Essere contro Donald Trump ormai non fa più notizia: tutti sono contro Trump. E certo io non posso esimermi dal far parte del coro. Per quanto sia sempre stato critico nei confronti dell’operato di ogni Presidente degli Stati Uniti (repubblicano o democratico che sia, l'inquilino della Casa Bianca rimane pur sempre una marionetta nelle mani dei poteri forti che stanno dietro al capitalismo mondiale), con Trump in particolare mi sono trovato clamorosamente in disaccordo ogni volta che egli ha detto o fatto qualcosa.
Per questo motivo non mi spiace affatto trascorrere una serata ferocemente anti-trumpista, sebbene il motivo principale per cui mi trovo qui stasera al Kentish Town Forum sia la musica: quella dei Ministry.
Apre le danze Chelsea Wolfe, cantautrice delle tenebre di recente montata sul carro vincente del metal con un paio di album davvero notevoli (il bellissimo “Abyss” e il successivo, altrettanto buono, “Hiss Spun”). Contrariamente ad una prassi consolidata fin da inizio carriera, la Nostra si presenta sugli assi senza il proverbiale velo a coprirle il viso, abitudine che, a detta della stessa, era dovuta alla timidezza. Apprezziamo i suoi begli occhi celeste-ghiaccio cerchiati di nero (evocanti fra l'altro vaghi immaginari black metal), ma la scelta non sembra giovare al personaggio nel complesso, mai così “a nudo” innanzi al proprio pubblico: la Chelsea pare infatti che negli ultimi tempi ci abbia dato di forchetta (effetti collaterali del successo?!?), visto che il lungo vestito nero fa trasparire forme assai abbondanti che non avevamo colto in occasione dello scorso tour dove l’avevamo ammirata come headliner.
Passiamo alla musica. Il suo set consisterà in quaranta risicati minuti, in cui ritroveremo principalmente i brani degli album sopra citati, con un paio di ripescaggi dal passato. Oggi possiamo affermare che la Nostra suona doom (il linguaggio parlato è indubbiamente quello sabbathiano) e sebbene tutto fili liscio, stasera sembra mancare qualcosa a quei brani che su disco ci avevano tanto entusiasmato. Picchi della serata si riveleranno la nuova “16 Psyche” e “Feral Love” da “Pain is Beauty”; il resto verrà eseguito in modo assai scolastico, "ravvivato" da qualche lento "gesto liturgico" compiuto senza grande convinzione. Non si può certo dire che Chelsea abbia una voce che tira giù il soffitto (questo del resto si sapeva), né che sia un animale da palcoscenico (sapevamo anche questo), ma nel complesso era lecito aspettarsi qualche emozione in più: promossa con qualche riserva.
Intervallo: gettiamo uno sguardo veloce sul pubblico. Lo "stile" stasera è essenzialmente “industrial sconfinante nel dark”, un po’ perché i due generi sono contigui, un po’ per le sonorità oscure portate sul palco dalla Wolfe. L’impatto d’insieme non è negativo, anche perché abbiamo oramai una lieta conferma: concerti più o meno grezzi garantiscono sempre la loro buona quota di esemplari del gentil sesso. Fra costoro scorgiamo anche ragazze-con-ottanta-milioni-di-problemi, ma noi non ci formalizziamo: ci vanno bene uguale. Se quindi sulla compagine dark non abbiamo niente da ridire (suvvia, queste ragazze nero-vestite con la frangetta e il trucco pesante ci piacciono, indipendentemente dalla stazza e dalla statura), sul popolo industrial c’è da osservare fondamentalmente due cose: esso è composto, se possibile, da un numero disadattati e disastrati emotivi maggiore rispetto a quello più canonicamente metal. D’altro canto è una fauna meno triste e più varia di quella metal, ma soprattutto più curata nell’immagine. Certo, questa è una di quelle serate in cui se non hai almeno tre pearcing e sei tatuaggi non ti fanno entrare, eppure la compagnia non dispiace affatto: signorotte attempate che rispolverano succinti vestitini in pelle, borghesotti a torso nudo che hanno visto tempi migliori, ex tossici dal volto smunto e il cappellino con visiera, ragazzini in cerca di emozioni forti con le maglie degli album recenti dei Ministry, capelli di tutti i colori e di tutte le lunghezze: gente, in definitiva, che per lo meno possiede una coscienza sociale e non esprime il proprio dissenso rifugiandosi fra nani ed orchi nella Terra di Mezzo.
