"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 mar 2019

LORDS OF CHAOS, PARTE I: MAYHEM & QUEEN




Mentre “Bohemian Rhapsody”, il biopic su Freddie Mercury, saliva sul prestigioso palco degli Oscar aggiudicandosi ben quattro statuette (miglior attore, miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior sonoro), per canali non molto chiari (streaming, Youtube) iniziava ad entrare nelle nostre case “Lords of Chaos”, il film su Euronymous e la sua cricca, seminando indignazione ed isteria nel popolo metallico.

Laddove i Queen hanno appoggiato e sostenuto l’operazione, il prodotto confezionato dal regista svedese Jonas Akerlund ha visto fin dall’inizio un percorso in salita, dovendo affrontare l’avversione da parte dei protagonisti delle vicende narrate, con in prima fila un Varg Vikernes che, nelle insolite vesti di youtuber (ma non viveva senza elettricità in nome della Tradizione?), spopola sul web postando un video dopo l'altro contro il film.

Partiamo dal presupposto che entrambe le pellicole rappresentano prodotti filmici assai mediocri. Quello che tuttavia ha decretato il successo di “Bohemian Rhapsody” è stata la chiarezza di intenti: realizzare un prodotto ad uso e consumo per le masse. E pazienza se i fan della Regina hanno arricciato il naso innanzi alle storture compiute nei confronti della vera storia della band. E comunque, laddove non è arrivata la sceneggiatura e l’interpretazione di Rami Malek (nonostante l’Oscar e l’enorme lavoro compiuto dall’attore, costui rimane a nostro parere inadeguato nei panni di un personaggio così carismatico come Freddie Mercury), sono venute in soccorso le musiche originali dei Queen, giustamente poste al centro di tutto. 

Vincente, a mio parere, l’idea di spiegare la genesi e lo sviluppo del brano che dà il titolo al film: “Bohemian Rhapsody” viene infatti smembrata e raccontata attraverso diversi episodi, dalla sua nascita con l'accenno del tema di piano e voce da parte del solo Mercury, fino all’esplosione della parte rock suonata dal vivo dalla band al completo, passando per le faticose discussioni con il produttore per imporla come singolo (giudicata commercialmente non appetibile per l'eccessiva lunghezza) e per le estenuanti sessioni in studio per la realizzazione dell'intermezzo operistico sotto la severa direzione del perfezionista Mercury. Senza poi contare il fatto che il brano stesso viene ripreso a fine film come apertura dell’esibizione al Live Aid, altro momento topico sia per la ricostruzione virtuosa e maniacale di quello che veramente è accaduto sul palco, sia per la manciata di brani storici riproposti, fra cui spiccano l'anthemicaRadio Gaga” e l'immancabile “We are the Champions”. 

Scene che indubbiamente fanno sognare lo spettatore nostalgico, immergendolo al Wembley Stadium nell'enorme folla che, festante e commossa, assisteva a quell'evento unico che accoglieva la crème de la crème del rock dell’epoca. Scene di un mondo forse illuso ma che esprimeva voglia di vita, di condivisione, di cambiare le cose in un’epoca in cui la musica popolare sapeva ancora emozionare, senza bisogno di ballerini, gossip , sovra-incisioni e playback

Un gradevole sapore che niente ha a che vedere con il disagio che lascia sulla pelle la lunga sequenza (ai limiti della sopportabilità) dell’uccisione di Euronymous con cui si conclude “Lords of Chaos”: una fredda e spietata rappresentazione che, coltellata dopo coltellata, conduce lo spettatore nell’inferno della follia omicida di Varg Vikernes. Immagini che sopravvivono alla visione, che ti rimangono addosso (personalmente, dopo aver visto il film ho sentito il bisogno di ascoltare la musica dei Queen per tirarmi su il morale, non sto scherzando…). 

