BLACK METAL NORVEGESE: I MIGLIORI DIECI ALBUM
Stilare
la nostra classifica è stata per noi un’utile occasione per calarci nuovamente
in quel mondo che tanto ci ha affascinati nel corso degli anni novanta.
Riascoltare significa non solo riscoprire, ma anche narrare una storia nuova,
ovviamente alla luce di una nuova consapevolezza.
Il nostro
modo di procedere è stato incrementale, ossia una trattazione in cui si sono
aggiunti via via nuovi pezzi senza un ordine o una sistematicità definite a
monte. Adesso però che le carte sono state scoperte, gettiamo un ultimo
sguardo al tema ricomponendo quel mosaico di cui abbiamo conosciuto
solamente i singoli tasselli, sparsi in modo disordinato.
Nella
nostra dissertazione ci siamo imbattuti in almeno tre concezioni diverse di
black metal. C’è quella falsa dei Venom, che hanno ufficialmente
inaugurato il genere con l’album “Black Metal”. Il loro sound rozzo e
violento, nell’anima irriducibilmente motorheadiano, poco aveva in
realtà del black metal come oggi lo intendiamo, ma costituì un input fondamentale
per la genesi del thrash metal, all’epoca (siamo agli inizi degli anni ottanta)
la manifestazione più estrema nel reame del metallo.
Vi è
poi quella schiera di band che possiamo riunire sotto la bandiera del “proto-black
metal”, che già facevano un discorso diverso: mi riferisco a formazioni
quali Bathory, Hellhammer, Celtic Frost (ma alla lista
potremmo aggiungere anche Sodom, Destruction, Sarcofago, Tormentor,
Bulldozer – e non faccio altro che elencare gli artisti indicati nella
compilation “Fenriz presentes…The Best of Old-School Black Metal”): band che si
affermavano come l’estrinsecazione ulteriormente più violenta del thrash metal e
che approdarono a lidi di cattiveria, morbosità e mestizia inedite. Nel caso di
Bathory e di opere come “Under the Sign of the Black Mark” e “Blood Fire Death”
già potremmo parlare di black metal, ma se oggi guardiamo al black metal come
genere a sé stante, ci dobbiamo riferire ad una terza accezione, che è quella
formulata dalle band norvegesi all’inizio degli anni novanta.
Il
fenomeno artistico, che ha goduto di un’incredibile amplificazione mediatica per
via degli infausti eventi di cronaca a tutti noti (roghi di chiese,
profanazione di luoghi di culto, suicidi, omicidi, incarcerazioni ecc.), ha
raggiunto immani proporzioni, nonostante si fosse sviluppato nell’arco di pochi
anni. La nascita del “nuovo genere” si deve senz’altro all’operato dei Mayhem
ed in particolare a quello del loro leader Euronymous. Proprietario del
negozio Helvete e titolare della casa discografica Deathlike Silence
Productions, egli, con la sua band, ha ideato e forgiato la maggior parte
dei cliché stilistici del genere, tant’è che già nell’anno di grazia 1990
i Mayhem suonavano già compiutamente black metal (ascoltare “Live in Liepzig”
per credere). Il loro maelstrom musicale, fatto di ritmiche velocissime,
riff gelidi e malati e vocalità scomposte ed agonizzanti, si sganciava
definitivamente da ogni altra cosa prodotta in campo estremo fino a quel
momento.
L’influenza
che esercitò Euronymous fu fondamentale, e di lì a poco le sue intuizioni
divennero standard, presto adottati da molte altre band, fra cui Immortal,
Burzum e Darkthrone. In particolare quest’ultimi seppero coniare
un nuovo linguaggio che, album dopo album, finì con il definire l’identità di
quello che poi sarebbe stato denominato da loro stessi “True Norwegian Black
Metal”. Capire il black metal norvegese significa seguire l’escalation
artistica dei Darkthrone nel corso dei tre loro capolavori “A Blaze in the
Northern Sky” (1992), “Under a Funeral Moon” (1993) e “Transilvanian
Hunger” (1994). Il percorso “involutivo” di questa band traghettò definitivamente
il nascente black metal verso quelle forme scarne e nichiliste con cui da quel
momento in poi il black metal verrà identificato. In altre parole: produzione
sporca e volutamente lo-fi, batteria battente come se non vi fosse un
domani, riff melodici ripetuti con glaciale ossessività, una voce gracchiante
(il cosiddetto screaming) che perdeva la profondità e la potenza del growl. Per non parlare del corpse-painting e
delle copertine in bianco e nero.
