I 10 MIGLIORI ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 1: "BACK TO MYSTERY CITY" (19/05/1983)
Ok, lo so, lo so, metto le mani
avanti e anticipo l’obiezione che può nascere spontanea leggendo il titolo del
post: abbiamo parlato su ben tre parti di Anteprima sul Glam metal, di Stati Uniti, della sua società degli anni ‘80, di Reagan,
di yuppie, Wall Street e di Glam metal specificatamente
americano. E ora…cosa faccio?? Il
primo gruppo dell’elenco dei dieci migliori album Glam sono dei…finlandesi!!?? Come si giustifica la
cosa??
A mio modo di vedere si
giustifica per il fatto che questi sono finlandesi, per così dire, un po’
particolari, molto anglosassoni e…con la California nella testa e nel cuore!
Provo a spiegarmi meglio.
Antefatto: la Finlandia agli
inizi degli anni ottanta non aveva ancora espresso le sue enormi potenzialità
in ambito metal, e neppure hard rock. Solo con gli anni novanta sarebbe salita
alla ribalta come “paese metallico” grazie al successo, strameritato, di gruppi
notevolissimi (Amorphis e primi Nightwish su tutti). In questo contesto,
proviamo a immaginare Pelkosenniemi,
paesotto di nemmeno mille abitanti nell’alta Lapponia finlandese (persino più a
Nord di Rovaniemi, la città di Babbo Natale): potrebbe plasticamente
rappresentare il c.d. “buco del culo del mondo”! Non so che tipo di musica
potesse arrivare ai suoi abitanti a metà degli anni settanta, sta di fatto che
è da lì che arriva Antti Hulkko, in arte Andy
McCoy (cui la municipalità di Pelkosenniemi ha persino eretto una statua in
suo onore dopo che è diventato una celebrità!), che è l’artefice di tutte le
musiche e testi dell’album in oggetto.
Antti, ragazzo di paese, alla fine degli anni ’70 incontra il ragazzo di città, un altro pazzoide,
Matti Fagerholm, il futuro Michael
Monroe (un cognome certamente non casuale). Sono coetanei, entrambi leva
1962, e con le stesse passioni per il rock, il punk, la vita spinta al limite e
la voglia di andarsene dalla Terra dei Laghi. Non ancora maggiorenni
imperversano nelle vie della capitale finlandese vestiti nei modi più bislacchi
possibili, scandalizzando i passanti (spassosissimi i loro racconti in merito).
Ma il mezzo per riuscire a evadere dalla loro realtà è la musica, e la creatura
che la deve veicolare se la inventano alla svelta dandogli il nome di Hanoi
Rocks!
E piano piano la sgusciante creatura di Antti&Matti li porta a
registrare i propri primi album dalla Finlandia alla Svezia e poi dalla Svezia
all’Inghilterra. Sarà lì che il gruppo cresce, matura e si completa nella line
up (che annoverava già altri due ragazzi finlandesi: il bassista Sami Takamaki,
con l’alias di Sam Yaffa e il secondo chitarrista Jan-Markus Stenford/ Nasty Suicide…sgradevole suicidio) con l’innesto del batterista Nicholas Dingley,
in arte Razzle (che in italiano si
potrebbe tradurre più o meno come “baldoria”, “casino”! Nomen omen…).
La fama tarda ad arrivare ma il
1983, dopo numerosi tour di successo sia in Europa che in Asia, vede la
fuoriuscita del quarto full-lenght, “Back To Mystery City”. E tutto cambia.
Copertina di presentazione del
disco: Antti e Matti, anzi Andy&Michael, ci guardano lascivi e ambigui, la
mano destra del primo che cinge la vita del secondo, come una coppia di
fidanzati. La capigliatura di Monroe e il vestito chiaro di McCoy risaltano
sullo sfondo nero e…mysteryoso. Insomma,
come le loro copertine dei tre album precedenti, anche qua siamo di fronte a
un’estetica prettamente glam, e quindi ad un po’ di cattivo gusto atto a
disturbare, riuscendoci pienamente.
E quando parte la musica? Beh, subito
sembra di essere stati vittime di uno scherzo strano, farsesco. Uccellini cinguettanti,
un delicato arpeggio di chitarra classica, lo scorrere di un corso d’acqua…ma dopo
una quarantina di secondi veniamo catapultati nel marasma più completo con la
straordinaria “Malibu Beach Nightmare”, un pezzo anthemico, trascinante e che
mette in tavola subito le carte della band, carte da giocare possibilmente su
di un’assolta spiaggia californiana. Lo stile, appesantito e velocizzato, è
quello dei Beach Boys, un surf ‘n’ roll
ovviamente più cattivo ed oscuro, nonostante i simpatici coretti beat, arricchito dal sax volutamente
stonato di Monroe (un mood che
tornerà avanti nella più dolce, in stile garage
rock, “Ice cream summer” posta come penultima canzone dell’album, ma che
presente un esaltante tripudio finale di sax, pianoforte e chitarre).
Questa splendida opening track ci riporta indietro di
dieci anni ai New York Dolls: essa sta a “Back to Mystery City” come
“Personality Crisis” stava a “NYD”. E le Bambole della Grande Mela saranno
sempre un’ispirazione evidente per McCoy e soci. Sembra quasi che tra i due
dischi non sia passato un decennio, c’è una sorta di fil rouge che lega quel disco del ’73 all’attuale ‘83.
