9 nov 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: LOSS


Ventottesima puntata: Loss - "Despond" (2011)

E’ strano constatare come certi album di funeral doom siano restii ad essere descritti a parole e certi altri, invece, si prestino molto bene ad essere raccontati, tanto da indurre il recensore a ricorrere ad un track by track. Appartiene a questa seconda categoria l’ottimo “Despond”, debutto rilasciato dagli americani Loss nel 2011. 

C’è da ammettere che gli Stati Uniti hanno un tocco magico in campo estremo, cosa vera storicamente (si pensi al thrash negli anni ottanta e al death metal negli ottanta/novanta) ma che si è andata ad accentuare nel nuovo millennio. Indubbiamente, negli ultimi venti anni, i musicisti americani hanno saputo incarnare in modo vincente modelli europei, rileggendoli alla luce della loro sensibilità e degli stimoli ricevuti dalla loro terra: lo si è visto in modo evidente sul fronte del black metal, ma ovviamente anche in altro ambiti come per esempio nel funeral doom. Lo sanno bene proprio i Loss, che vengono da Nashville, non di certo un posto a caso per chi fa musica negli Stati Uniti...

Dopo una gavetta di qualche anno costellata da demo e split con nomi più o meno prestigiosi (da segnalare almeno quello in compagnia dei Worship), i Loss esordivano nel 2011 con “Despond”, la cui copertina richiama quelle della accoppiata “Damnation”/“Deliverance” degli Opeth. Coincidenza o cosa voluta che sia, gli Opeth, e proprio quelli di “Deliverance”, verranno più di una volta in mente lungo i quasi sessantasette minuti di durata dell’opera. 

Il suono dei Loss è chitarra-centrico, affidandosi completamente all’ottimo lavoro dei due chitarristi Tim Lewis e Mike Meacham (anche alla voce), mentre solo sporadicamente, e principalmente in occasione degli episodi strumentali, la band ricorrerà alle tastiere. La sezione ritmica si compone di John Anderson (al basso e all'occorrenza anche al pianoforte) e di Jay LeMaire, il quale, dietro alle pelli riesce a supportare adeguatamente il dinamismo delle delle due asce, pur non rinunciando ad una considerevole lentezza. Importante aggiungere che tutti e quattro i musicisti si mettono a disposizione anche in altri reparti, chi al pianoforte, chi alle tastiere, chi dietro al microfono, fornendo una prestazione collettiva fondata sulla libertà di espressione, sulla flessibilità (in merito a chi fa cosa) e sulla piena sinergia delle forze messe in campo. La produzione, ruvida ed al contempo vibrante, è quanto di meglio si possa richiedere ad un album di funeral doom che intende inseguire certe intuizioni progressive sdoganate da Opeth e Katatonia, ma al contempo non abbandonare il calore e l'intimismo di certo cantautorato americano.  

I Loss non stravolgono le regole del gioco, dunque, ma sanno mettere in fila una serie di idee che rendono intrigante l'ascolto della loro musica. Come tacere, per esempio, dell’intro “Weathering the Blight” che in un solo minuto ci introduce in una America polverosa ed apocalittica (degna di un romanzo di Cormac McCarthy!) fra stanchi arpeggi di chitarra acustica ed una voce roca che richiama in modo evidente la tradizione cantautoriale della città di Nashville. In questo frangente viene in mente un nome come Panopticon, percorritore di vie similari in ambito black metal (atmosferico). 

Non abbiano a preoccuparsi i cultori del funeral doom visto che i dieci minuti di “Open Veins to a Curtain Closed” riportano il discorso proprio su quei binari. L’incipit del brano si rivela essere da vero manuale del funeral doom, con colpi di batteria lenti e sconsolati lasciati a se stessi e il susseguente avvento di chitarre e growl chiuso e sofferente, tanto per mettere le cose in chiaro. Ma è solo questione di pochi minuti, subito la band è in grado di cambiare completamente scenario immergendoci nei fraseggi di una “assolata” chitarra acustica dai languidi umori southern. Dopo questa inaspettata oasi di quiete, la ripartenza è affidata alla riproposizione del modulo iniziale e a struggenti paesaggi opethiani vecchia maniera. 

