29 ott 2020

THE BEGINNING OF THE END: "HEAR IN THE NOW FRONTIER" (QUEENSRYCHE)



Lo diciamo subito a scanso di equivoci: “Hear in the Now Frontier”, nella nostra Rassegna, rappresenta un’eccezione. Nel senso che, a differenza di tutti gli altri dischi fin qui trattati, questo non è solo l’inizio della fine per la band americana. E non è neppure uno di quegli album che, nella nostra Anteprima, avevamo preannunciato essersi “rivelati ancora validi da un punto di vista artistico e a volte persino baciati dal successo di pubblico”.

Proprio no. HitNF fa proprio schifo. Non solo in relazione alla storia e alla carriera dei Queensrÿche, ma proprio come album in sé.

Basterebbe l’incipit di “Sign of the Times”, i primi 15”, per capire che o ci troviamo davanti a un brutto scherzo, e la band che stiamo ascoltando non sono i Queensrÿche; oppure DeGarmo e Tate si sono completamente rincoglioniti.

Ecco, tra le due la seconda…

Possiamo contestualizzare quanto volete, addentrarci in “spiegoni” esegetici su questa scelta artistica di DeGarmo (mastermind dell’opera, seppur Tate collabora) ma sarebbe solo un auto-inganno. Un voler a tutti i costi “salvare” un disco di una band che abbiamo amato, e che amiamo tutt’ora per quello che ha saputo dare al nostro mondo metallico.

Certo, dopo oltre 10 anni di successi e di album meravigliosi (e tutti diversi l'uno dall'altro, segno di una classe innata) ci poteva stare un tentativo di cambiare qualcosa nel sound e provare nuove strade di scrittura. Soprattutto dopo un (concept) album raffinato, nella forma e nel contenuto, come “Promised Land” (1994). A tal proposito credo che nessun fan si aspettasse in quel 1997 un "Promised Land-Parte II". E nemmeno uno scialbo rifacimento di un gigante come il precedente ancora “Empire” (quanto amo “Empire”!). Si, ma neppure sta cosa qua.

57’ per 14 brani, una media di 4’ a song. Roba che tra un po' manco Ligabue…

Proviamo a scendere un po' più in profondità: lo studio di registrazione è quello personale di Stone Gossard, ascia dei Pearl Jam; il produttore, Toby Wright, è lo stesso che aveva lavorato negli anni immediatamente precedenti con gli Alice in Chains. Quindi due elementi fondamentali per la resa del disco che, evidentemente, si prevedeva già di far rientrare nel tipico sound grunge di inizio novanta.

Ecco, anche questo: che senso ha svoltare così brutalmente verso certe sonorità quando quelle sonorità avevano dato il meglio di sé già parecchi anni prima? A parte il fatto che Cobain era già morto, quelle stesse band che il grunge lo portarono, giustamente, agli onori della cronaca musicale mondiale, si erano già espressi in modo evoluto rispetto a quegli stessi stilemi che avevano reso così popolari: l’anno prima i Pearl Jam avevano pubblicato un disco molto “sperimentale” come “No code” (stupendo, peraltro), i Soundgarden non erano stati da meno (anzi…) con l’enorme “Down on the Upside” mentre gli Stone Temple Pilots avevano anche loro sperimentato, seppur guardando “indietro”, con il non epocale, ma dignitosissimo, “Tiny Music…Songs from the Vatican Gift Shop”. Insomma, quel modo di fare alternative rock/metal aveva già travalicato i confini entro i quali era nato. I Queensrÿche di HitNF invece ci stavano dentro con tutte le scarpe.

Non riusciamo, neppure riascoltandolo oggi e con tutta la benevolenza di questo mondo, a salvare qualcosa. Ok, la melodia portante di “Some people fly” regge, anche se viene poi rovinata con l’insulso chorus; “You” non è malaccio. Ma rimaniamo sempre nell’ambito del “già sentito prima e meglio”. Poi per carità, la voce di Tate è oggettivamente un valore aggiunto, così come alcuni cesellamenti chitarristici di Chris. Ma la resa complessiva non si alza mai da un livello di mediocrità assoluta.

E continuando nel "rosario" della tracklist: “Saved” è davvero orribile. “Hero” è un piattume melenso senza un perché, così come “All I want” (tra le cose più orrende mai ascoltate ad opera dei Queensrÿche). “Miles Away” è agghiacciante a dir poco. E anche quando si prova a spingere il pedale sull’acceleratore, come nella bruttura di “Get a life”, in “Reach” o in “Hit the black” il risultato è persino peggiore delle song più melodiche e rilassate.

Piccolo colpo di reni, ammettiamo, con la conclusiva “sp00l”, un brano che avrei visto bene persino in “Empire”. Certo, niente che faccia gridare al miracolo ma in questi 5’ scarsi i Nostri tornano graffianti ed epici come avevano saputo fare negli anni d’oro della loro carriera. Di maniera, ma comunque più che dignitosi.

E poi il tour di supporto…la Emi che va a bagno, DeGarmo che annuncia il suo distacco dalla band…insomma: i fattori esterni e interni alla band spingevano irrimediabilmente verso una china difficile da raddrizzare.

Il successivo, appena sufficiente, “Q2K” (1999) non fece che confermare che l’inizio della fine era davvero cominciato (“fine” artistica che, ahinoi, abbiamo potuto anche constatare recentemente con il nuovo corso targato Todd LaTorre). E che quel tentativo di “forzare la mano”, quel “cambiare a ogni costo” fatto 2 anni prima fu un errore, non sappiamo se per mancanza di ispirazione o, più probabilmente, per quello che si diceva in Anteprima: dover prendere necessariamente una posizione sul fronte del cambiamento esploso negli anni novanta nel mondo Metal.

Meglio, molto meglio allora che avessero composto quel mai-pubblicato “Promised Land - Parte II”...

A cura di Morningrise

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