I 10 MIGLIORI ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 2: "SHOUT AT THE DEVIL" (26/09/1983)
Così come è stato difficile,
nella meravigliosa retrospettiva sul True Norwegian Black Metal scritta dal
nostro Mementomori, tenere lontano i discorsi prettamente musicali dai fatti di
cronaca che videro coinvolti i componenti dei principali gruppi trattati, così è davvero difficile
parlare della musica dei Motley Crue senza deviare, e scadere, nel gossip,
nella cronaca giudiziaria e nella vita fuori dal palco dei quattro musicisti.
Con la differenza sostanziale che
qua si parla di Glam e quindi, come detto nell’Anteprima, anche l’atteggiamento
privato e lo stile di vita degli artisti hanno una loro certa importanza sui
risvolti musicali.
Sui Motley e sui loro
35 anni di carriera si sono già spesi fiumi d’inchiostro, e quindi trovare un
punto di vista originale da cui partire non mi risultava semplice. Forse dalle
oltre 100 mln di copie di dischi vendute in carriera? Naah, banale. E poi è un
dato che non dice nulla sulla qualità della musica composta. O dal fatto che “Shout
At The Devil”, l’oggetto del nostro post, ha raggiunto ben 4 dischi di platino?
Bah...idem come sopra.
Forse allora si potrebbe partire
dove ci siamo lasciati nella puntata precedente, in quella sera dell’8 dicembre
1984, a quel maledetto frontale che, come in una sorta di cinematografico turning point, di idealtipico bivio
della vita, da un lato, con la drammatica morte di Razzle, segnò la fine della
carriera per gli Hanoi Rocks, e dall’altro invece di certo non scalfì, e forse
anzi rafforzò, il fascino perverso dei Motley, aumentandone se possibile il
successo già notevole e l’aura di “maledizione” che il combo americano si era
creato e alimentato in appena tre anni di vita. Passate un paio di settimane in
galera e pagata una multa milionaria, Vince Neil, frontman del gruppo, tornò in
pista pronto per registrare il nuovo disco, e la carriera della band continuò
senza intoppi. Prova ne furono “Theatre of pain” (1985), disco che venne
dedicato proprio alla memoria di Razzle, e “Girls, girls, girls” (1987, a detta
della maggior parte della critica il loro capolavoro), che decretarono in
misura planetaria la consacrazione del gruppo, e che, col “nostro" SATD,
formano un trio assolutamente straordinario ed esemplificativo di quella che
può essere definita la band più heavy
dell’intera scena Glam statunitense.
Per la nostra Retrospettiva ho scelto
di soffermarmi sul primo platter del
trittico sia perché rappresentò il punto di volta e di slancio della band, sia
perché a mio modo di vedere nei due full lenght successivi qualcosa rispetto
all’”autenticità” degli esordi si perse per strada: forse una certa
sfrontatezza, una certa ruvidità e incazzatura nel songwriting, che presenterà meno
richiami agli stilemi della NWOBHM a favore di un relativo immorbidimento del
sound e della ricerca, peraltro fortunatissima e non so quanto voluta, di hit da
classifica.
Si badi bene però: questo fu un risultato ottenuto senza diventare
“commerciali” in senso stretto ma mantenendo una propria coerenza artistica e
un’identità riconoscibilissima.
