19 mag 2015

BLACK METAL E NORVEGIA: KONKLUSJONEN




QUELLI CHE SALUTANO…

BLACK METAL NORVEGESE:  I MIGLIORI DIECI ALBUM

Stilare la nostra classifica è stata per noi un’utile occasione per calarci nuovamente in quel mondo che tanto ci ha affascinati nel corso degli anni novanta. Riascoltare significa non solo riscoprire, ma anche narrare una storia nuova, ovviamente alla luce di una nuova consapevolezza.

Il nostro modo di procedere è stato incrementale, ossia una trattazione in cui si sono aggiunti via via nuovi pezzi senza un ordine o una sistematicità definite a monte. Adesso però che le carte sono state scoperte, gettiamo un ultimo sguardo al tema ricomponendo quel mosaico di cui abbiamo conosciuto solamente i singoli tasselli, sparsi in modo disordinato.

Nella nostra dissertazione ci siamo imbattuti in almeno tre concezioni diverse di black metal. C’è quella falsa dei Venom, che hanno ufficialmente inaugurato il genere con l’album “Black Metal”. Il loro sound rozzo e violento, nell’anima irriducibilmente motorheadiano, poco aveva in realtà del black metal come oggi lo intendiamo, ma costituì un input fondamentale per la genesi del thrash metal, all’epoca (siamo agli inizi degli anni ottanta) la manifestazione più estrema nel reame del metallo.

Vi è poi quella schiera di band che possiamo riunire sotto la bandiera del “proto-black metal”, che già facevano un discorso diverso: mi riferisco a formazioni quali Bathory, Hellhammer, Celtic Frost (ma alla lista potremmo aggiungere anche Sodom, Destruction, Sarcofago, Tormentor, Bulldozer – e non faccio altro che elencare gli artisti indicati nella compilation “Fenriz presentes…The Best of Old-School Black Metal”): band che si affermavano come l’estrinsecazione ulteriormente più violenta del thrash metal e che approdarono a lidi di cattiveria, morbosità e mestizia inedite. Nel caso di Bathory e di opere come “Under the Sign of the Black Mark” e “Blood Fire Death” già potremmo parlare di black metal, ma se oggi guardiamo al black metal come genere a sé stante, ci dobbiamo riferire ad una terza accezione, che è quella formulata dalle band norvegesi all’inizio degli anni novanta.

Il fenomeno artistico, che ha goduto di un’incredibile amplificazione mediatica per via degli infausti eventi di cronaca a tutti noti (roghi di chiese, profanazione di luoghi di culto, suicidi, omicidi, incarcerazioni ecc.), ha raggiunto immani proporzioni, nonostante si fosse sviluppato nell’arco di pochi anni. La nascita del “nuovo genere” si deve senz’altro all’operato dei Mayhem ed in particolare a quello del loro leader Euronymous. Proprietario del negozio Helvete e titolare della casa discografica Deathlike Silence Productions, egli, con la sua band, ha ideato e forgiato la maggior parte dei cliché stilistici del genere, tant’è che già nell’anno di grazia 1990 i Mayhem suonavano già compiutamente black metal (ascoltare “Live in Liepzig” per credere). Il loro maelstrom musicale, fatto di ritmiche velocissime, riff gelidi e malati e vocalità scomposte ed agonizzanti, si sganciava definitivamente da ogni altra cosa prodotta in campo estremo fino a quel momento.

L’influenza che esercitò Euronymous fu fondamentale, e di lì a poco le sue intuizioni divennero standard, presto adottati da molte altre band, fra cui Immortal, Burzum e Darkthrone. In particolare quest’ultimi seppero coniare un nuovo linguaggio che, album dopo album, finì con il definire l’identità di quello che poi sarebbe stato denominato da loro stessi “True Norwegian Black Metal”. Capire il black metal norvegese significa seguire l’escalation artistica dei Darkthrone nel corso dei tre loro capolavori “A Blaze in the Northern Sky” (1992), “Under a Funeral Moon” (1993) e “Transilvanian Hunger” (1994). Il percorso “involutivo” di questa band traghettò definitivamente il nascente black metal verso quelle forme scarne e nichiliste con cui da quel momento in poi il black metal verrà identificato. In altre parole: produzione sporca e volutamente lo-fi, batteria battente come se non vi fosse un domani, riff melodici ripetuti con glaciale ossessività, una voce gracchiante (il cosiddetto screaming) che perdeva la profondità e la potenza del growl.  Per non parlare del corpse-painting e delle copertine in bianco e nero.