I Ministry non sono mai stati teneri con le amministrazioni presidenziali americane, ed oggi meno che mai. Il loro ultimo album si interroga su come il popolo americano, sociologicamente parlando, abbia potuto eleggere un uomo come Trump, al quale stasera devono essere fischiate davvero le orecchie. Tanto per cominciare ai lati del palco svettano due enormi pupazzi gonfiabili del Presidente in versione galletto. Al centro, un’asta per microfoni con un teschio umano in bella mostra. Si parte proprio da un discorso del Presidente, le cui parole vengono rallentate fino a divenire incomprensibili. Sulle note di violino della introduttiva “I Know Words” i membri della band si dispongono sul palco "in assetto sommossa" (da segnalare il chitarrista con la maschera fluorescente di Anonymous e il bassista con lunga barba e cappuccio in stile “terrorista islamico”). Sullo sfondo si susseguono incalzanti le immagini di un incubo purtroppo reale dove alla statua della libertà ritratta in espressioni di sconforto ed alla bandiera a stelle e strisce, si avvicendano i volti della politica mondiale odierna, i simboli del capitalismo e scenari apocalittici di ogni tipo.
Al Jourgensen si fa aspettare, ma il suo ingresso sarà il momento più seminale della mia vita. Il pubblico è del mio stesso avviso, esplodendo in un fragoroso boato nel momento in cui il Nostro si materializza sul palco: irrompe in tutta la sua potenza “Twilight Zone”, opener dell’ultimo album “AmeriKKKant”. Stasera tutto funzionerà alla perfezione, forse perché i Ministry oramai scrivono album appositamente per essere riproposti dal vivo, puntando quasi esclusivamente sul groove e sui ritornelli anthemici: la scaletta di stasera sembrerà infatti una pedissequa ripetizione di “Just One Fix”, ma cosa del resto pretendete nel 2018 dai Ministry? La loro formula è semplice e il loro giochetto è finalmente chiaro, stasera più che mai: sono una versione brutale dei Killing Joke (suvvia, “Wargasm” è un plagio senza fronzoli di “The Wait”!). Il linguaggio adottato dal vivo è però inequivocabilmente slayeriano, tanto che sembra di assistere ad un concerto degli Slayer con un apparato multimediale con i contro fiocchi e qualche slogan in più. Ma quel che più conta è che Jourgensen è in gran forma, cosa da non dare mai per scontata, considerati tutti i suoi "vizietti". Sarà merito dei cinque microfoni, degli effetti ad essi collegati, del megafono più volte impugnato, ma la sua voce gutturale ci giunge forte e chiara. Quello che però colpisce di più è il carisma emanato da questo signore che il prossimo 9 ottobre compirà sessant’anni tondi tondi: psysique du role (fisico asciutto, dread ed immancabile bandana), capacità da grande intrattenitore e tanta tanta energia (fantastici i calci assestati con rabbia ai pupazzi di Trump).
I brani si susseguono senza pietà per gli ascoltatori, con un wall of sound micidiale eretto dai sette musicisti sul palco (nei brani in cui Jourgensen imbraccia la sua sei corde, ben tre saranno le chitarre impiegate), con le immagini che sullo sfondo corrono alla velocità della luce (mi auguro che fra il pubblico non vi sia qualcuno che soffre di attacchi epilettici). Gli estratti dall’ultimo album ben si amalgamano con il resto del repertorio: in particolare colpiscono (in tutti i sensi) “Victims of a Clown” (mazzata clamorosa con blast-beat e growl nel finale) e “Antifa” (con tutto il rispetto per il Dottore, è stata una gioia immensa levare al cielo il pugno chiuso come ai bei vecchi tempi, ma con in sottofondo riff slayeriani al posto delle note di “Bella Ciao”).
Il passato recente della band viene privilegiato, con tre brani ripescati da “Rio Grande Blood”, fra cui v’è da segnalare una superba “LiesLiesLies”. Ma per un vecchio fan come me le vere gioie giungeranno nel finale con l’accoppiata “Just One Fix”/“N.W.O.” (quest’ultima prolungata all’infinito - e onestamente avrei voluto che non finisse mai) e l’inaspettata riproposizione dell’apocalittica “Psalm 69”, marziale e cacofonica come su disco. Dal passato più remoto provengono le killingjokiane “Thieves” e “So What”, pescate dal capolavoro del 1989 “The Mind is a Terrible Thing to Taste”, mentre il gran finale è affidato a “Bad Blood” dal minore “The Dark Side of the Spoon”.
La gente oramai non ce la fa più, il Kentish Town Forum, dopo un’ora e mezza di apocalisse, è un intreccio putrido di corpi sudati e puzzolenti, di volti con il trucco sfatto, ma sorridenti. Lascio la scena soddisfatto con una immagine emblematica: io, nel bagno del locale, che piscio accanto ad un travestito con tanto di minigonna in pelle, giarrettiere e lunghi capelli verdi. Poco dopo, in metropolitana, una ragazza, anch’essa reduce dal concerto, improvviserà un veloce spogliarello (rimandando in reggiseno) per indossare una maglietta della band appena acquistata.
Niente altro da aggiungere: grazie Ministry!