16 giu 2021

I MIGLIORI ALBUM DI ATMOSPHERIC BLACK METAL - BURZUM: "FILOSOFEM" (1996)


Quando nel 1996 “Filosofem” fu pubblicato non si parlava ancora di atmospheric black metal. Eppure in quell'album, peraltro registrato tre anni prima della sua uscita, erano già presenti molti di quei tratti stilistici che avrebbero un giorno caratterizzato la "costola" atmosferica del black metal. 

Ma "Filosofem" non è un album di black metal atmosferico: è molto di più e non mi vergogno a dire che esso debba essere considerato alla stregua di un'opera d'arte. “Filosofem”, prima ancora di essere un album black metal, è l’incandescente espressione dell’interiorità dell’artista che lo ha forgiato: una testimonianza di umanità in cui Varg Vikernes, in arte Burzum, è stato capace di “spiegare” se stesso ed al tempo stesso descrivere, in modo astratto, metaforico, iperbolico, il malessere, il disagio, le sensazioni più profonde di un’epoca. 

Come i Beatles di “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” o i Velvet Underground del loro seminale debutto, il Vikernes di “Filosofem” è un artista “oltre” i generi, anticipatore di scenari del tutto inediti e capace di spalancare porte su altri universi musicali. Non solo: Vikernes ha coniato un linguaggio nuovo, un linguaggio che ha sicuramente influenzato gli sviluppi e la stessa concezione del metal estremo nei decenni successivi, e che è riuscito persino ad oltrepassare i confini del metal stesso, facendosi accettare dai "salotti della musica bene". Oggi ci sono cantautori o sound-designer che citano Burzum fra le proprie influenze, per dire.  
 
Le innovazioni introdotte dal già geniale “Hvis Lyset Tar Oss” (1994) venivano qui ulteriormente estremizzate. E l’arte di Vikernes, in modo del tutto incurante del mondo che lo circondava, si allontanava ulteriormente da quelli che erano i canoni del black metal vigente in quegli anni, alla cui definizione aveva contribuito egli stesso con i suoi primi lavori.

La materia sonora si degradava ulteriormente, perdendo di consistenza, rivelando quello che possiamo definire la visione penetrante di un genio sull'orlo della disgregazione. Il suono si faceva rarefatto, meno corporeo, meno fisico: un’elettricità vibrante che si espandeva con guizzo espressionista e che andava ad esprimere insanabili conflitti interiori; gli up-tempo venivano abbandonati per approssimarsi ad una visione più meditativa e per certi aspetti spirituale. 

Da qui sarebbero scaturite molte, se non tutte, le forme di post-black metal. Il filone del depressive, in particolare, avrebbe guardato con insistenza a quelle note e a quegli umori. E di sicuro più di un suggerimento veniva fornito a chi avrebbe avviato consapevolmente una visione del black metal orientata verso un sound meno cruento e più atmosferico, introspettivo, evocativo. 

Si dice che nell’atmospheric black metal vi siano relativamente poche band vere e proprie, essendo spesso espressione di personaggi singoli alle prese con tutti gli strumenti: Varg Vikernes (senza mai dimenticare l’illustre precedente costituito da Quorton dei Bathory) fu indiscutibilmente fra i pionieri di questa nuova dimensione, la one-man band, che avrebbe proliferato negli ambiti del black metal ed in particolare delle sue derive depressive ed atmospheric. 
 
Si dice che nell’atmospheric black metal si prediliga il modulo della composizione molto lunga: “Filosofem” conta solo sei brani per una durata complessiva di quasi sessantacinque minuti; i brani in genere si aggirano intorno ai sette-otto minuti l'uno, con un caso in cui si superano addirittura i venticinque. 
 
Si dice che nell'atmospheric black metal prevalgano tempi medi e lenti: in “Filosofem” il passo decelera sensibilmente rispetto ai lavori precedenti, il blastbeat non è minimamente contemplato e in addirittura tre casi la batteria non è presente. 
 
Si dice che nell’atmospheric black metal si faccia un uso significativo delle tastiere: in “Filosofem” le tastiere si integrano in profondità nelle tessiture delle chitarre divenendo con esse una cosa sola, stranianti melodie che spezzano il marasma delle distorsioni, scandendone i tempi ed indirizzandone le melodie. Nella seconda metà dell’album si esonderà nell'ambient tout court, in territori "oltre il metal" ove le tastiere prenderanno nettamente il sopravvento su tutto il resto.  
 
Si dice, infine, che l’atmospheric black metal sia animato da una forte spinta introspettiva o anche da uno sforzo contemplativo, di annullamento del Soggetto nel mondo circostante, nella Natura: in “Filosofem”, come in nessun album black metal prima di allora, lo sforzo introspettivo è tale che la musica, come si diceva sopra, diviene rappresentazione vivida della interiorità dell’autore, che utilizza il medium del black metal per plasmare le forme delle proprie emozioni, delle proprie idee, dei propri pensieri. E la Natura? Non è un caso che l’album sia stato promosso con un videoclip dove inquadrature di paesaggi boschivi si avvicendavano sinuose seguendo il passo lento e maestoso della musica. E che dire poi della bellissima copertina di Theodor Kittelsen, evocante un'arcadia inghiottita dal tempo dove natura e folclore convivevano armoniosamente. 
 
Ma vi è molto di più nel Burzum di “Filosofem”: vi è uno stile, una visione, una poetica, un senso di insieme che amalgama ed unisce le diverse composizioni, rendendole parte di un unico viaggio, di un'unica perlustrazione, di un unico sguardo sul proprio mondo interiore. L’insistenza su determinati temi melodici ed umori conferisce omogeneità all’opera, i riff di chitarra si contano sulle dita delle due mani e le variazioni ritmiche sono ancora di meno. Ma questo approccio alla scrittura si confonde con un'unità di intenti voluta fortemente dall’autore, che intendeva scavare ulteriormente nella sua arte fino a smaterializzarla: mano a mano che si procede i ritmi scompariranno, le voci si eclisseranno, le chitarre si faranno sempre più impalpabili. Dal metal propriamente detto si passerà all'elettronica ambientale.  
 
E poi vi sono i brani, i quali anche se presi singolarmente hanno una loro ragion d’essere. L' openerBurzum” (o "Dunkelheit" che dir si voglia) è da considerare fra i momenti più alti della produzione discografica di Vikernes, quasi il suo manifesto. Un’elettricità stordente e bruciante si riversa nelle orecchie dell’ascoltatore mediante evocativi riff e indirizzata da solenni tempi medi con il suono dei piatti a scandire il rituale; il giro ipnotico di tastiere è semplicemente gloria che si aggiunge alla gloria, un tocco di “eternità” che bacia il fragore delle chitarre; la voce di Vikernes, infine, non è più quel caratteristico latrato di cane di un tempo, ma un rantolo filtrato da un distorsore. Fra pause e ripartenze, il Nostro si concederà persino un passaggio di voce pulita. 
 
I primi minuti di “Jesu Død” sono poesia black metal allo stato puro, con la manopola del volume della chitarra che viene girata con disprezzo e i riff che si accavallano laceranti nel vuoto, ferendo di luce la quiete notturna che vige lungo tutto l’album. Lo scoppio delle ritmiche, con doppia-cassa implacabile e piatti schiaffeggiati con ostinazione, ci conduce in quello che rimarrà l'episodio più selvaggio di "Filosofem", squarciato da riff taglienti come delle lame. Inutile aggiungere che la base ritmica rimarrà la medesima fino alla fine, lasciando alle chitarre il compito di conferire il giusto dinamismo al brano. 

Beholding the Daughters of the Firmament” (bellissimo titolo) conferma quella che è la dimensione ove ama muoversi il Vikernes della maturità: quella di un black metal fiero ed al tempo stesso decadente, innervato di un epico ed indomito senso di solitudine che evoca sensazioni di tragica fatalità, di inesorabilità del tutto
 
A questo punto l’album sembra cambiare volto ed accedere ad una fase diversa, dove la componente ritmica e il contributo vocale verranno ridotti al minimo per far spazio ad un approccio “ambient”. “Decrepitude I” è un arpeggio elettrificato che si ripete ad infinitum, fra un inquieto rumorismo nel background, rintocchi metafisici di tastiera che si ripetono con cadenza folk-rituale e il farneticare incomprensibile di Vikernes. 

Rundtgåing av den transcendentale egenhetens støtte", interamente suonata con dei sintetizzatori, è ambient allo stato puro, l’espressione dell’interesse per questo tipo di sperimentazioni sonore da parte di Vikernes, dichiarato ammiratore di Tangerine Dream e Dead Can Dance. Cambia la forma, ma non il modus operandi: la reiterazione ossessiva di pochi temi melodici rimane la cifra stilistica del Nostro anche in questa circostanza. Vikernes si approccia alla materia in modo scolastico e disponendo di mezzi poveri, ma con una certa efficacia: del resto l’idea che stava dietro all'esperimento era di portare l’ascoltatore in una sorta di trance mistica, e dopo questi estenuanti venticinque minuti si può dire che il risultato sia stato raggiunto. 

Decrepitude II”, infine, è la riproposizione strumentale di "Decrepitude I": la chitarra questa volta si fa attendere, parte da lontano, emerge lentamente dal subbuglio di un rumorismo che richiama le forze oscure dell'inconscio, un'inquietudine scandita dal tocco glaciale delle tastiere che evocano il trascorre inesorabile dei tempo. Con la stessa inesorabilità, l'arpeggio elettrificato affiora in superficie, per poi esprimersi con ostinata ricorsività nel finale, come a voler chiudere un cerchio ed al tempo stesso aprire un nuovo ciclo. E' l'Eterno Ritorno di Nietzsche
 
Mai nessuno, ripeto, seppe condurre il metal estremo a tali livelli di astrazione e di profondità esistenziale. Sebbene non tutte le band dedite coscientemente all’atmospheric black metal decideranno di optare per un tale tipo di approccio (e questo lo vedremo meglio proseguendo nella nostra rassegna), è indubbio che il monicker Burzum fu fra i primi, se non il primo in assoluto, ad approfondire le potenzialità espressive del black metal al fine di svilire le sue istanze più feroci, per farsi scavo interiore e slancio contemplativo, senza ovviamente perdere un grammo del suo carattere estremo e misantropico.