Un’identità che comunque nel 1983
aderiva perfettamente ai canoni glam che si andavano formando. Basti partire dal
nome scelto: muovendosi intelligentemente in una logica di
autoironia e scanzonatezza, e cogliendo al volo l’espressione di un loro amico
che li apostrofò con l’espressione “What a motley lookin' crew!”, decisero di
chiamarsi proprio in questo modo: “Banda di Pagliacci”. Geniale! (in realtà "motley" vuol dire variegato, eterogeneo, ma il senso in italiano è grossomodo questo, con un accezione del termine "pagliacci" però non denigratoria ma divertita e simpatica). E che dire della
copertina del disco? Se da un lato la band stessa l’ha presentata come un
omaggio all’ultimo studio album dei Beatles, quel “Let it be” del 1970 che
riportava nel front della cover divisa in quattro parti le facce degli
Scarafaggi più famosi della storia della musica (e che verranno celebrati in
SATD con una riuscitissima ed emozionante cover di “Helter skelter”),
dall’altro si mette in fila assieme a quella sequela di dischi glam con copertine
che presentano in bella mostra i primi piani dei componenti del gruppo,
truccati all’inverosimile, con gli sguardi lascivi e ammiccanti verso il
pubblico. Sembra quasi che i Nostri debbano impersonare delle
maschere, dei personaggi con un determinato copione all’interno di una
rappresentazione filmica (chi ha detto Kiss?), altamente spettacolare e…sessualmente
pruriginosa (c'era da giurarlo, no??).
Il titolo dato all’album e
l’utilizzo del pentagramma, simboli palesemente ancora una volta autoironici,
non fermarono gli ottusi attacchi dei gruppi conservatori cristiani che
accusarono la band di istigare gli ascoltatori all’adorazione del Diavolo (sic!). In
realtà le tematiche trattate sono quelle archetipe del Glam: ribellismo giovanile, edonismo, sesso
sfrenato, consumo smisurato di alcool e droghe. Temi che accompagneranno i
Motley Crue per tutto l’arco della loro carriera musicale. E della loro vita, privata ma volutamente di dominio pubblico.
Questi aspetti, se da un lato
hanno forse favorito la loro fama e l’utile attenzione dei media, dall’altro è
andato probabilmente a discapito di una seria analisi della loro musica e
capacità tecniche. E questo è un peccato. Perché se è vero che Vince Neil non è
di certo un cantante dalle grandi doti, e la sua voce risulta spesso stridula e
gracchiante, seppur funzionale al mood generale dei pezzi, dall’altro Tommy Lee è un
batterista coi controcazzi (anche se probabilmente passerà alla storia solo
come l’ex marito di Pamela Anderson e per le loro evoluzioni sessuali in mezzo
al mare; oppure per la sua batteria rotante, il “rollercoaster drum-set”, che
lo porta a volteggiare, ancorato al proprio strumento sopra la testa del
pubblico suonando a testa in giù); e Mick Mars è, a mio modesto avviso, uno dei
migliori chitarristi glam di sempre (vederlo suonare ora, a 60 anni suonati,
tutto ingobbito e rinsecchito e col volto inespressivo sfigurato dai
lifting…beh, è una tristezza!)
Rispetto al "Capitolo 1" della
nostra rassegna, ora i canoni musicali cambiano non poco: se “Back to Mystery City”
era un album, come detto, che nella sua eterogeneità presentava di certo poco
metal in senso stretto, in SATD ritroviamo invece un bel po’ di sano heavy, seppur mescolato alle matrici
hard rock che sono altrettanto in evidenza. Questo è perciò fondamentalmente un
album granitico, monolitico e che fa della compattezza e dell’uniformità la sua
arma vincente, un platter che
ascoltato tutto d’un fiato fa l’effetto di un bell’assalto frontale, un indigesto pugno nello stomaco. Quest’ottimo
risultato lo dobbiamo principlamente all’autore di tutte le musiche,
sporadicamente coadiuvato dai compagni, e cioè Frank Serafino Jr., il bassista
della band. Di certo Serafino non era un cognome molto cool per la Los Angeles di quegli anni, e infatti venne cambiato
nel più glamour Nikki Sixx. Fu
proprio lui a fondare la band insieme a Lee, dopo aver incrociato più volte nei
tardi anni settanta la strada di Blackie Lowless (altro "mito" degli anni ottanta e su cui dovremo necessariamente tornare). Su Sixx ci si potrebbe
scrivere un libro (e in effetti lui la sua autobiografia se l’è scritta!) per
quanti aneddoti e follie può offrire alle cuoriosità del lettore-fan, tra cui anche quella di aver fatto nel
1987 un simpatico viaggetto andata/ritorno per l’Aldilà dopo un’overdose…
Ma tornando a noi, l’opera di scrittura di Sixx unisce
appunto la melodia dell’hard rock e la potenza dell’heavy metal; potenza che si
esplica soprattutto grazie al riffing tagliente di Mick Mars e alle bordate
dietro le pelli di Tommy Lee. E se da un lato non ci sono tanti fronzoli né complessità nei
pezzi che compongono il disco, dall'altro non troviamo neppure tante concessioni a quell’appeal da classifica che avrebbe caratterizzato, tanto per intenderci, le future “Home sweet home” o “You’re all I need”
(peraltro quest’ultima è una delle power ballad più amare e struggenti mai
composte in ambito heavy). Certo i semplici chorus di facile presa, e che si prestano ad essere
urlati a squarciagola dal vivo, sono presenti e in misura consistente, ma sono
sempre funzionali al brano e soprattutto danno una grande carica
all’ascoltatore. Ma sono i mid-tempo robusti e compatti quelli che hanno la
prevalenza sul resto, con risultati sempre notevoli (basti sentire la
title-track o le splendide “Ten seconds to love” e “Too young to fall in
love”).
