14 nov 2020

SULL'ATTEGGIAMENTO DEL METALLARO MEDIO VERSO I FILM CHE PARLANO DI METAL - ovvero la (NON) RECENSIONE DI "THE DIRT"

 


E’ inutile: a noi metallari basta sapere che si sono accese le luci dei riflettori extra-musicali sul nostro Genere Preferito, e ci si rizzano le antenne.  La curiosità ci consuma. Ci buttiamo a capofitto su qualsivoglia film, libro o documentario esca sul mercato, a livello più o meno mainstream. Non foss’altro per vedere, con un po' di pregiudizio e/o puzza sotto al naso, come si è trattato un qualcosa che noi pensiamo di conoscere approfonditamente e che, come tale, consideriamo di nostra ristretta competenza.

E se è addirittura Netflix, piattaforma mainstream per eccellenza, a prendersi la briga di distribuire un film su una metal band (ma è meglio usare la più tranquillizzante locuzione “rock band”) allora non possiamo proprio resistere. E il censore che è dentro ognuno di noi è pronto per calare la scure su un prodotto che, pensiamo già con una certa sicumera, "non metterà certamente in risalto, come solo un adepto del verbo metal saprebbe fare, le caratteristiche musicali che a noi premono, gli aspetti tecnici dei musicisti, le sfumature del sound, ecc". 

Diciamolo…sotto sotto, con una buona dose di pre-giudizio, siamo pronti a scommettere che i temi succitati rimarranno in superficie, abbozzati in modo pacchiano, incompetente e mettendo in luce gli aspetti pruriginosi e “commerciali” dei protagonisti dell’operazione.

Ecco, bene: è andata esattamente così per “The Dirt: Mötley Crüe”. O addirittura peggio.

Uscito in un periodo in cui il cinema sembra essersi particolarmente interessato al mondo del rock (“Rocketman” nel 2018, "Bohemian Rhapsody" nel 2019) e persino del Metal (“Lords of Chaos”, 2018), "The Dirt", rispetto ai film succitati, è completamente di un altro livello. Non si riesce neppure a commentarlo. Capire punti di forza e punti deboli. 

No: i 108’ dell’opera sono uno strazio dall’inizio alla fine.

La figura cardine, o che vorrebbe essere tale, del film è senza dubbio il fondatore della band, Nikki Sixx (interpretato dal modello inglese Douglas Booth), di cui veniamo a conoscere il disastroso passato famigliare come causa primigenia del suo ribellismo e della sua futura autodistruzione fisica e mentale. Stendiamo, a tal proposito, un velo pietoso sui dialoghi con la madre alcolizzata (una macchietta patetica) e sul tentativo di recuperare il legame col padre (lasciato a una telefonata anch’essa imbarazzante). Il film velocemente passa all’incontro con Tommy Lee, per tutto il film dipinto come un dinoccolato ragazzone/bambino con un perenne sorriso ebete stampato in volto, che si muove con una goffaggine caracollante. E da lì si parte con il più classico dei percorsi: fondazione, scalata verso l’Olimpo del Rock, caduta e rinascita.

La pellicola, come detto, davvero non ne azzecca una: non coinvolge quando vorrebbe coinvolgere (vedi la progressiva caduta nell’eroina di Sixx o le parti concertistiche guidate dalle numerose hits della band); non disturba quando vorrebbe disturbare (l’autolesionismo di Nikki ai tempi in cui viveva con la madre alcolizzata; i tanti primi piani degli aghi nelle vene del bassista); non arrapa quando vorrebbe arrapare (i mega party pieni di ragazze da infarto e le superscopate delle rockstar con le groupies di turno); non intriga quando vorrebbe intrigare (neppure quando si raccontano vertiginosamente le follie auto-distruttrici della band in tour;) non ricostruisce quando vorrebbe ricostruire (le tendenze rock dell’epoca, la vita sulla Sunset Strip a inizio ottanta a los Angeles, le dinamiche del music businness). E potremmo continuare…

Anzi, continuiamo un altro pò: non fa ridere quando vorrebbe far ridere (l’incontro a bordo piscina in un albergo con Ozzy Osbourne è uno dei punti più bassi mai visti nella mia vita in un film; o le pseudo comiche al matrimonio di Lee); ma neppure fa piangere quando vorrebbe far emozionare. 

Jeff Tremaine, regista di nullo talento, prova a rivitalizzare la sceneggiatura (scritta a 4 mani da due incapaci) usando gli strabusati mezzi della voce fuori campo, il dialogo degli attori con lo spettatore direttamente in camera, il montaggio spesso iperserrato, l’uso di sezioni oniriche, l’accostamento finale di foto e video di repertorio alle ricostruzioni delle stesse viste nel film; ma niente…l’opera gira a vuoto in ogni suo aspetto, rimanendo sempre piatta come una sogliola. 

Irritati brutalmente dalla superficialità con la quale sono stati sfiorati punti cardine della carriera della band e dai dialoghi da terza media con cui vengono risolti gli spinosi nodi dei rapporti tra le quattro, ingombranti personalità del gruppo,  (l’uscita del capolavoro “Shout at the Devil” e i problemi avuti con i gruppi cristiani e conservatori; la morte di Razzle, drummer degli Hanoi Rocks, anche lui dipinto come un mentecatto di infimo ordine; la tragica morte di Skyler, la figlioletta di Vince Neil e il conseguente periodo con Corabi alla voce, ecc.) capiamo il perché si siano aspettati ben 18 anni prima di mettere su cellulosa le pagine del libro da cui è tratto (sempre scritto dai quattro Crüe).

Ma sapete una cosa? Alla fine della fiera vengono in mente due considerazioni: da un lato il fatto che l’operazione filmica ha avuto l’effetto sperato: i MC si sono fatti conoscere dai più giovani, hanno venduto una marea di dischi, vecchi e nuovi e hanno messo le basi per il loro tour mondiale (l’ultimo?), poi saltato per l'emergenza Covid.

E l’altro aspetto è che comunque…son contento di averlo visto! Lo so, può sembrare incoerente con quanto detto sopra ma tant'è...Cioè, sapere che la musica che amiamo, i personaggi che ci hanno accompagnato in gioventù, su cui abbiamo scritto, riflettuto e, diciamocelo, in parte anche invidiato, siano oggetto di interesse della “settima arte”…beh, ci lusinga, ci titilla l'orgoglio metallico e in fin dei conti non ci fa pentire di aver speso due ore del nostro tempo davanti allo schermo.

E questo vale anche per “The Dirt”…

A cura di Morningrise