Una serata a casa di gente, questa volta il padrone di casa si professa
blues-rocker e la colonna sonora della serata tiene
fede a tale appellativo. Sullo schermo di un computer, evocate
da YouTube, scorrono le immagini di un concerto degli anni settanta
dei Lynyrd Skynyrd e succedono cose che mai mi sarei
aspettato: jam torrenziali, chitarre elettriche cavalcanti,
batteria battente, riff selvaggi, assoli trascinanti. I
Lynyrd Skynyrd?? I paladini del southern rock che fanno quel
baccano???
I Lynyrd
Skynyrd sono uno dei pochi gruppi rock storici che non ho mai degnato
di un ascolto. Forse perché non sono mai riuscito a capire il nome
della band: non solo a pronunciarlo, ma proprio a visualizzarlo nella
mia mente. Come poter approfondire una qualsiasi cosa se non si sa
nemmeno cosa digitare su Google?
Mi ero
dunque fatto un'idea sbagliata sul loro conto: non so perché me li
figuravo country rock, ed invece il rock dei Lynyrd Skynyrd
(finalmente so come si scrive e pronuncia!) è energico,
potente, fottutamente duro. È con il trascorrere dei minuti che mi
sono convinto che i Nostri sono stati una grande band (scusate il
ritardo): per la forza d'urto della loro musica, che, pur calzando
vesti rock, conservava nelle infuocate esibizioni live il
furore elettrico delle jam selvagge dei bluesman di un
tempo.
Qualcuno
cambia video e sullo schermo del computer appare la ghigna
invasata di Jimi Hendrix. Questa la conosco! È la
celebre "Voodoo Child (Slight Return)",
ma la versione live, dilatata all'inverosimile, mi lascia
sbalordito. Non solo il Nostro maneggia lo strumento come se fosse un
prolungamento del suo stesso corpo, ma anche il resto della band ci
dà dentro alla grande, fornendo un supporto ritmico micidiale che
passa dal jazz al rock duro come se niente fosse, senza schemi, senza
limiti, seguendo solo quella che pare essere l'ispirazione del
momento. E che ispirazione: sul palco succede di tutto ed un brano di
cinque minuti passa ai quattordici senza che vi sia un momento di
debolezza. Anzi, pare che il brano trovi la sua piena realizzazione
dal vivo, che proprio sul palco esso inizi a respirare a pieni
polmoni.
La stessa
identica cosa può essere detta per gli amici Lynyrd Skynyrd di poco
fa: se si va ad ascoltare "Second Helping" (1974,
quello che pare essere indiscutibilmente il loro capolavoro, anche se
- lasciatemelo dire - "Sweet Home Alabama" non si
può più sentire!) si ha l'impressione che i pezzi (sicuramente
formidabili) siano ingessati e non abbiano la stessa forza d'urto che
hanno quando si materializzano in sede di concerto.
Sullo
schermo del pc compaiono nel frattempo i Led Zeppelin e
con loro ho la conferma definitiva che la vera dimensione del rock è
quella concertistica e che lo studio sia solo un paio di scarpe
scomode in quanto troppo strette. Qualcuno ha messo "Whole
Lotta Love", scelta scontata ma sempre gradita. Si parla di
un brano leggendario che certo non abbisogna di presentazioni. Quello
che in questa sede possiamo aggiungere è che il meglio di questo
brano si ha proprio quando Robert Plant si allontana dal
microfono per aggirarsi come un ganzo della notte per il palco,
lasciando così la scena al resto della band. Che i Led Zeppelin
siano stati dei musicisti prodigiosi non l'ho scoperto certo l'altra
sera: quello che semmai mi ha sorpreso è stato il lungo intermezzo
in cui Jimmy Page ha mano libera e insiste con tale violenza
ed ossessività sulle corde della sua chitarra da tramutare il pezzo
in un saggio thrash metal ante litteram.
Si torna
dunque al discorso di prima: dal vivo questi brani acquisiscono nuova
vita, una vita più selvaggia che spesso va inevitabilmente ad
oscurare le versioni originali. Si parla di musicisti mostruosi, la
cui tecnica di svela completamente sotto i fumi dell'improvvisazione.
