21 mar 2019

VIAGGIO NEL METAL ASIATICO - LA PEGGIO GIOVENTU' DI GIORDANIA




Al tempo della guerra in Iraq la Giordania era un paese “amico” (non si sa di chi, ma amico). C'era questo Re Hussein che sorrideva sempre, elegante, distinto, che pareva dire: ragazzi, ho una bella moglie, soldi, devo garantire la sopravvivenza al mio popolo, e ho una scena metal da avviare; io non voglio compromettere il destino del mio paese con guerre inutili.

In effetti ebbe ragione, vista la buona rappresentanza di band costruita negli anni. Ciò accade nonostante un clima, non di marca prettamente religiosa, piuttosto ostile nei riguardi del metal. Le scuse sono che sia una moda estera, che contenga modalità espressive non idonee alla cultura giordana, e in ultimo naturalmente che sia una musica che connota, o raccoglie, la peggio gioventù.

Analogamente a quanto accade in Egitto, i Giordani sembrano invece utilizzare, almeno in parte, musiche come il metal per esaltare la propria appartenenza culturale, cioè per rappresentare la propria bandiera nel panorama mondiale. Sarà poi vero che essi espungono “un certo Islam”, non l'Islam, dalla loro visione dell'identità giordana e umana, ma certo non inneggiano a modelli occidentali. “Jordanian Heart” degli Esodic è un po' il manifesto di questa nuova gioventù giordana.

Neanche di esterofilia si può tacciare la scena metal giordana, perché mancano proprio i generi di più facile presa commerciale. Fa teoricamente eccezione il Nu-metal dai temi filo-palestinesi per i Chaos of Nazareth (bel nome però, ai blacksters era sfuggito), ma stilisticamente questo gruppo ha il pregio di sovrapporre ai ritmi sincopati o groovy delle linee circolari tipicamente arabe, che rendono il tutto più snello e serpentiforme.

Ai prossimi colloqui di pace tra Israeliani e Palestinesi proporrei come tappeto musicale il depressive black dei Forgive Me. Cadenza funerea dal sapore crudo, con piatti che sembrano parlare, i nostri implodono lentamente e con sofferenza indicibile, naturalmente, mentre sul video scorrono le immagini di lotte etniche in Gerusalemme. Un bel messaggio che da solo fa capire quanto siano ben spesi tutti gli stipendi dei vari diplomatici, delegati, ambasciatori di pace, e amenità varie. Di sicuro effetto sono le immagini classiche di lanci di pietre, militari che brutalizzano civili, accostate al mood depressive black, privo di speranza e finanche di rabbia tesa al cambiamento. Una intifada che dall'essere evento storico in una contingenza politica, diventa grido di dolore contro il mondo tanto inaccettabile quanto inattaccabile.

Approfittando della demoralizzazione, Lord Azmo ci sussurra frasi misteriose su una nenia atmosferica, concludendo ben poco se non ricordarci che d'Autunno cadono le foglie, si ghiaccia tutto, le donne ahimè già in Primavera ti avevano tradito, e quindi si prospetta un Inverno di merda. “Torn roses” è stavolta il titolo che fa da cornice a questa ennesima tela bianca della produzione atmosferica transnazionale. Ma la tortura non finisce qui. I Tears of Regret ci propinano atmosfere e rumori per quasi un'ora, dolosamente, poiché volendo sanno anche comporre roba più strutturata.

I Death Diaries ci sprofondano in una tristezza sentimentale, con “Loveless” (due sono i brani originali dei DD: Loveless e Lifeless – scegliete pure), ma noi, che siamo abituati a sopravvivere a ben altro (vedi Lord Erragal in Iraq) possiamo digerire tutto questo antipasto. Tra l'altro Lord Azmo (al secolo Azmo Lozmodial) è un personaggio versatile, il cui nome si ritrova in una serie di gruppi locali (Chalice of Doom, Death Diaries... e altri dalla composizione internazionale).