Non
si fece in tempo a codificare/formalizzare gli stilemi del “nuovo genere”, che
già vi era chi esplorava nuove vie. Il biennio 1994-1995 fu formidabile da
questo punto di vista, perché già in esso emersero i grandi capolavori della
seconda ondata. Enslaved e Hades approfondirono l’indirizzo viking;
gli Emperor si cimentarono in ambiziose partiture sinfoniche; gli Ulver
si avventurarono per le vie scoscese del folk nordico; gli In the Woods,
dal canto loro, seppero perseguire suggestive divagazioni pinkfloydiane. Da
menzionare il significativo contributo dei Satyricon, interessati ad
atmosfere oscure e medievaleggianti; l’approccio “depressive” dei Forgotten
Woods; il taglio atmosferico dato dai Gehenna (che facevano uso di
tastiere senza ambire a trame progressive); la verve sperimentale dei “Ved
Buens Ende….” che addirittura si spinsero in territori jazz/noise. Nel
frattempo, con Varg Vikernes già dietro alla sbarre per l’omicidio di Euronymous,
uscivano centellinati i lavori già da tempo pronti di Burzum che aprivano nuovi
scenari in direzione post/ambient. C’è da aggiungere senz’altro che la forza
dell’intera scena si basava su un continuo “scambio” e sulla fruttuosa
collaborazione fra musicisti appartenenti a band diverse. Si perde il conto dei
progetti paralleli, fra cui possiamo citare, oltre ai già citati Ved Buens
Ende… ed agli Arcturus, anche Zyklon-B, Storm e (successivamente)
Borknagar. Molti di questi artisti aprirono interessanti parentesi soliste:
un nome su tutti, il progetto Isengard di Fenriz (dei Darkthrone), volto
a commissionare metal e folclore popolare.
Insomma,
una fiammata vigorosa, in cui fu forgiato realmente un nuovo linguaggio, tanto
che potremmo definire quell’epoca l’ultimo momento davvero creativo ed
innovativo vissuto dal metal (destinato poi a ripiegare sulle “finte”
evoluzioni del crossover e del post-metal); e non è un caso che il black metal
verrà riscoperto, anni dopo, all’alba del terzo millennio, mostrandosi un
genere ancora fresco e malleabile, capace di flirtare con il post-rock e lo
shoegaze. Nel biennio successivo 1996-1997, tuttavia, si registrò un
lieve calo di ispirazione collettiva; in quegli anni si lavorava di fino, con
lavori sostanzialmente o di mestiere, o di riepilogo, o di forte
contaminazione, o di regressione verso il passato. Da un lato assisteremo al
debutto in formato LP dei prodigiosi Arcturus ed alla travolgente ascesa
dei Dimmu Borgir, che presto diverranno la più popolare delle band
norvegesi con il loro intrigante approccio sinfonico (che diverrà una vera
moda, facendo accodare al carrozzone nuovi nomi, certi buoni, come Covenant
e Limbonic Art, altri meno, come gli insulsi Dismal Euphony). Dall’altro
lato, c’era chi continuava a portare avanti l’ortodossia e l’aderenza agli
stilemi della prima mandata (è il caso di Gorgoroth, Taake ed Aura
Noir, che in certi casi seppero sfornare prodotti veramente notevoli).
Ma
dopo i fasti del primo lustro degli anni novanta, è innegabile che l’intera
scena vivesse una fase di disorientamento, che, beninteso, non equivale a dire
che non siano state rilasciate opere interessanti o che non siamo emersi nuovi talenti.
A parte qualche nome degno di nota (mi vengono in mente Dodheimsgard e Solefald,
entrambi incamminati verso lidi avanguardistici), fu veramente una fase di
dispersione: chi si sganciò direttamente dal genere (si guardi alla svolta
elettronica degli Ulver), chi invece decise di guardarsi indietro: emblematico
fu il dietro-front compiuto dai Darkthrone, che, interrotta bruscamente
la propria ricerca, decisero di regredire ai loro natali, prima tornando a quel
proto-black che li aveva ispirati, per poi indietreggiare ulteriormente fino
al punk, incontestabile antenato del black metal. S’inizierà dunque a parlare
di black’n’roll.
Brutta
bestia il black’n’roll. In molti vi cadranno, ma a tal riguardo vorrei
soffermare l’attenzione su una band in particolare: i Carpathian Forest,
i quali avrebbero meritato di rientrare nella top-ten, ma che ho
volutamente lasciato fuori.
