Omogeneità. Miglioramento continuo.
Sono questi i due concetti che mi vengono in mente per parlare degli Opeth 3.0; gli Opeth dal 2006/07 in poi, quelli dei pesantissimi abbandoni di Martin Lopez alla batteria e dello storico chitarrista Peter Lindgren. Quelli della svolta post-Watershed, insomma.
Difficile per me parlare degli Opeth, per ovvie ragioni che potete comprendere. E infatti in due anni di Blog non l’ho mai fatto. Troppo coinvolto emotivamente per scriverne in maniera obiettiva.
Mi ci metto ora semplicemente
perché questi “nuovi” Opeth li sento meno dentro (dentro lo stomaco, dentro la
testa e soprattutto dentro al cuore).
Premessa doverosa: non biasimo Mikael. Per 10 anni
ha dato il bianco, in prima linea a “guidare”, assieme a pochi altri, il Metal
mondiale, aggregando intorno alla “sua” band i metallari di ogni latitudine. Nelle
prime due “versioni” del gruppo (quella del 1995-96 e quella 2.0, dal 1996
al 2003) ha sfornato, per chi scrive, solo album-capolavoro. E, elemento
fondamentale, tutti uno diverso dall’altro. Solo nel 2008, al nono disco in
studio, ho trovato delle piccole crepe nella freschezza e nell’inventiva della
scrittura. In definitiva nella bellezza delle composizioni. Parlo di “Watershed” che, lungi dall’essere un brutto album, denotava un po’ di “stanca” e di
troppo utilizzo del mestiere.
Avrebbero potuto sfornare altri
watershed per anni, non rischiando e non esponendosi invece alle critiche cui
si sono esposti. Però l’uomo-solo-al-comando ha deciso di assecondare al 100%
ciò che voleva suonare e comporre, portando gli Opeth ad essere di fatto una
one-man-band coadiuvata da ottimi professionisti con zero-o-quasi voce in
capitolo sulla scrittura dei pezzi.
Con rammarico, ma con onestà
intellettuale, devo dire che la nuova via prog-rock settantiana imboccata dagli
Opeth a me non emoziona più di tanto. Ma, e questo glielo devo riconoscere, piano
piano Akerfeldt ha saputo maneggiare con credibile professionalità questa nuova
materia, con meno dispersività rispetto agli esordi. E, soprattutto, con
maggiore ispirazione. Si, i tre “nuovi” album degli Opeth sono in crescendo.
Questo mi sento di dire che va oltre il gusto soggettivo.
Nel dettaglio: alla fin fine, e
dopo decine di ascolti, “Heritage” mi annoia; è dispersivo, senza un focus.
Sembra quasi avere tutti i difetti di un debut album. Pochi i momenti da
ricordare, pochi i passaggi che rivelano il genio di Akerfeldt e l’unicità del
sound-Opeth da pelle d’oca (di getto mi viene da ricordare giusto l’incipit
voce/pianoforte di “Famine” che è da incorniciare). Siamo alla sufficienza, ma
risicata. E una sufficienza risicata per gli Opeth di certo sa di “sconfitta”.
Ma già “Pale communion” è più
solido, più compatto. E con maggiori momenti di godimento. In particolare il
trittico iniziale del disco (“Eternal rain will come”, “Cups of eternity” e
“Moon above, sun below”), pur non facendoci strappare i capelli, è un qualcosa
che riconcilia con la nuova scelta stilistica della band e che ci fa capire che
lo pseudo-rincoglionimento di Mikael per il prog settantiano è adesso
razionalizzato e padroneggiato come si deve. Qua, anche a voler essere molto
severi, si raggiunge un “6,5” una sufficienza stra-piena che, a noi fan
della prima ora, non appaga ancora pienamente ma che ci fa provare la forte
sensazione che la verve creativa del Nostro non si sia affatto esaurita.
Forte sensazione che diventa convincimento
con “Sorceress”, l’album della maturità potremmo dire (sempre prendendo il 2006
come l’anno zero di questo nostro ragionamento). Non facile da assimilare, mi
ha lasciato molto perplesso al primo ascolto. Ci sentivo dentro tanta spocchia,
tanto atteggiamento del tipo “io sono er mejo e suono ciò che mi pare e piace e
se a voi non sta bene me ne batto il culo”. Invece no, il disco cresce, cresce
sempre, ascolto dopo ascolto, tanto da convincermi, dopo 4 mesi dalla sua
uscita, che qui siamo al “buono”, al “7” pieno.
Ma non vorrei sembrare troppo
entusiasta. E comunque continuo a rimpiangere i vecchi Opeth, rimpiango
Lindgren e Martin Lopez (del resto rimpiango pure le sbrodolate di basso di
Johann DeFarfalla, quindi figuratevi voi…).
E, con spirito severo e asettico,
dico che questi dieci anni alla fin fine potevano essere condensati in un’ora.
E quindi un unico album. Quello che mi comporrei io da ascoltare in cuffia,
estrapolando il meglio di queste tre release. Come potremmo chiamarlo? A me viene
in mente questo titolo: “THE SORCERESS OF THE PALE HERITAGE” Che anche come
significato calza alquanto…
Provate a pensare un po’ a un
disco con questi pezzi (un’ora tonda tonda), con tanto di intro e outro:
1) “Persephone”
1’51” (Sorceress)
2) “Sorceress”
5’49” (Sorceress)
3) “Slither”
4’03” (Heritage)
4) “Famine”
8’32” (Heritage)
5)
“Eternal
rain will come” 6’48” (Pale Communion)
6)
“Cusp
of eternity” 5’37” (Pale Communion)
7) “River”
7’30” (Pale Communion)
8) “Chrysalis”
7’17” (Sorceress)
9)
“A
fleeting glance” 5’06” (Sorceress)
10)
“Era”
5’41” (Sorceress)
11)
“Heritage”
2’06” (Heritage)
Non male un unico disco così, al posto dei tre effettivi...si, si, proprio niente male...(nel frattempo, mentre scrivo, risuonano in sottofondo le note di "My arms, your hearse"...)
A cura di Morningrise
Non male un unico disco così, al posto dei tre effettivi...si, si, proprio niente male...(nel frattempo, mentre scrivo, risuonano in sottofondo le note di "My arms, your hearse"...)
A cura di Morningrise