23 giu 2019

IL "BURZUM AMBIENT": DA "TOMHET" A "THE WAYS OF YORE"


Se c’è una cosa che abbiamo fatto senza esitazione sul nostro blog è aver celebrato, al di là dei pregiudizi legati alla persona, la musica di Varg Vikernes. Lo abbiamo definito poeta e cantautore, appellativi insoliti nell’ambito del metal estremo. E senza esitazioni siamo ancora qui ad affermare la bellezza e l’importanza del suo lascito discografico prima dell’incarcerazione: opere determinanti sia per il black metal che per le sue derivazioni successive, tanto esse erano avanti e portatrici non solo di soluzioni stilistiche innovative, ma anche di un nuovo approccio. Pochi e semplici riff reiterati con ispirazione: un'attitudine minimalista che qualcuno ha definito “ambient” tale era la carica evocativa e il potere straniante, ipnotico, catartico di quelle composizioni che raggiungevano minutaggi elevati senza mai annoiare. E così nasceva una nuova concezione di metal estremo votato alla Trascendenza

Neppure i parti discografici successivi alla scarcerazione ci sono dispiaciuti, per questo anch'essi hanno trovato posto fra le nostre dissertazioni. Quello che invece non abbiamo mai fatto è aver approfondito il “Burzum ambient”: un percorso nato per necessità (i primi due lavori uscivano quando Vikernes era ancora in prigione), ma poi ripreso anche fuori dalle mura del carcere e che oggi conta quattro album in tutto. 

Laddove Vikernes con la chitarra elettrica in mano è stato un genio assoluto, dietro alle tastiere non ha saputo tuttavia andare oltre lo status di mediocre artigiano, ben lontano dagli standard dei maestri a cui dice di essersi ispirato. Quella che andiamo a fornire oggi è una visione di insieme di questo percorso per sottolinearne pregi e difetti, ed offrire una guida pratica a colui che si voglia cimentare nell’ascolto di questi lavori meno celebrati della discografia burzumiana

Premessa obbligatoria è ricordare che il Nostro aveva in precedenza tentato esperimenti nella medesima direzione, basti pensare ad episodi come “Tomhet” (in “Hvit Lyset Tar Oss”) e “Rundtgaing av den Transcendentale Hegenhetens Stotte” (in “Filosofem”): composizioni per sole tastiere che scaturivano dal medesimo modus operandi, ossia poche note reiterate ossessivamente. In queste lunghe escursioni sonore (quindici e venticinque minuti rispettivamente) il Nostro, seppur in modo dilettantesco, offriva un coerente complemento al suo peculiare black metal. Tale era la coerenza, nonché la continuità concettuale con i brani elettrici, che questi esperimenti non destarono affatto scompiglio nel pubblico metal, ma anzi mettevano ulteriormente in luce la spinta radicalmente innovativa del Vikernes compositore, fra i primi (se non il primo!) nel metal estremo ad avventurarsi per certe vie (vedremo poi come certe intuizioni verranno accolte successivamente, contribuendo alla nascita di veri e propri generi, fra cui il drone-metal). 

D'altra parte erano ampiamente note certe predilezioni musicali extra-metal del Conte, il quale non ha mai fatto segreto della sua ammirazione per artisti quali Tangerine Dream, Dead Can Dance, New Order, Cocteau Twins. In più, il rilascio di album dal carcere, composti ed eseguiti in isolamento, non confliggeva con quello che era da sempre il metodo del Nostro, abituato a lavorare in solitudine. Per tutti questi motivi quando fu pubblicato “Dauði Baldrs” rimanemmo grandemente delusi, non tanto per la scelta in sé di voler accantonare il metal (stando alle parole del diretto interessato, il metal era cosa da ripudiare in quanto in esso si celavano le stesse radici negroidi del rock - no comment...), quanto semmai per il fatto che da Vikernes, anche su questo fronte, ci saremmo aspettati di più e di meglio, come già aveva dimostrato in precedenza. Vediamo finalmente i dettagli:

“Dauði Baldrs” (1997) 
Non giriamoci troppo intorno: gli esiti di questo primo esperimento sono a dir poco disastrosi. Se c’è qualcuno che ha il coraggio di apprezzarlo, evidentemente non ha mai ascoltato un vero album ambient, o un tomo di musica cosmica o di ethereal folk, o anche, più semplicemente, una colonna sonora di un film fantasy. In questi sei movimenti che narrano della morte di Baldr, figlo di Odino, non vi è niente della grandezza del Vikernes che conoscevamo, se non un'eco nell'aria malinconica che conduce “Illa Tiðandi”, unico episodio a salvarsi da questo naufragio (che poi, a guardar bene, un giro di pianoforte che si ripete per più di dieci minuti, in fondo, non può che conquistarti per sfinimento...). Il resto del materiale rilasciato è una accozzaglia di suoni mal assortiti, fra puerili melodie suonate con quella che sembra essere una tastiera giocattolo e percussioni sintetiche che vorrebbero mimare cruente battaglie (la marziale “I Heimr Heljar” è un esempio di quello che non vorremmo mai uscisse dalla fauci del nostro stereo). Possiamo comprendere le condizioni non ottimali per la realizzazione di un disco dentro le mura delle patrie galere, considerato anche il poco tempo a disposizione (una settimana, pare), ma questo non ci legittima a dover sopravvalutare a tutti i costi l'essenza povera di un album che se non avesse portato il marchio “Burzum” non avremmo mai degnato di un ascolto. 
Voto: 4 

