28 ago 2020

REMINISCENZE ULVERIANE: ELOGIO AL MADRIGALE DELLA NOTTE


Oggi, 28 agosto, dovrebbe uscire l’ultimo album degli Ulver. Stando ai tre brani condivisi in rete, parrebbe che i Nostri abbiano deciso di proseguire il loro cammino sulla scia del precedente (e molto valido) “The Assassination of Julius Caesar”, accentuandone ulteriormente i toni pop. Cosa che non è un male in sé, ma al momento devo dire che quello che ho ascoltato non mi ha entusiasmato (esprimerò un giudizio più avanti, quando avrò ascoltato l’album per intero). Il vero problema, semmai, è che il 2020 (l'anno del corona virus), per come si è configurato fino ad oggi, non si presta molto al pop degli Ulver, che per il sottoscritto significa aperitivi, cene, incontri, scenari urbani (un'urbanità oggi preclusa in molte delle sue modalità e che era già stata suggerita dalla location del video di “Russian Doll”, singolo di lancio diffuso in tempi non sospetti). 

Il 2020, come già rimarcato più volte, è semmai, per il sottoscritto, l’anno degli ascolti “profondi”, quegli ascolti da consumare in solitudine, nel silenzio, capaci di estraniare dalla realtà circostante e condurre in luoghi dove, almeno con la mente, uno possa vagare liberamente. Questa estate, in particolare, mi è tornata una voglia prepotente di ascoltare “Nattens Madrigal”, ed è questo il motivo per cui mi sento di parlarne oggi. 

Rileggendo in rete qualche recensione sull’album, mi ha fatto piacere scoprire che con il tempo esso sia stato definitivamente (e giustamente) rivalutato. Quando usci, nel 1997, non gli fu riservato lo stesso trattamento. Vi erano grandi aspettative per il ritorno all'ovile del metal da parte degli Ulver, dopo un esordio stellare come “Bergtatt” ed un sorprendente (e coerente) compendio acustico quale era stato “Kveldssanger”. Ma un album à-la Darkthone non era esattamente quello che uno si aspettava, in un periodo peraltro in cui il black metal scandinavo aveva saputo evolversi e lasciarsi alle spalle le sue forme più scarne e minimali. Emperor, Satyricon, Enslaved avevano sfornato negli anni appena precedenti i capolavori della loro maturità. E dagli Ulver, che erano partiti con il botto, non ci si aspettava di meno. 

Io stesso rimasi profondamente deluso: quel tipo di black metal rozzo e veloce era indubbiamente superato, storicamente parlando: l’apice di quell'approccio era stato infatti toccato da “Transilvanian Hunger” qualche anno prima ed ogni operazione similare appariva allora penalizzata da scarsa originalità, cosa che per gli Ulver bruciava doppiamente, in quanto i Lupi si erano distinti fin da subito per un sound estremamente personale. Perché, infatti, liberarsi (quasi) completamente delle contaminazioni folk, rinunciare agli splendidi intrecci di voce pulita, per appiattirsi sulle fattezze di un black metal essenziale e già canonizzato da altri? 

Eppure quello che possedevano Garm e soci, rispetto ai molti epigoni dei Darkthrone, era un solido impianto concettuale, vera costante di ogni loro pubblicazione (ma questo sarebbe stato più chiaro in seguito): prima l’idea, poi la realizzazione. E un concept basato sulla licantropia, o meglio, sull'emergere fatale ed inevitabile della componente bestiale, istintuale insita nella natura umana, non poteva che rivestirsi di sonorità il più selvagge e primitive possibile. 

Forse era più facile capirlo che accettarlo, in quanto per scovare quanto di buono vi era in quell’opera, era necessario passare attraverso una spessa coltre di suoni orribilmente registrati. E la cosa non era per niente invitante, anche per il cultore del black metal, che, pur abituato alla dimensione lo-fi, non lo era evidentemente fino a quel punto. "Nattens Madrigal" era uno di quegli album per cui potevi prendere il tuo costosissimo impianto stereo e buttarlo nel cesso. Dovevi poi tenere il volume relativamente basso per far sì che il fruscio che percorreva tutti i brani fosse tenuto ad un livello accettabile. L'impiego delle cuffie sarebbe stato troppo gravoso per i timpani e così ti ritrovavi giocoforza nel silenzio assoluto della notte (appunto!) cercando di muoverti il meno possibile per non coprire, con il rumore dei tuoi gesti, il poco di intellegibile che usciva dalle casse dello stereo.