Con l'improvvisazione è come se questi brani ogni volta rinascessero
ed acquistassero una seconda, terza, quarta vita. La versione da
studio è forse solo una delle tante versioni possibili, e
probabilmente nemmeno la migliore, dato che il musicista in
quell'occasione, seduto in studio, con le cuffie in testa e il
tecnico che gli fa dei segni al di là della parete di vetro, magari
si è anche annoiato. Quando invece dal vivo, galvanizzato dal
pubblico, dalle droghe assunte e dalla sinergia instaurata con i
colleghi, sicuramente agisce con maggiore convinzione ed entusiasmo.
In più mettiamoci che spesso il mixer non riesce a catturare
tutte le vibrazioni vitali del suono, soprattutto se si parla di
un'epoca in cui la tecnologia non permetteva di fare cose grandiose
in studio, un'epoca in cui veri capisaldi venivano registrati alla
meno peggio in pochi giorni.
Fare un
salto di trenta anni e ritrovarsi in un concerto "tutto
coreografie e playback" di Britney Spears, per un
intenditore di musica, può essere traumatico. Ma non c'è bisogno di
simili eccessi per comprendere come sia cambiato il mondo della
musica da quei gloriosi tempi. Il fatto è che le tecniche di
incisione si sono evolute, si fa dello studio di registrazione un uso
più creativo e in quelle quattro mura finisce che si combinano cose
che poi è difficile ripetere all'esterno.
Il metal,
che è un genere che storicamente nasce in cantina e che poi si è
trovato decisamente a suo agio nella dimensione live (che si
tratti di piccoli club, palazzetti o interi stadi), dovrebbe
in teoria appartenere alla categoria appena enunciata di Lynyrd
Skynyrd, Hendrix e Led Zeppelin.
Ascoltando
un album epocale come "Live After Dead", parrebbe di
sì. Iron Maiden, Saxon, Motorhead, Judas
Priest (fiacchissime le produzioni dei loro primi album: per
sentire delle versioni decenti dei loro classici dovremo andare ad
ascoltare il superbo live "Unleashed in the East"),
e poi i Metallica dei tempi d'oro, gli Slayer ancora
oggi, persino il piccolo Udo: chi in generale appartiene alla
"Vecchia Scuola" dimostra di muoversi con disinvoltura non
solo in studio, ma anche sul palco. Complici sicuramente un modus
operandi più "live" anche in sede di incisione (in
un'epoca in cui il metallo non conosceva ancora le mega-produzioni) e
un'attitudine più anthemica (per intendersi: il ritornello
efficace, facilmente memorizzabile, e dunque cantabile, che
affratella tutti quanti nella dimensione concertistica).
Basta
tuttavia spostarsi in avanti di mezza generazione e lo
scenario cambia completamente. Se ripenso agli svariati concerti a
cui ho assistito in vita mia, molte sono state le esperienze
deludenti: suoni confusi, cantanti svociati, musicisti ingessati, una
fatica enorme a cercare di evocare almeno mezzo fantasma di quello
che era stato fatto in studio.
In
particolare conservo cattivi ricordi sulle esibizioni dei Cradle
of Filth, ma i vampiri d'Albione possono avere come scusante il
fatto che propongono una musica talmente veloce, elaborata,
stratificata e così poco anthemica, che sfido chiunque a
riproporla dal vivo senza sbavature. E' questo un caso estremo, ma se
anche prendiamo i paladini del power (musicisti spesso molto
dotati che suonano una musica lineare e con ritornelli plateali che
dovrebbero rendere molto bene dal vivo) non è che le cose
migliorino. E parliamo non di audaci sperimentatori, ma di coloro che
più di tutti gli altri si sono promossi come portatori della sacra
fiamma del metal classico: un passaggio di staffetta che può
lasciar adito a più di una perplessità, almeno per quanto riguarda
il tema di cui stiamo dibattendo.