“Hliðskjálf” (1999) 
Tutt’altro tipo di valutazione ci sentiamo di esprimere per questo secondo parto discografico dalle carceri: nemmeno trentaquattro minuti di misantropia compressa in cui rinveniamo, pur in un contesto di mediocrità compositiva ed esecutiva, sicuramente più guizzi vincenti rispetto al predecessore. L’apertura lacerante di “Tuistos Herz”, con i suoi riverberi e dissonanze, ribalta la nostra opinione sulla capacità di descrivere immagini attraverso l’uso dei soli sintetizzatori da parte di Vikernes, indubbiamente migliorato da un punto di vista tecnico. Ha aiutato ovviamente una strumentazione più avanzata tecnologicamente, la quale ha permesso al Nostro di curare suoni ed arrangiamenti come non era stato possibile in precedenza. Fa decisamente impressione che questa musica mostruosa, autentico saggio di disagio e disprezzo per l’umanità, vegetasse già compiuta nella mente di questo ragazzo di soli venticinque anni. Sebbene infatti la mitologia norrena continui a fare da sfondo al platter, è impossibile non riconoscere su di esso i foschi riflessi biografici del suo autore. Non tutto è all’altezza del mirabile brano d’apertura: in particolare le parentesi bucoliche di “Die Liebe Nerpus” e "Frijôs Einsames Trauern” rievocano quel brutto folk sintetico di “Dauði Baldrs”. Il livello medio, tuttavia, rimane più che dignitoso, modellandosi sulle lente movenze di gelide synth ed alienanti balletti di xilofono, mentre a conti fatti risulterà un bene l'aver accantonato la baldanzosa epicità e la ridondante ricorsività che avevano infettato il lavoro precedente. Fra i momenti più significativi segnaliamo la fiera solitudine espressa dalla maestosa “Der Tod Wuotans” e la cacofonia industriale di “Ansuzgardaraiwô”, lugubri manifestazioni di un'arte espressionista al servizio di un'anima irrequieta. Da ascoltare. 
Voto: 6,5 

“Sôl Austan, Mâni Vestan” (2013) 
Uno iato di quasi quindici anni separa questa uscita discografica (concepita come colonna sonora per il documentario “ForeBears” della compagna Marie Cachet) dall’ultima prova dietro alle tastiere del Conte. Nel mezzo ci sono stati altri anni di reclusione, la scarcerazione, il trasferimento in Francia e la pubblicazione di tre album notevoli, dove fra l’altro l’ultimo “Umskiptar”, pur non perdendo la vocazione elettrica, abbracciava senza reticenze stilemi folk. Sua naturale prosecuzione sembra essere questo nuovo tomo strumentale, dove il Nostro torna a battere territori ambient, ma questa volta con la calma necessaria e la strumentazione appropriata: elementi che gli permettono di confezionare un prodotto che possiamo definire finalmente professionale. Nonostante le premesse favorevoli e l’appellarsi esplicito ai maestri Tangerine Dream, il risultato è lontano da toccare picchi di eccellenza, finendo invece per peccare di eccessiva prolissità e monotonia. Basso e chitarra acustica questa volta sono l’orpello aggiunto chiamato ad impreziosire i suoni glaciali delle tastiere che si arrovellano intorno alle medesime tre o quattro note di sempre. Se dunque da un lato si guadagna in professionalità, dall'altro si regista un affievolimento dell’urgenza comunicativa: gli squarci esistenziali che avevano attraversato “Hliðskjálf” lasciano spazio ad un mood più meditabondo e riflessivo ove le note di synth si dilatano con l’ambizione di portare l’ascoltatore ad uno stato di trascendenza. Fra uno sbadiglio e l’altro, non mancheranno comunque momenti memorabili, come “Haugaeldr”, perla di indomita decadenza, e l’accoppiata “Hîð”/“Heljarmyrkr”, dove arpeggi folk si integrano meravigliosamente ad una lisergica kosmische musik (finalmente!). 
Voto: 6 

“The Ways of Yore” (2014)
Eccoci dunque a quello che ad oggi è da considerare l’ultimo titolo uscito con il monicker Burzum (progetto ufficialmente concluso nel 2018). Il percorso di arricchimento sonoro, che era iniziato con l’album precedente mediante l’aggiunta, in modo discreto, di basso e chitarra acustica, prosegue qui con il raggiungimento di un sound ancora più corposo e variegato che contempla anche percussioni, voce (fra mantra canori e suggestivi recitati) e chitarra elettrica. Con risultati, aggiungiamo noi, a tratti esaltanti, tanto che possiamo considerare “The Ways of Yore”, se non il migliore, il parto più interessante del filone “non metal” della discografia burzumiana. La partenza non è delle più incoraggianti, con il susseguirsi di motivi folcloristici assai anonimi (ricordiamo che il titolo dell'album si traduce come Le vie del passato e che ovviamente, anche in questo caso, il concept si lega alla mitologia scandinava). Mano a mano che il viaggio procede, tuttavia, verremo scossi e sorpresi da soluzioni inaspettate che riesumano il lato più irrazionale e geniale del musicista norvegese, sospeso in questo suo ultimo atto fra umori ancestrali e modernità (non a caso, più che ambient, l'album verrà etichettato neo-medieval). In modo disordinato si alterneranno bozzetti folk (la sentita ballata "Ek Fellr", eseguita con la follia dell'invasato) ed episodi più sperimentali come la title-track o “Autumn Leaves”, dove riemergono sferzanti fraseggi di chitarra elettrica, memori dei gelidi panorami black metal di cui il Nostro è indubbiamente uno specialista. La porzione conclusiva dell'album, infine, si affida alla dilatazione di suite ambientali che inglobano, in modo riuscito, citazioni dal repertorio passato. Se canto del cigno dev’essere, questo commiato è il migliore che potessimo aspettarci da chi la Storia l’aveva fatta vent’anni prima. 
Voto: 7