Contrariamente a “Bohemian Rhapsody”, “Lords of Chaos” è un’opera ambigua e in questa ambiguità risiede il vizio che inficerà la bontà dell’intera operazione. "Lords of Chaos", di fatto, sceglie una storia nota solo ad una ristretta frangia di appassionati, ma lo fa strizzando l’occhio al grande pubblico, finendo per scontentare gli uni e l’altro. 

Lo spettatore medio, infatti, troverà davvero poco interessante la tragica parabola dei Mayhem, non potendo cogliere tutti i riferimenti ben noti al pubblico metal. I metallari, dal canto loro, si divideranno in due fazioni. Da un lato quelli che da sempre schifano il black metal norvegese e che, o ignoreranno la pellicola, o non vedranno l’ora di avversarla ferocemente, trovando in essa conferme alle loro convinzioni secondo cui l’Inner Circle sarebbe stato un branco di ragazzi deviati e privi di talento artistico. Dall'altro coloro che invece il black metal lo adorano e che si sentiranno traditi dalla lacunosa e a tratti falsa rappresentazione degli eventi. 

Certo, la storia vera era stata di per sé talmente assurda che lo sceneggiatore si è visto costretto a smussare certi passaggi, normalizzare gesti insensati ed altrettanto insensati processi di pensiero per rendere credibile la rappresentazione all’occhio del profano. Per questo addirittura ci si è ritrovati ad inventare una fidanzatina per Euronymous: non per gettare pepe su una storia che di pepe non aveva bisogno, ma per cercare di ricondurre ad un quadro intellegibile fatti che sono davvero difficili da spiegare. 

Le ricostruzioni dell’inchiesta condotta da Michael Moynihan e Didrik Soderlind (gli autori del libro da cui il film ricalca anche il titolo) possono aver offerto materiale utile, ma già solo per il “geniale” piano architettato da Varg Vikernes non sarebbe bastata  la penna di Dostoevskij, figuriamoci racchiudere in un paio d'ore circa cinque anni di situazioni inverosimili. Il punto cruciale è proprio il fatto che nessuno saprà mai come sono andate realmente le cose (impossibilità annunciata in maniera palese nella locandina e poi ribadita all’inizio del film con la frase “Based on truth and lies”). Date queste premesse, non sarebbe allora stato meglio puntare sulla finzione totale (come per esempio era stato fatto efficacemente dalla commedia hollywoodiana "Rock Star", che si ispirava liberamente alla storia dei Judas Priest), invece che cercare di raccattare qualche spettatore curioso in più con la carta della "storia vera", finendo così per realizzare un urticante ibrido fra realtà e fiction?

Jonas Akerlund, con i suoi trascorsi come realizzatore di videoclip, mostra inoltre i suoi limiti di non-autore, sfoggiando uno sguardo sospeso fra ironico distacco, trovate sceniche di impatto e lo sforzo (apprezzabile) di aderire esteticamente a quegli scatti fotografici che, in assenza di documenti video, ci hanno fatto conoscere Euronymous e tutti gli altri protagonisti delle vicende narrate. In tutta sincerità, sarebbe stata più calzante quella classica regia "nordica" (asciutta, scattosa, mossa, dominata dai movimenti obliqui e bruschi della steadicam, incorniciata in una fotografia scarna e ricca di contrasti, immersa nel silenzio o nel fruscio di suoni ambientali) che abbiamo conosciuto grazie ad autori come Lars Von Trier e Thomas Vinterberg.

Che Akerlund sia stato il primo ininfluente batterista dei Bathory conta proprio poco (visto che Quorton è stato un pioniere solitario), ma almeno certifica che il Nostro non sia totalmente estraneo al mondo del metal estremo, che ne conosca le caratteristiche fondanti e le varie declinazioni. Ma il fatto che abbia frequentato quel mondo estremo qualche anno prima dell’imporsi dell’Inner Circle e poi lo abbia subito abbandonato per lavorare nel music business con nomi di grido come Metallica, Prodigy, Madonna e Lady Gaga ci fa venire il sospetto che la sua sia una visione fortemente pregiudiziale. 