Riferendomi
a concerti visti più di dieci anni fa, possiamo sostenere che i
Gamma Ray, confusionari come non mai e con un
Kay Hansen senza voce, sono sinceramente imbarazzanti, nonostante i
classici (compresi quelli degli Helloween) a loro disposizione. Gli
stessi Helloween, ma quelli con Andi Deris,
non se la cavano troppo meglio: della loro esibizioni ricordo solo i
suoni impastati, la faccia da schiaffi di Weikath e la voce
insopportabilmente riverberata di Deris. Velo pietoso sugli
Stratovarius: quello che ho visto sarà stato anche uno degli
ultimi concerti con Tolkki (la band era
visibilmente poco affiatata e priva dell'alchimia vincente di un
tempo), ma le persone che erano sul palco sembravano burocrati della
pubblica amministrazione l'ultimo giorno di lavoro prima delle
vacanze estive: dire che non c'era sentimento e che tutto non andava
oltre lo svogliato svolgimento del compitino è un eufemismo. I Blind
Guardian, dei quattro nomi citati, sono forse quelli più
dignitosi: essi si muovono sul palco in modo professionale, ma i
brani non hanno la stessa magia che su disco, e certo non potremo mai
affermare che Kursch, con le sue movenze da orso impacciato,
sia un animale da palcoscenico.
Per molte
altre band dedite a questo genere (Edguy, Hammerfall,
Rhapsody (of Fire) ecc.) il risultato è il medesimo:
dal vivo i pezzi rendono infinitamente peggio che su disco e si
finisce per esultare quando non si verificano particolari disastri.
Ne è una prova la scorsa edizione del Gods of Metal,
dove ci siamo ritrovati a fischiare o ad applaudire vecchi leoni del
metallo (pessimi i Gamma Ray, già meglio i Megadeth,
quest'ultimi dignitosi a questo giro, ma inguardabili in altre
circostanze) e ad assistere al trionfo scenico dei Rammstein:
un trionfo che però si è basato più sui fuochi d'artificio che
sulle note.
Non voglio
ripercorrere la lunga carrellata di delusioni concertistiche della
mia vita, ma sinceramente ho collezionato più esperienze negative
che positive, anche laddove si parla di formazioni superlative e
viste nel loro momento migliore (Nevermore, Opeth,
Meshuggah ecc.). Tutte queste band, intimorite forse dalle
superbe opere confezionate in studio, non riuscivano a far altro che
restituirci delle fotografie sbiadite dei pezzi originali. Persino
gli show impeccabili (LaBrie permettendo) dei Dream
Theater, nonostante l'innegabile perizia tecnica, mi sono, nella
loro prevedibilità, sembrati a tratti noiosi.
Ok, lo
possiamo ammettere: il metal non ama la jam, la variazione
imprevista, il "fuori scaletta". Anche per le band che
prevedono regolarmente il momento dell'improvvisazione, specialmente
nel progressive, quel momento è talmente calcolato da risultare
ancora più freddo della riproposizione di un brano già edito. Si
pensi agli spazi che si ritagliano Petrucci e Rudess
negli show dei Dream Theater: protagonismi che sembrano
studiati a tavolino fino all'ultima nota (probabilmente non altro che
pause per far riprendere LaBrie).
Pratiche
comuni (che per il sottoscritto sono divenute prevedibili quanto
noiosi cliché) sono infine quella di allungare il finale di
una canzone ripetendo il ritornello ad infinitum (magari facendolo
cantare al pubblico) e quella di inserire il proverbiale intermezzo a
base di cassa incalzante per far battere le mani agli spettatori.
Quindi il
metal parrebbe condannato a muoversi fra una onesta professionalità
esecutiva e la merda fumante di band che non sono palesemente in
grado di ricreare quello che erano riuscite a riversare su disco: in
questo secondo estremo, al netto di orchestre, cori e quello che
volete, i brani che si materializzano sul palco, lungi dall'essere
superiori alle versioni da studio (come capitava negli esempi fatti
all'inizio), risultano spesso privi di mordente e scialbe copie di
quelli che conosciamo. Un paradosso se si pensa che le proposte
semplici di band tecnicamente basiche (si veda l'esempio dei Sodom)
rendono decisamente meglio di quelle elaborate di musicisti
immensamente più dotati.