Non si fece in tempo a codificare/formalizzare gli stilemi del “nuovo genere”, che già vi era chi esplorava nuove vie. Il biennio 1994-1995 fu formidabile da questo punto di vista, perché già in esso emersero i grandi capolavori della seconda ondata. Enslaved e Hades approfondirono l’indirizzo viking; gli Emperor si cimentarono in ambiziose partiture sinfoniche; gli Ulver si avventurarono per le vie scoscese del folk nordico; gli In the Woods, dal canto loro, seppero perseguire suggestive divagazioni pinkfloydiane. Da menzionare il significativo contributo dei Satyricon, interessati ad atmosfere oscure e medievaleggianti; l’approccio “depressive” dei Forgotten Woods; il taglio atmosferico dato dai Gehenna (che facevano uso di tastiere senza ambire a trame progressive); la verve sperimentale dei “Ved Buens Ende….” che addirittura si spinsero in territori jazz/noise. Nel frattempo, con Varg Vikernes già dietro alla sbarre per l’omicidio di Euronymous, uscivano centellinati i lavori già da tempo pronti di Burzum che aprivano nuovi scenari in direzione post/ambient. C’è da aggiungere senz’altro che la forza dell’intera scena si basava su un continuo “scambio” e sulla fruttuosa collaborazione fra musicisti appartenenti a band diverse. Si perde il conto dei progetti paralleli, fra cui possiamo citare, oltre ai già citati Ved Buens Ende… ed agli Arcturus, anche Zyklon-B, Storm e (successivamente) Borknagar. Molti di questi artisti aprirono interessanti parentesi soliste: un nome su tutti, il progetto Isengard di Fenriz (dei Darkthrone), volto a commissionare metal e folclore popolare.  

Insomma, una fiammata vigorosa, in cui fu forgiato realmente un nuovo linguaggio, tanto che potremmo definire quell’epoca l’ultimo momento davvero creativo ed innovativo vissuto dal metal (destinato poi a ripiegare sulle “finte” evoluzioni del crossover e del post-metal); e non è un caso che il black metal verrà riscoperto, anni dopo, all’alba del terzo millennio, mostrandosi un genere ancora fresco e malleabile, capace di flirtare con il post-rock e lo shoegaze. Nel biennio successivo 1996-1997, tuttavia, si registrò un lieve calo di ispirazione collettiva; in quegli anni si lavorava di fino, con lavori sostanzialmente o di mestiere, o di riepilogo, o di forte contaminazione, o di regressione verso il passato. Da un lato assisteremo al debutto in formato LP dei prodigiosi Arcturus ed alla travolgente ascesa dei Dimmu Borgir, che presto diverranno la più popolare delle band norvegesi con il loro intrigante approccio sinfonico (che diverrà una vera moda, facendo accodare al carrozzone nuovi nomi, certi buoni, come Covenant e Limbonic Art, altri meno, come gli insulsi Dismal Euphony). Dall’altro lato, c’era chi continuava a portare avanti l’ortodossia e l’aderenza agli stilemi della prima mandata (è il caso di Gorgoroth, Taake ed Aura Noir, che in certi casi seppero sfornare prodotti veramente notevoli). 

Ma dopo i fasti del primo lustro degli anni novanta, è innegabile che l’intera scena vivesse una fase di disorientamento, che, beninteso, non equivale a dire che non siano state rilasciate opere interessanti o che non siamo emersi nuovi talenti. A parte qualche nome degno di nota (mi vengono in mente Dodheimsgard e Solefald, entrambi incamminati verso lidi avanguardistici), fu veramente una fase di dispersione: chi si sganciò direttamente dal genere (si guardi alla svolta elettronica degli Ulver), chi invece decise di guardarsi indietro: emblematico fu il dietro-front compiuto dai Darkthrone, che, interrotta bruscamente la propria ricerca, decisero di regredire ai loro natali, prima tornando a quel proto-black che li aveva ispirati, per poi indietreggiare ulteriormente fino al punk, incontestabile antenato del black metal. S’inizierà dunque a parlare di black’n’roll.

Brutta bestia il black’n’roll. In molti vi cadranno, ma a tal riguardo vorrei soffermare l’attenzione su una band in particolare: i Carpathian Forest, i quali avrebbero meritato di rientrare nella top-ten, ma che ho volutamente lasciato fuori.