Menzioni speciali per “Looks that
kill”, che presenta il riff più oscuro del disco, supportato da un Lee che
pesta come un ossesso; per “Red Hot”, il brano più veloce e vitaminico del
lotto, un pezzo che sembra arrivare direttamente dalla NWOBHM, tanto che secondo
me avrebbe fatto bella figura nella compilation Metal for Muthas (con un video consigliatissimo per i maschietti…);
e per la conclusiva “Danger”, per chi scrive il pezzo migliore del disco per la
sua originalità rispetto agli altri, varietà e relativa sperimentazione. Questo
è infatti un pezzo sinuoso, che alterna parti melodiche ed arpeggiate a riffs
robusti e variegati.
Insomma, credo di non esagerare
se dico che i Motley Crue sono stati il gruppo più rappresentativo e importante di un
intero genere, quella a cui si cuce addosso in modo perfetto, e meglio che a
chiunque altro, il famigerato trittico “sex, drugs and rock n’roll”; una
leadership conquistata sì in studio ma soprattutto dal vivo, dove i quattro pagliacci non si risparmiavano e
davano sfoggio di tutto l’armamentario glamour che avevano in repertorio: dal
vestiario improbabile e kitsch, alla gestualità irriverente e provocante, all’utilizzo
di donnine seminude che si lasciavano andare in pettings sfrenati tra di loro nonchè direttamente con Neil&Co.
Fu anche con queste armi che misero la scena losangeliana a ferro e a fuoco negli
anni ’80 ed è per questo che vennero odiati dai benpensanti (e questa potrebbe
essere l’unica ragione per la quale non sono ancora entrati nella Rock and Roll Hall of Fame), ma amati da
una massa enorme di kids.
Ma anche eliminando, da un
insieme in realtà inscindibile, i matrimoni con conigliette di play boy e attrici
di Baywatch, autobiografie personali e di gruppo che diventarono bestsellers, videoclip che
assomigliavano più a delle riprese per dei casting di Hustler, terribili depressioni
ed esaltanti risalite, e tante altre tamarrate assortite, rimane un lascito decisivo
per tutto l’hard ‘n’ heavy ottantiano; e in particolare un album, questo, che
ci consegna una band in splendida forma, in una fase creativa forse non ancora
al culmine (effettivamente “Girls, girls, girls” è leggermente superiore) ma
già matura, con una fame di “arrivare” e di disturbare che in pochi altri in
quel 1983, potevano vantare (e tra questi ovviamente i loro “gemelli diversi”
dell’epoca, cioè i grandi gruppi thrash).
Si, ho utilizzato appositamente il termine "fame". Un sostantivo che secondo me fotografa bene l'approccio generale della Scena Glam. E che ci porta dritti dritti a prendere in esame un altro personaggio unico di quel mondo e di quel periodo...un personaggio che di fame ne aveva molta e non lo mandava di certo a dire...