Rifiutare di deprimersi in Giordania sembrerebbe anche offensivo, data l'abbondanza della proposta. E allora se proprio devo, scelgo i Chalice of Doom, più funeral doom, che amano orpellare la mancanza di speranza con un certo gusto, come quello dell'imbalsamatore di cadaveri.

Da queste profondità si risorge passando per i territori doom-gothic (Falling Leaves), e torniamo su generi combattivi. Tutti i paesi, abbiamo imparato, hanno i loro vichinghi: ce ne sono di Africani e di estremo-orientali, e quindi anche di Arabi. La Giordania attende il Ragnarok (il giorno del giudizio) con i suoi vichinghi Bouq, per esempio.

Risaliamo passo passo con Augury, Atomos, Bilocate e...ci fermiamo a questo punto dalle parti dei Nathrzeim, la cui proposta musicale ci appare ancora un po' troppo sabbiosa. Nelle orchestrazioni oltre un certo grado di complessità, ci vuol poco per risultare dispersivi, digressivi o confusivi, con il sospetto sempre presente di fare molta scena atmosferica o d'arrangiamento per nascondere inconsistenza compositiva di fondo. Che in questo caso invece non si può imputare, ma si sentirebbe il bisogno di qualcosa di più scarno, più apprezzabile nella sua ossatura portante, con meno panna di condimento insomma. Si legge nella recensione “gli elementi sinfonici sono tutti scritti ed eseguiti dal sintetizzatore, ma suonano realistici ed estremamente professionali, come se fossero eseguiti da una vera orchestra”: ecco, no.
Il gruppo propone anche, crediamo, un concept teologico con titolo quali La Grandezza del Tradimento, Posseduto dalla Salvezza, La malattia della divinità interiore, ma soprattutto il grande titolo che inneggia ad una sorta di mistica positivista: “Il futuro del relativismo carnale” (The future of malicious flesh).

La Giordania non manca di stupire nel suo rapporto con il metal più datato. Gli Ajdath in particolare irrompono con quello che a un disattento osservatore può sembrare solo death, ma che in realtà cerca a ritroso lo stile difficile e funambolico dello speed-thrash, o thrash-death, quel genere in cui si picchiava più degli altri e si andava anche più veloci, ma senza un amalgama così fluida e orchestrale. Parlo degli Ajdath, per esempio, che arrotano dei riff classici quando non divengono un po' indistinti in un mixaggio egualitario.

In ambito death propriamente detto, si conta qualche nome canonico, come i Darkcide, o i Tyrant Throne, che tentano di dare un nuovo all'amore per la storia in chiave death: “la riesumazione dei nostri antenati decomposti” ha prodotto un aumento vertiginoso delle iscrizioni alla facoltà di Archeologia dell'Università di Amman.

I Soulbleed cianciano di cellule geneticamente depravate e cromosomi corrotti, mentre scorrono sul fondo immagini di malattie. Una bella teoria del complotto genetico-farmaceutico si profila quindi mentre, sul piano musicale, si apprezza un gusto del brano death dall'incedere “cingolato”, pacatamente tritaossa, nello stile dei Bolt Thrower.

Chiuderei con una minaccia, i Symphovania. Seppur ancora in erba sul piano della produzione, ci ricordano come in termini di metal melodico l'Arabia possa davvero far male. L'asse Marocco-Svezia è il confine Occidentale di un senso della melodia che verso oriente trova uno spazio vitale virtualmente infinito.

Diciamo quindi che ancora una volta le accuse al metal rappresentano l'espressione di una sostanziale ignoranza musicale, in cui probabilmente non c'è capacità di distinguere tra i sottogeneri, né di accorgersi che in certa misura il metal diviene veicolo artistico per celebrare tradizioni, appartenenza e amor di patria. Per quanto riguarda l'esterofilia, più che di longitudine è questione di latitudine, più di Scandinavia che di USA.

A cura del Dottore

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