Ma attenzione: “Malibu Beach Nightmare”
non è la canzone per andare a decifrare il valore
completo e profondo del platter, perché agli Hanoi Rocks piace mescolare, variare, spiazzare.
Sembra quasi che abbiano voluto condensare in meno di 45 minuti tutte quelle
influenze che a partire proprio dagli anni settanta avevano portato alla nascita della scena Glam. Un
miscuglio di hard rock, blues malato e punk rock, caratterizzato da quel suono stradaiolo, sporco, che sa di
superalcolici, fumo pesante e umori corporali dopo un mega party. Il tutto sempre
condito con quell’atteggiamento e quell’approccio semiserio, scanzonato e divertito, come i maestri newyorkesi
avevano insegnato dieci anni prima.
Ed ecco quindi che alle influenze
surf succitate si alternano partiture
di acid rock distorte e con venature
psichedeliche (l’enorme “Mental beat”), per poi passare a un punk rock che guarda ai seventies
(“Sailing down the tears”); o a dolci ballate, come “Until I get you”, un highlight del disco, dove il basso di
Sam Yaffa (che non a casa finirà a suonare dal 2006 in poi con i riuniti New
York Dolls) pompa che è una meraviglia e l'ugola dolce di Monroe che va in
crescendo verso il climax del chorus,
a doppia voce con la guest vocalist Miriam Stockley, e il piano in
sottofondo di Morgan Fisher (altro guest
musician) che gioca sinuosamente con le chitarre, quasi flirtando con esse,
fino al caotico finale.
Ma permettetemi una citazione
d’onore per “Tooting bec wreck”, canzone che esprime appieno la genialità folle
del quintetto finlandese: un rock ‘n’roll disturbante ma con un refrain da
urlare a squarciagola e un Monroe sarcasticamente sopra le righe che fa il
verso all’Elvis più ispirato, e un McCoy ottimo nell’assolo finale. Un potpourri marcio e malato quindi in cui
troviamo persino il verso di cavalli, mucche, galline e pecore per un risultato
da tramandare ai posteri…
Si chiude poi con la title track, trascinante e
ipervitaminica, simile nella struttura a “Malibu Beach Nightmare” quasi a
chiudere, con i suoi giochi di rimandi, un cerchio ideale.
Non voglio fare un’agiografia di
questo disco (che peraltro di musica Metal vera e propria ne ha pochissima) perché esso non è di
certo un album perfetto: come detto è diseguale
e disomogeneo, con un paio di pezzi sicuramente non ispiratissimi seppur
piacevoli (la depravata “Lick summer love” o l’innocua “Beats getting faster”),
ma è anche per le sue imperfezioni e per
la sua sguaiatezza che rimarrà nella
storia e sarà quella pietra miliare che sosterrà album di altri gruppi a
venire, probabilmente suonati meglio, con canzoni più mature, ma che, senza di
essi, probabilmente non sarebbero mai nati (Guns n’ Roses e Skid Row tra gli
altri).
“BTMC” finalmente aprirà le porte
dei tanto agognati Stati Uniti e del contratto con una major, la Columbia
Records, per la quale verrà pubblicato l’anno seguente “Two Steps From the Move”.
Sembra a questo punto di aver
descritto una favola: quella in cui dei ragazzi sconosciuti inseguono ostinatamente
un sogno, lontano dal loro vivere quotidiano. E, con enormi sforzi, un po’ di
spregiudicatezza e tanta creatività, riescono a raggiungerlo.
Ma questa è la realtà, non una
fiaba. E la realtà è sempre più complessa e bastarda, della fantasia. Dopo la
pubblicazione del succitato quinto studio album con la CBS, peraltro appena
discreto, la tragedia è alle porte: l’inizio della fine, che porterà allo
scioglimento della band e a un silenzio quasi ventennale, stava per arrivare in
un’umida notte losangeliana del tardo
autunno 1984, su una Pantera De
Tomaso, bolide da strada italiano, a bordo del quale, per un incidente, perderà
la vita proprio il buon Razzle; un evento traumatico e devastante, che porterà
nel 1985 all’abbandono di Yaffa prima e dello stesso Monroe dopo (il quale
tenterà la via della carriera solista).
La band si scioglie così definitivamente,
ma il lascito per il Glam metal che verrà era stato gettato (oltre ad essere
diventati un’icona in patria). Per esprimere appieno l’eredità degli HR non vi
è miglior cosa che citare le parole stesse di Monroe, che sono allo stesso tempo premessa e conclusione di un modo di vita e di
un atteggiamento estendibile all’intera Scena: Per me rock ‘n’roll è essere se stessi, un individuo che porta avanti
le sue cose secondo i propri termini, che non si svende né si fa dire quello
che deve fare. […] Ribellarsi contro il sistema è questo: uno arriva e ti dice
tutto quello che devi fare e tu gli rispondi: “No, sono padrone assoluto della
mia vita!”. Più chiaro di così…
Ah, quasi dimenticavo…a bordo di
quella Pantera, completamente ubriaco, c’era un certo Vince Neil, che all’epoca
cantava in una band sulla quale, relativamente al Glam metal, forse c’è
qualcosina da approfondire...