Sebbene non fossero gli ultimi arrivati (erano già attivi dal 1990), i Carpathian Forest giunsero alla pubblicazione del loro primo full-lenght “Black Shining Leather” nel 1998, quando sul black metal era già stato detto più o meno tutto. Essi presentavano delle peculiarità che li distinguevano dagli altri, sebbene nei fatti, essi non introducessero rilevanti innovazioni. Laddove Mayhem, Darkthrone, Burzum seppero concettualizzare e modellare un tipo di musica che prima non esisteva, i Carpathian Forest rimanevano saldamente legati alle eminenze del vecchio proto-black metal.  Quando ascoltai per la prima volta l’EP “Through Chasm, Caves and Titan Woods”, rilasciato nel 1995, mi chiedevo come mai si parlasse così bene di questa band reazionaria che suonava così fottutamente old-school. Arrivato alla quinta traccia, l’emblematica “Journey Through the Cold Moors of Svarttjern” capii il perché: il pezzo presentava tempi cadenzati e persino delle chitarre acustiche, ma trasudava da ogni poro l’autentico spirito del black metal. Capii che i Carpathian Forest, per suonare malvagi e sinistri quanto gli altri, non avevano bisogno di correre a mille all’ora né di smaterializzarsi in tour de force di chitarre zanzarose. Ma “Journey Through the Cold Moors of Svarttjern”, ahimè, rimarrà probabilmente il momento più alto della loro produzione: parte di questa autenticità andrà perduta proprio con l’agognato full-lenght, che godrà di una veste finalmente professionale ed avrà comunque il merito di formalizzare quell’urgenza comunicativa che fino a quel momento si era dispersa in una manciata di geniali tracce sparse fra demo ed EP.

Black Shining Leather” è figlio di due approcci ben distinti, ma complementari: da un lato Nattefrost, lo sguaiato iconoclasta a cui dobbiamo le influenze mutuate dal punk, dall’hardcore, dal thrash metal. Dall’altra il mesto Nordavind, l’anima più propriamente black-metal dei due: i suoi brani sono quelli più meditativi ed atmosferici e brillano di un’introspezione che andrà scemando nel tempo (la figura di Nattefrost acquisirà un peso maggiore già dal successivo “Strange Old Brew”, fino a divenire predominante con la fuoriuscita di Nordavind dalla band durante le registrazioni di “Morbid Fascination of Death”). Dall’incontro di queste due personalità contrapposte, ancora perfettamente bilanciate in “Black Shining Leather” scaturisce un suono malato in continua oscillazione fra contemplazione ed irriverente black’n’roll.

“Black Shining Leather” chiude un ciclo, ponendosi per certi aspetti già al di fuori di esso. In questo album del 1998 si completa una parabola generazionale che pare aver esaurito la propria spinta innovativa. “Black Shining Leather”, già culturalmente diverso, non è solo, da un punto di vista stilistico, l’iniziatore ufficiale di un percorso reazionario che porterà a disconoscere le maggiori innovazioni stilistiche degli anni precedenti per regredire ad un suono rozzo che tornerà a guardare indietro a Venom, a Sodom ed alla immediatezza del punk. “Black Shining Leather”, da un punto di vista concettuale, è un album fisico e riporta la “carne” al centro di tutto, dopo che lo sforzo, negli anni precedenti, era stato fatto nella direzione opposta, ossia verso una dimensione metafisica, dove la fisicità del metal si smaterializzava in suoni pastosi e indefiniti. Laddove avveniva la fusione con la natura, laddove vi era la riscoperta delle tradizioni, laddove il Conte guardava alle stelle, nella musica dei Carpathian Forest acquisiscono spazi crescenti catene, fruste e perversioni sessuali (la title-track, “Sadomasochistic”, “Pierced Genitalia” sono solo degli esempi). Pure la scelta dei suoni (il clangore metallico del basso, l’effetto “pentola” della batteria, le chitarre corpose, fredde come lame) sembra supportare questa visione, riportando lo slancio introspettivo del black metal ad una maggiore fisicità.  In mezzo a queste asperità, si diceva, sopravvivono ancora momenti di introspezione nera come la pece (“In Silence I Observe”, “Lunar Nights”, “The Northern Emisphere”), che palesano una complessità ed una capacità di coniugare istanze opposte che non erano evidentemente alla portata di tutti.

Tutto questo, dunque, erano i Carpathian Forest di “Black Shining Leather”, ultimo fuoco di una stagione artistica irripetibile, prima che questa iniziasse a declinare anche grazie a loro: cattivi maestri che avrebbero aperto la strada ad illustri colleghi come Darkthrone e Satyricon in una assurda rincorsa all’involuzione in direzione Motorhead, che, nella notte dei tempi, furono i principali ispiratori dei Venom, dai quali tutto originò…