La tensione non cala con “Cut Up Depressed and Alone”, che inizia con riff dolenti che richiamano in qualche maniera lo spleen della ballata blues (ho detto vagamente!) per poi proseguire con un’altra decina di minuti del tutto esaltanti che brillano ancora una volta di una verve tutta opethiana. Con questa accoppiata iniziale si consuma anche la parte di maggior pregio del disco, che proseguirà il suo cammino in modo altalenante, fra brillanti intuizioni e qualche momento canonico di troppo. Forse la classica sforbiciata avrebbe giovato al tutto.

I tre minuti interlocutori della strumentale “Deprived of the Void” introducono stilemi ambient-noise, quasi un farfugliare black metal fra cupe tastiere e la polvere di certe cittadine del sud degli Stati Uniti (da segnalare il contributo alla chitarra di Zack Allen, il quale proveniva dalla stoner band Mourner). Proseguiamo incuriositi. “An Ill Body Seats my Sinking Sights”, tuttavia, è un brano che non riserverà molte sorprese, volendo ribadire la missione funeral doom della band, fin troppo chiara senza bisogno di troppi rafforzativi. Certo, se abbiamo considerato “Powerslave” degli Iron Maiden un capolavoro con brani come “Back in the Village”, sarebbe ingiusto accanirsi contro i Loss per un più che dignitoso brano doom. 

La breve title-track è un altro intermezzo strumentale, questa volta a base di tetro pianoforte e tappeto di rumori d’ambiente: un ulteriore elemento di suggestione, ma che non aggiunge altro a quanto mostrato dalla band fino a quel momento. “Shallow Pulse”, ahimè, fa il paio con “An Ill Body Seats my Sinking Sights”, consolidando la vocazione doomica della band: qui i Nostri si trascinano ancora più a fondo nella loro ricerca esistenziale grazie anche alla penna del maestro del depressive black metal americano Scott Conner alias Malefic (Xasthur) che si occupa delle liriche del brano. Il brano, per la cronaca, si fregia anche di cori misticheggianti, avvicinandosi in qualche modo alle prime cose degli Esoteric (per la gioia degli appassionati del genere, ma forse annoiando un poco tutti gli altri). 

Registreremo lampanti segnali di ripresa nella porzione finale della scaletta, con un trittico di brani in grado di destare nuovamente l’attenzione dell’ascoltatore. L’intensa e sofferta “Conceptual Funeralism unto the Final Act” (che bellezza questi titoli!) prende in prestito un po’ di intuizioni melodiche dai My Dying Bride, cosa che perdoniamo considerati gli ottimi risultati e le ispirate linee di chitarra (con anche qui cori d’oltretomba a rincupire il tutto). “Silent and Completely Overcome” che si apre con la voce pulita (quella di Brett Campbell, niente meno che dai Pallbearer) è invece l’episodio più dinamico e variegato del lotto, con lo scambio dei due registri vocali (pulito e growl) e persino un violentissimo (quanto inaspettato) blast-beat a smuovere le acque. Titoli di coda con la bella strumentale (ben più di un outro, considerati i suoi sette minuti di durata) “The Irreparable Act”, dominata dagli sconsolati arpeggi della chitarra acustica ed impreziosita da interventi di chitarra elettrica e di un organo chiesastico. 

L’impressione che si ha a fine ascolto è quella di un’anima tormentata che ha seriamente meditato sull’idea del suicidio e che, dopo diversi tentennamenti, ha deciso di mettere fine alla propria esistenza ed a tutti gli affanni patiti in vita, cosa che, considerati i toni liberatori, quasi ascetici, dell’ultima traccia, la band non sembrerebbe vedere come un male in sé. 

I Loss sono tutt’oggi attivi, ma non si può certo dire che abbiano inondato di uscite il mercato discografico. L’opera seconda, “Horizonless”, uscirà nel 2017, ben sei anni dopo l'esordio e ad oggi è da considerare come l'ultimo lascito della band. Ma del resto, si sarà capito, chi opera nei ranghi del funeral doom lo fa solo perché mosso da passione per il genere e per ispirazione, visto che in pochi, pochissimi (forse nessuno) è in grado di campare (solo) con questa musica: un aspetto che nobilita ulteriormente un genere a cui in genere si dà poco credito, credendolo uno sfizio perverso ed esclusivo per certe frange di ascoltatori di metal estremo, quando invece meriterebbe un ascolto schietto e libero da pregiudizi. Fortunatamente, finché si è vivi, si è sempre in tempo per rimediare e “Despond” può essere un buon ingresso per accedere a queste sonorità. 

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