Sebbene
non fossero gli ultimi arrivati (erano già attivi dal 1990), i
Carpathian Forest giunsero alla pubblicazione del loro primo full-lenght “Black
Shining Leather” nel 1998, quando sul black metal era già stato
detto più o meno tutto. Essi presentavano delle peculiarità che li distinguevano
dagli altri, sebbene nei fatti, essi non introducessero rilevanti innovazioni. Laddove
Mayhem, Darkthrone, Burzum seppero concettualizzare e modellare un tipo di
musica che prima non esisteva, i Carpathian Forest rimanevano saldamente legati
alle eminenze del vecchio proto-black metal. Quando ascoltai per la prima volta l’EP “Through
Chasm, Caves and Titan Woods”, rilasciato nel 1995, mi chiedevo come mai si
parlasse così bene di questa band reazionaria che suonava così fottutamente old-school.
Arrivato alla quinta traccia, l’emblematica “Journey Through the Cold Moors of
Svarttjern” capii il perché: il pezzo presentava tempi cadenzati e persino delle
chitarre acustiche, ma trasudava da ogni poro l’autentico spirito del black
metal. Capii che i Carpathian Forest, per suonare malvagi e sinistri quanto gli
altri, non avevano bisogno di correre a mille all’ora né di smaterializzarsi in
tour de force di chitarre zanzarose. Ma “Journey Through the Cold
Moors of Svarttjern”, ahimè, rimarrà probabilmente il momento più alto della loro
produzione: parte di questa autenticità andrà perduta proprio con l’agognato full-lenght,
che godrà di una veste finalmente professionale ed avrà comunque il merito di
formalizzare quell’urgenza comunicativa che fino a quel momento si era dispersa
in una manciata di geniali tracce sparse fra demo ed EP.
“Black
Shining Leather” è figlio di due approcci ben distinti, ma complementari:
da un lato Nattefrost, lo sguaiato iconoclasta a cui dobbiamo le
influenze mutuate dal punk, dall’hardcore, dal thrash metal. Dall’altra il
mesto Nordavind, l’anima più propriamente black-metal dei due: i suoi
brani sono quelli più meditativi ed atmosferici e brillano di un’introspezione
che andrà scemando nel tempo (la figura di Nattefrost acquisirà un peso
maggiore già dal successivo “Strange Old Brew”, fino a divenire
predominante con la fuoriuscita di Nordavind dalla band durante le registrazioni
di “Morbid Fascination of Death”). Dall’incontro di queste due
personalità contrapposte, ancora perfettamente bilanciate in “Black Shining
Leather” scaturisce un suono malato in continua oscillazione fra contemplazione
ed irriverente black’n’roll.
“Black
Shining Leather” chiude un ciclo, ponendosi per certi aspetti già al di fuori
di esso. In questo album del 1998 si completa una parabola generazionale che
pare aver esaurito la propria spinta innovativa. “Black Shining Leather”, già
culturalmente diverso, non è solo, da un punto di vista stilistico,
l’iniziatore ufficiale di un percorso reazionario che porterà a disconoscere le
maggiori innovazioni stilistiche degli anni precedenti per regredire ad un
suono rozzo che tornerà a guardare indietro a Venom, a Sodom ed alla
immediatezza del punk. “Black Shining Leather”, da un punto di vista
concettuale, è un album fisico e riporta la “carne” al centro di tutto,
dopo che lo sforzo, negli anni precedenti, era stato fatto nella direzione opposta,
ossia verso una dimensione metafisica, dove la fisicità del metal si
smaterializzava in suoni pastosi e indefiniti. Laddove avveniva la fusione con
la natura, laddove vi era la riscoperta delle tradizioni, laddove il Conte guardava
alle stelle, nella musica dei Carpathian Forest acquisiscono spazi crescenti catene,
fruste e perversioni sessuali (la title-track, “Sadomasochistic”, “Pierced
Genitalia” sono solo degli esempi). Pure la scelta dei suoni (il clangore
metallico del basso, l’effetto “pentola” della batteria, le chitarre corpose, fredde
come lame) sembra supportare questa visione, riportando lo slancio
introspettivo del black metal ad una maggiore fisicità. In mezzo a queste asperità, si diceva,
sopravvivono ancora momenti di introspezione nera come la pece (“In Silence I
Observe”, “Lunar Nights”, “The Northern Emisphere”), che palesano una
complessità ed una capacità di coniugare istanze opposte che non erano evidentemente
alla portata di tutti.
Tutto
questo, dunque, erano i Carpathian Forest di “Black Shining Leather”, ultimo
fuoco di una stagione artistica irripetibile, prima che questa iniziasse a
declinare anche grazie a loro: cattivi maestri che avrebbero aperto la
strada ad illustri colleghi come Darkthrone e Satyricon in una assurda rincorsa
all’involuzione in direzione Motorhead, che, nella notte dei tempi, furono i
principali ispiratori dei Venom, dai quali tutto originò…