3 ago 2018

L'AMAREZZA DI ABBATH, LA RIVINCITA DI DEMONAZ: "NORTHERN CHAOS GODS" E IL RITORNO DEGLI IMMORTAL


Devo essere onesto: non gli davo una lira, a Demonaz. Venti anni senza toccare plettro, il microfono impugnato solo in occasione di un trascurabile lavoro solista (il tutt’altro che imprescindibile “March of the Norse”): come avrebbe potuto costui sostituire Abbath, immagine-sostanza-anima degli Immortal nel corso delle ultime due decadi, loro voce-chitarra-forzacreatrice-luceguida dal momento in cui (correva l'anno 1997) Demonaz dovette appendere lo strumento al chiodo per una grave forma di tendinite? 

Quando Abbath di recente ha lasciato la band, portando con sé gran parte del materiale scritto per quello che sarebbe dovuto essere l'ultimo album degli Immortal, mi dissi: e mo’ Demonaz che cazzo s’inventa? E quando infine, per la promozione di “Northern Chaos Gods”, veniva rimarcata l’importanza del concept lirico (da ricordare che l’oscuro Regno di Blashyrkh è una creazione di Demonaz), mi rassegnai all’idea di un album reazionario e musicalmente piatto che avrebbe provato a salvarsi in corner con dei testi che, a dirla tutta, nessuno avrebbe potuto udire e distinguere (si parla pur sempre di black metal, mica di hip-hop o cantautorato...). 

Sotto la regia di Abbath gli Immortal non avevano vivacchiato, ma erano riusciti a consolidare il Mito, ampliando il proprio raggio d’azione, spostandosi sul terreno del thrash e dell’epic metal. In una parola: evolvendosi. “At the Heart of Winter”, “Damned in Black”, “Sons of Northern Darkness”, “All Shall Fall” avevano edificato un "dopo" credibile per quelle opere seminali che, nel corso degli anni novanta, avevano collocato con prepotenza gli Immortal fra gli esponenti più illustri del black metal scandinavo. Apprezzammo le nuove composizioni scritte dal solo Abbath, così lunghe e melodiche rispetto agli standard del gruppo, animate da quei mid-tempo che riconducevano il black dei Nostri ai sempre graditi lidi bathoriani. In più il Nostro dimostrò di avere il physique du role per affrontare le insidie del terzo millennio: il caratteristico corpse-paint e le pose ridicole lo avevano sdoganato nell’era dei social e di Youtube, e, forte della storicità, seppe raggiungere il cuore delle nuove generazioni. Insomma, il motto pareva essere "Viva Abbath, abbasso Demonaz!", il quale continuava a scrivere i testi nell’oscurità, mantenuto nell’organico quasi per beneficenza, dimenticato dai fan ed ormai da tutti considerato non più che un orpello per la gloriosa corazzata condotta da Abbath. 

Abbath oggi può vantare un nome che è già di per sé un marchio, nonché la presunzione che sia lui il vero detentore dell’essenza degli Immortal. Lasciando la band si è fatto sicuramente i conti in tasca, pensando di poter fare a meno dello storico monicker e continuare a sbarcare il lunario con una carriera solista che, condita di metal classico (se non addirittura di punk e di hard-rock), lo avrebbe ulteriormente spinto fuori dalle asperità delle origini, magari accattivandosi la simpatia di fasce più ampie di pubblico.

Siamo tuttavia certi che il Nostro, nella sua cameretta, abbia ascoltato con trepidazione l’ultimo album della sua ex band, probabilmente rosicando nell'oscurità...

Avete presente quando sperate nel fallimento di qualcuno a voi particolarmente vicino? Quelle situazioni, vissute a metà strada fra amore e odio, in cui cercate di mantenere uno status di imparzialità emotiva, ma sotto sotto non vedete l’ora di bocciare l’operato altrui, concentrandovi sugli aspetti negativi e sorvolando su quelli positivi? Ad un livello inconscio è lecito pensare che Abbath abbia ammesso che questi Immortal senza di lui non siano poi così male. Ma alla fine avrà prevalso l’amor proprio: avrà sorriso innanzi allo screaming anonimo di Demonaz, avrà inoltre percepito un moto di soddisfazione vedendo che l’ex compare non ha stravolto la Sua formula, mantenendo in scaletta brani dalla durata estesa e pervasi da tempi medi sulla falsa riga di quanto era accaduto negli ultimi quattro tomi rilasciati dalla band. Avrà infine accantonato il dischetto in un equilibrio mentale soddisfacente: da un lato avrà potuto constatare che il buon nome degli Immortal non è stato infangato (cosa che nemmeno lui si augurava), dall’altro si sarà convinto in modo definitivo che la sfida a distanza con il rivale è stata in sostanza vinta. 

Terminato l'ascolto dell’album si sarà dunque gettato nella lettura delle varie recensioni, imbattendosi però in una amara realtà: nessuna stroncatura, tutti contenti, ma soprattutto nessuno che rimpiange Abbath, come è mai possibile? Non solo: nel frattempo “Northern Chaos Gods” si è piazzato al secondo posto della classifica degli album più venduti in Germania (risultato record per un disco black metal) e a quel punto il boccone deve essere stato davvero duro da inghiottire per Abbath. Tutti impazziti? Tutti non capiscono più un cazzo di musica?? 