La comunità black metal ebbe persino bisogno di appellarsi alla leggenda (poi smentita) che le tracce fossero state registrate in una foresta con mezzi rudimentali, a dimostrazione dell’immaturità del pubblico di allora che non si poteva accontentare di scelte puramente concettuali, ma che aveva ancora bisogno di pagliacciate per farsi andare bene una forma d'arte visibilmente ostica (cosa comprensibile se si pensa che si veniva dai fatti di sangue dell’Inner Circle, che non solo avevano fatto pubblicità all’intero movimento, ma avevano anche contornato di un alone di fascino perverso le sonorità stesse del black metal). 

Vi erano precise implicazioni concettuali da comprendere per potersi predisporre costruttivamente all'ascolto, ed una volta superata la fase del "disgusto iniziale" (tipica di chi inizia a fumare prima di prendere il vizio), si poteva realizzare che vi era una grande ispirazione a friggere sotto gli strali della bassa fedeltà: riff riuscitissimi (un plauso ai due chitarristi, Haavard e Aismal, mai elogiati abbastanza dal pubblico black metal) si succedevano in “felice” successione, favoriti da poche ma calzanti variazioni ritmiche, merito che va essenzialmente ad AiwarikiaR, batterista straordinariamente efficace, ma inspiegabilmente ignorato nella storia del black metal norvegese (chissà, forse non ha avuto il tempo di farsi notare, considerato che il Madrigale sarebbe stato anche l’ultimo album metal rilasciato dagli Ulver). 

La stessa performance vocale di Garm, la cui bellissima voce regrediva ad un aspro (ma non monotono) screaming, risultava perfettamente calata nel contesto, esprimendo il feeling di volta in volta richiesto dal concept (da sottolineare la scansione magistrale dei versi - in danese antico - operata dal cantante per adattarli alle dinamiche ed al pathos dei brani). Quanto a Skoll, l’altro “grande sacrificato” (ma in verità tutti e cinque i membri si sono dovuti piegare alle esigenze concettuali), risulterà poco udibile nel fruscio persistente di questa registrazione, emergendo con il suo basso solo in qualche sparuto frangente (confermando comunque la tendenza a costruire schemi armonici estranei al procedere degli altri strumenti). 

Non solo ogni brano riesce ad avere una propria specifica identità (obiettivo estremamente difficile da raggiungere, se si pensa a margini di manovra cosi ridotti), ma anche una degna collocazione nel concept rappresentato, esprimendo le sensazioni congeniali ad ogni singolo tassello della “storia” narrata, il giusto grado di tensione e rilascio che il “flusso” richiede. 

Mi ci è voluto del tempo per capirlo, un po’ di anni se non ricordo male, perché se retrospettivamente parlando “Nattens Madrigal” è oggi considerato fra i migliori black metal album di sempre (e fra gli ultimi di quella specifica stagione), la sua accettazione da parte di tutti noi non è stata semplice né immediata. Ma il bello di questi faticosi processi di comprensione è che, al termine di essi, l’opera assume un’aura magica, come se essa costituisse un premio meritato, una ricompensa per un sacrificio compiuto e portato a termine con dedizione. 

Nella mia esistenza targata 2020 ascolti di questo tipo trovano sempre meno spazio. Nemmeno il lockdown o l'home-working possono essere di grande aiuto, in quanto è veramente dura a fine giornata trovare la giusta predisposizione e la necessaria concentrazione per riapprocciarsi ad esperienze tanto impegnative da tutti i punti di vista, mentale e fisico (il corpo vuole muoversi, le orecchie preferiscono qualcosa di più conciliante). Mi vengono in soccorso i molteplici e pazienti ascolti che, nel corso degli anni, mi hanno permesso di afferrare, ogni volta, una nuova sfumatura precedentemente non colta, cosicchè “Nattens Madrigal” è divenuto nel tempo parte di me, indissolubilmente, tanto che non ho nemmeno più bisogno di ascoltarlo...