposizione della visionaria “Epitaph” (da lacrime nel finale), della schizofrenica “Cirkus” (per me inaspettata sorpresa e quindi ancor più gradita) e della mitica “The Court of the Crimson King” (inutile spendere anche una sola ed unica parola al riguardo). Nel frattempo Tony Levin continua a cambiare bassi come se tenerne uno in mano per più di sei minuti gli facesse venire l'orticaria, mentre Fripp si comporta come se fosse in camera sua, in vestaglia, a tagliarsi le unghie dei piedi, tanta è la considerazione che ha per il pubblico. Ma anche questo si sapeva.

I suoni, dopo una progressiva equalizzazione, sono diventati forti e potenti. Ben vengano inoltre le sbavature esecutive, che rendono i brani più reali e vibranti di quanto risultino su disco. Delle varie anime della band, forse quella più sacrificata è quella laccata degli anni ottanta, e non è che la cosa mi dispiaccia  oltremodo. Anche il pubblico sembra sciogliersi, e dal totale silenzio della prima parte del set si è passati a commenti isolati  gridati con voce scomposta fra un pezzo e l'altro, e poi a veri e propri scrosci di applausi durante i passaggi più eclatanti.  

Quando oramai sembra che l’evento abbia dato tutto, ecco che arriva una coppia di brani killer a stenderti definitivamente. “Starless” (per il sottoscritto il miglior brano mai scritto dai King Crimson) incanta come ballad ed impressiona nella lunga coda strumentale, dove uno dei migliori crescendo della storia del rock (almeno venti anni prima l’esplosione del post-rock strumentale dei Mogwai) rivive grazie alle acrobazie dei tre percussionisti. Il tutto baciato da luci che da verdi divengono progressivamente rosse, facendosi specchio della intensità espressa dal collettivo ed approfondendo parimenti la ricerca sopraffina e la forza d’urto che sono insite, come nel più classico degli ossimori, nella musica del Re Cremisi. Per aggiungere gloria alla gloria, ecco materializzarsi l’immancabile “21st Century Schizoid Man”, anch’essa dilatata e sconvolta da fulminanti assoli di batteria chiamati ad accompagnare lo sferragliare dissonante delle sei corde di Fripp e Jakszyk e il sax epilettico di Collins. Che cazzo di spettacolo. 

La lunga standing ovation è il minimo che il pubblico possa fare per ringraziare questi otto supereroi della musica che hanno dato letteralmente il sangue stasera. E, applaudendo e piangendo, mi rendo conto che mi dispiace davvero tanto per quelli che pensano che la musica inizi e finisca con Rolling Stones o, peggio ancora, con Vasco Rossi