No Abbath carissimo, il fatto è un altro. Il fatto è che per tanti anni ci hai fatto credere che gli Immortal fossero i tuoi Immortal, che il sound degli Immortal dovesse essere oramai non altro che un revival di metal epico e classico, una cover band dei Bathory. Ma tutto questo è stato solo una messa in scena, una parata di cani e majorette, quella tua e del tuo amico Peter Tagtgren, complice colpevole con la sua produzione laccata e le sue stupide dissolvenze. Non voglio adesso dire che Abbath sia stato un usurpatore, né voglio compatire Demonaz come se fosse il Conte di Montecristo della situazione, ma devo ammettere che in tutti questi anni ci eravamo dimenticati che Demonaz è stato un grande chitarrista. E lo è ancora oggi, gente, nonostante il tempo prolungato trascorso lontano dal proprio strumento. 

Senza grandi aspettative mi sono avvicinato a questo “Northern Chaos Gods”, nel quale invece ho ritrovato l’antico e sepolto spirito degli Immortal. Lo stile chitarristico di Demonaz è semplicemente commovente. In quelle sei corde si rievocano gli umori di Bergen di inizio anni novanta, compresi certi influssi burzumiani, visto che Vikernes era della medesima città e aveva militato con i Demon Brothers negli Old Funeral: linee melodiche avvincenti, ritmiche belligeranti, riff catramosi ed incespicanti come accadeva nei bei tempi andati. La stessa produzione di Tagtgren, mai così ruvida, sembra voler rispettare questo stato di cose. 

E poi il superbo operato di Horgh, il quale mostra un affiatamento con le nuove composizioni anche maggiore rispetto a quanto compiuto nel recente passato con Abbath: velocità, potenza, dinamismo, la rullata al punto giusto, il controtempo che non ti aspetti, il colpo di genio gettato nel marasma, tutto al servizio di otto pezzi ispirati che, fra fucilate senza compromessi ed epici tempi medi, riportano nelle nostre case le “meraviglie” (si fa per dire) del Reame di Blashyrkh

La voce, ok, non è il caratteristico latrato di Abbath (che capolavoro sarebbe stato l’album con Abbath dietro al microfono!), ma regge alla grande e a noi bastano i versi scanditi seguendo le classiche metriche dei testi di Demonaz per far sì che anche quella voce rientri con onore nell’alveo dell’universo artistico degli Immortal. 

La Nuclear Blast, furbescamente, aveva promosso l’album anticipando in rete i due brani-simbolo dell'opera, episodi che ben rappresentano i due volti degli Immortal targati 2018, nonché le due tipologie di fan potenzialmente interessati al prodotto: la title-track, che sembra uscire direttamente dalle sessioni di “Pure Holocaust” (a beneficio dei nostalgici che mal avevano digerito la svolta “melodica” della band – guarda caso escono fuori tutti adesso!), e la conclusiva “Mighty Ravendark” (indicata invece per coloro che avevano gradito il nuovo corso della band), epica cavalcata di quasi dieci minuti che rievoca i fasti della mitica “Mountains of Might”. A proposito di montagne (certo che il vocabolario di Demonaz è proprio limitato!) ci tengo personalmente a citare “Where Mountains Rise”, altro episodio “ad alto tasso epico”: ascoltare questo brano, più che altro, è stato un gioioso transfer verso quell’epoca idilliaca che era stata la stagione black metal in Norvegia negli anni novanta. Un universo "nero e ventoso" che, album dopo album, smussatura dopo smussatura, Abbath ci aveva fatto dimenticare, come se un incantesimo fosse stato lanciato sulle nostre menti. 

Nell’eccesso di melodia che aveva caratterizzato l'era Abbath forse si nascondeva una incapacità di scrivere brani puramente black metal, tanto che viene da pensare che quella di Abbath non sia stata una evoluzione, ma un ripiego. Bassista (nonché potentissimo batterista) prestato alle sei corde, Abbath aveva dovuto adattare il sound degli Immortal al suo talento generalista, puntando nella sostanza su soluzioni di facile presa (scelta sicuramente avvallata dal Tagtgren produttore). Il fatto è che Abbath, in quanto non-chitarrista, non ha uno stile chitarristico personale e dunque si è visto costretto a pescare di qua e di là, a ricorrere all'anonimato di riff thrash ed arpeggi, uniformando il tutto con il suo inconfondibile screaming (trademark della band) e sotto un cappello concettuale peraltro farina del sacco di Demonaz.

Quando si diceva che i nuovi Immortal, quelli di Demonaz, sarebbero risorti dalla storia degli Immortal stessi, tutti noi, gonfi di pregiudizi, pensammo subito al bieco riciclaggio di idee vecchie perpetrato da un personaggio ottuso rimasto artisticamente fermo a venti anni fa. Ascoltando "Northern Chaos Gods" ci rendiamo invece conto che i nuovi Immortal non copiano i vecchi Immortal, ma tornano ad essere gli Immortal, cosa ben diversa: una fiera affermazione di identità (non solo stilistica, ma soprattutto artistica) in cui le varie influenze (Bathory, Iron Maiden, Dissection ecc.) sono presenti ma assimilate alla visione di un musicista che ha saputo forgiare un proprio linguaggio. Una visione che vive autonomamente, senza il bisogno del supporto e dei trucchetti di una produzione ruffiana.

Nei vecchi brani degli Immortal, in quei brani spesso sparatissimi e senza compromessi, brani in cui non succedeva niente di particolare (basti sentire i 9/10 del capolavoro "Battles in the North"), vi era un “qualcosa” che li rendeva comunque speciali.  

Scopro oggi che quel “qualcosa” era il tocco di Demonaz. 

Bentornato!