Forse egli è riuscito ad inquadrare il fenomeno da un punto di vista sociologico, ma sicuramente non da quello artistico. Vede il circolo di Euronymous come una branca di ragazzini senza arte né parte, trasgressivi, piccolo-borghesi che si fanno supportare economicamente dai genitori e che si divertono a bere e a fare stupidi scherzetti alle famiglie (visione irrisoria che emerge in certe gag da dark commedy che vorrebbero essere divertenti e confermata dalla scelta di un attore ebreo, Emory Cohen, per impersonare l’antisemita Vikernes). Un taglio ironico che forse si è reso necessario per scongiurare il rischio di epicizzare le gesta di personaggi che non meritano alcun tipo di celebrazione per quello che hanno fatto al di fuori della musica. 

Peccato però che le innovazioni stilistiche, concettuali e di attitudine introdotte da Mayhem, Burzum, Immortal, Darkthrone ed Emperor siano state del tutto ignorate, lasciando lo spettatore all’oscuro di una importante rivoluzione avvenuta in seno al microcosmo del metal estremo di inizio anni novanta. Contrariamente a "Bohemian Rhapsody", la musica, come tema, è qui relegata a ruolo di contorno, al massimo con la funzione di costituire una cornice storica. I brani delle band del periodo sono spezzettati in base alle tempistiche di riproduzione imposte dalla legislazione in materia di diritti d'autore. In compenso, il metallaro potrà disporre di una selezione significativa di brani atti a ricreare gli umori metal del periodo. Nomi del calibro di Celtic Frost, Sodom, Bathory, Tormentor, Sarcofago, Cathedral, Carcass e molti altri verranno intervallati alle melodie eteree di Sigur Ros, Dead Can Dance, Myrkur  e Tangerine Dream. (tutte scelte azzeccate in quanto in linea con visioni e sensazioni suscitate da certo "metal nordico"). E almeno questa volta, Santo Cielo!, ci siamo risparmiati i Black Sabbath in veste di gruppo satanico!

Il "True Norwegian Black Metal", tuttavia, lo troviamo solo nelle parole di un tronfio Euronymous che ripete continuamente: “Ho inventato il vero black metal norvegese!”. Qualche profano ha persino trovato inverosimile questo atteggiamento, quando ahimè noi tutti ben sappiamo che era davvero così e che la sigla “True Norwegian Black Metal” ha campeggiato su più di un retro-copertina di album rilasciati all’epoca. C'è anche chi si è lamentato della povertà ed insulsaggine dei dialoghi, ma cosa c'era da aspettarsi da teenager sbandati che trascorrevano le loro giornate fra noia e heavy metal? Non aiuta, in tutto questo, un retroterra sociologico impenetrabile quale è quello scandinavo, filtrato peraltro da un cast di lingua inglese (altra scelta a dir poco opinabile...). 

Del resto non potevano essere adeguatamente evidenziati tutti gli aspetti di questa vicenda così sfaccettata e densa di elementi che si intrecciano e contraddicono. Ogni opera comporta una riduzione della complessità della realtà e una sceneggiatura, in senso strutturale, è sempre un atto di sintesi, un “insieme di puntini” disposti su una pagina bianca: sta allo spettatore, con la propria sensibilità e il suo bagaglio culturale, unire questi puntini e costruire una immagine dotata di senso. 

Per questo motivo noi di Metal Mirror non ci siamo indignati più di tanto e, proprio perché abbiamo vissuto consapevolmente quel periodo storico del metal, abbiamo saputo cogliere nella pellicola degli spunti interessanti che ci hanno fatto vivere nuovamente quei fatti e quei personaggi, rinverdendo le nostre emozioni ed imponendoci di approfondire ulteriormente i seguenti punti: