A noi piace il black metal, questo lo avrete capito. E
ci piace in tutte le sue forme, avrete capito anche questo! E fino allo
sfinimento vi abbiamo raccontato di quanto il black metal sia un genere
malleabile e plasmabile a seconda degli intenti: un linguaggio, più che un
genere, che è stato in grado di flirtare con i mondi musicali più disparati,
lontani e contraddittori.
Sebbene nella prima metà degli
anni novanta fosse emerso un concetto di "purezza" stilistica, ossia
un percorso di ricerca volto ad un’essenza che fosse puramente ed
esclusivamente black metal (e che dunque rifuggisse tutte le possibili
contaminazioni con altri generi, non esclusi quelli gravitanti nel mondo del
metal), nel calderone del black metal sarebbero continuate ad affiorare scorie punk, thrash, death, doom e persino heavy classico: non altro che i mattoni con cui era stato edificato
il patrimonio identitario del black metal stesso.
Oggi invece parleremo di band
che hanno saputo sintetizzare ibridi credibili affacciandosi al di fuori del Reame del Metallo e pescando da ambiti musicali
che, contro ogni ragionevole aspettativa, si sono rivelati capaci di procedere
a braccetto con quell'antipatico ed
elitario genere che è il black metal.
Abbiamo così individuato venti band che possono fare al caso
vostro se volete saperne di più di black metal contaminato. Ecco le prime dieci imprescindibili opere...
Cradle
of Filth: "The Principle of Evil Made Flesh" (1994)
Mentre in terra norvegese il
black metal si stava configurando come genere a sé stante, nelle nebbiose lande
d’Albione un manipolo di vampiri offriva, già a partire dal suo brillante
debutto, un importante spunto evolutivo che avrebbe presto dato vita ad un
filone destinato ad una ampia diffusione: il symphonic black metal. Il merito della combriccola capitana da Dani Filth fu di intuire prima di tutti
gli altri il carattere intrinsecamente romantico
del black metal, abbinando alla sua forza espressiva atmosfere gotiche degne della colonna sonora di una pellicola
horror d’antan. A supportare questa
idea, oltre a dosi massicce di tastiere,
orchestrazioni e sensuali voci femminili, trovammo una
tecnica al di sopra della media ed un songwriting
estremamente brillante: da questo ambizioso insieme di cose scaturivano composizioni
tortuose e testi che affondavano i canini
in un conturbante quanto sensuale immaginario orrorifico che tributava i
classici della letteratura gotica inglese,
non disdegnando, al contempo, succulente trovate kitsch scippate dal cinema horror di serie B. Una musica
letteralmente irresistibile, quella dei primi Cradle of Filth, esattamente quanto il saffico abbraccio delle vampire
ritratte in copertina…
Moonspell:
"Under the Moonspell" (1994)
Già con il successivo "Wolfheart" il sound dei portoghesi si sarebbe ripulito dalle asperità black metal
che caratterizzarono questo loro imperdibile EP di debutto, portatore di una
visione decisamente originale del metal estremo: alle influenze bathoriane e allo screaming bestiale di Fernando
Ribeiro, i Nostri decisero di abbinare fragranze ed umori trasmessi dalla
dominazione araba che ha caratterizzato una parte della storia del loro paese. Sitar, percussioni etniche, voci
femminili, oscuri recitati, lugubri tastiere e tanta tanta tanta atmosfera: questa era la ricetta di una band che
avrebbe lasciato presto i lidi del black metal per indossare le vesti di un
fascinoso gothic metal gestito con invidiabile
personalità.
Ulver:
"Bergtatt – Et Eeventyr i 5 Capitler" (1995)
Il biennio 1995-1996
coincideva con il momento di massimo splendore del black metal scandinavo, ma
qualcuno già in quegli anni dimostrò di saper guardare avanti. Nel 1995
debuttavano gli Ulver, destinati con
i loro primi album a fare scuola in materia di contaminazioni folk.
Forse il termine contaminazione non è
il più adatto, in quanto l'integrazione fra black metal e folclore nordico avvenne
fin da subito in modo naturale e coerente, anche e soprattutto da un punto di
vista concettuale. In più c'è da dire che gli stessi Bathory, nella loro fase viking,
avevano compiuto passi decisivi in quella direzione. Sarà tuttavia con il
bellissimo "Bergtatt" (ed
in misura maggiore con il successivo "Kveldssanger",
totalmente acustico) che il black sposerà definitivamente la causa del folk. E così l’assalto sonoro dei Lupi, feroce quanto struggente, si tingeva di sentori arcani, legandosi
a doppio filo con miti e leggende della tradizione pagana della loro terra. Non
solo si adottava in toto la lingua norvegese, ma si feceva un uso copioso di
voci pulite (sovra-incise in intrecci da brividi), inserti acustici di estrema
suggestione, flauto ed evocative voci femminili: nessuno, fino ad allora, si
era spinto così lontano.
In the Woods…:
"The Heart of Ages" (1995)
Qualche mese dopo avrebbero
debuttato anche i conterranei In the
Woods…, dimostrando che il black metal norvegese, a pochi anni dal suo
battesimo, era capace di spaziare in forme musicali libere che oggi potremmo
definire post-rock. All'epoca il riferimento primo era tuttavia ancora la
maestosità del rock psichedelico dei
Pink Floyd. E certamente l’opener "Yearning the Seeds of New Dimension" fu eloquente nello
spiegarci quanto questi debuttanti avevano intenzione di spingersi in avanti:
un'infinita introduzione ambientale, tastiere ariose, arpeggi sognanti, assoli
di marca gilmouriana e coinvolgenti voci
pulite erano il biglietto da visita che i Nostri offrirono all’ascoltatore prima
di immergerlo nelle asperità del black metal con coinvolgenti cavalcate
elettriche e screaming raggelanti. Ma
anche il resto dell'album non scherzava quanto ad audacia, offrendo a
profusione inserti pianistici, field
recordings e sognanti gorgheggi femminili in brani che superavano i dieci
minuti senza annoiare un momento. Già con la testa fuori dal black metal, anche
loro, come molti altri, avrebbero abbandonato presto la “nave nera” per
portarsi sugli avamposti del progressive
e dell’avanguardia.
Ved Buens Ende:
"Written in Waters....."(1995)
Scaturito dalla collaborazione
di scafati figuri della scena black norvegese dell’epoca (Vicotnik dei Dodheimsgard,
Carl-Michael Eide degli Aura Noir e Skoll degli Ulver),
questo singolare progetto collaterale con all’attivo un solo album ed un demo
pubblicato postumo, si sarebbe rivelato uno dei più seminali per quanto
riguarda le evoluzioni in direzione "post"
del black metal. Il genere veniva smontato e ricomposto in jam libere e sprizzanti genialità ad ogni piè sospinto: sessioni
visionarie in cui il linguaggio del black metal veniva dilatato in lunghe
composizioni dall’andamento imprevedibile. Un modus operandi, quello del trio,
totalmente inedito per il metal estremo, in cui si faceva tesoro delle lezioni
sia delle band dedite al progressive
che di quelle del noise-rock, con
risultati non riconducibili né all’uno né all’altro bacino di influenze. Era lo
spirito ad essere intrinsecamente progressivo, era il black metal, fra riff in tremolo ed arpeggi dissonanti, a
prestarsi agli scopi di chi non poneva limiti alla propria creatività.
Burzum:
"Filosofem" (1996)
Registrato nel 1993, "Filosofem" usciva postumo nel
1996, e a parere di chi scrive esso costituisce l'album post-black metal per
eccellenza. “Filosofem” rappresentava la maturazione di un autore, Varg Vikernes, che aveva contribuito a gettare le fondamenta del black metal come oggi lo
conosciamo e che fu presto in grado di trascenderne i confini. Non solo per via
della lunga suite ambient “Rundtgaing
av den Transcendentale Egenhetens Stotte” (esperimento peraltro già tentato
in precedenza), ma per una modellazione del suono (rarefatto, etereo,
atmosferico) che avrebbe spalancato le porte a tutti coloro che, anni dopo, avrebbero
tentato, in ambito estremo, le vie del post-rock,
dello shoegaze, della drone-music, dell’ambient e del cantautorato. Sì, anche del cantautorato, avete capito bene, in
quanto la scrittura minimale di Vikernes (peraltro completamente solo nel
portare avanti il progetto) diveniva una espressione sincera di sentimenti e
riflessioni intime che si avvicina molto allo spirito del cantautorato tradizionale,
sebbene la ruvida scorza elettrica e i toni decadenti di questa musica distoglieranno
l’attenzione su questo aspetto, spianando la via ai lugubri alfieri del depressive black metal.
Samael:
"Passage" (1996)
Fin dagli esordi i Samael erano stati un gruppo atipico per
i canoni del black metal: il loro sound
era decisamente più cupo e riflessivo degli standard
imposti dalla concorrenza norvegese e in questo ha sicuramente influito
l’influsso dei conterranei Celtic Frost.
Ma con "Passage" la
formula già vincente degli svizzeri avrebbe assunto una nuova intrigante forma,
tanto che si potrà parlare dell'inizio vero e proprio di una seconda carriera:
il muro delle chitarre si sviluppava lungo i binari di implacabili ritmiche
meccanizzate, mentre titaniche tastiere si ergevano al ruolo di protagoniste
nel delineare linee melodiche di assoluto impatto. Si, gli influssi dell'elettronica e dell'industrial invadevano il black metal, con risultati tutt'altro che spiacevoli
e non perdendo nulla in termini di coerenza con i dettami concettuali fondanti
del genere: a tracciare una linea di continuità con il passato troviamo testi visionari
che lanciavano i Nostri dai misteri dell’occultismo e dell’alchimia a quelli delle
stelle e dell’astrologia.
Aborym:
"Kali Yuga Bizarre" (1999)
Gli italiani Aborym guadagnano un posto d'onore in
questa top twenty mostrandosi fra i
più audaci nel percorrere i sentieri della musica elettronica abbinata al verbo
black. I sinfonismi degli Emperor
giocarono sicuramente un ruolo chiave nella modellazione di questo sound maestoso che pagava un forte dazio
alla storia ed alla cultura della terra di provenienza dei musicisti: si pensi
alle suggestive parti cantate in italiano ed alle trionfali orchestrazioni,
degne di un peplum ambientato nell’Antica Roma. O di una Roma del futuro devastata dall’Apocalisse? Il black
metal dei Nostri, infatti, assumeva un volto convintamente futurista, non
temendo di confrontarsi con ambiti estranei al metal, e ad esso apparentemente
inconciliabili, come l’EBM e la
musica techno: un insieme di cose
che i protagonisti stessi definiranno “alien-black-hard/industrial”.
Ma non si preoccupino gli amanti del black metal più feroce, in quanto le
spinte avanguardiste dei Nostri non intaccano in nessun modo l'aura di
malvagità e di intransigenza che caratterizza il genere: anzi, i gelidi
sintetizzatori, la drum-machine
sparata a mille, i beat elettronici e
il groove del basso (tutta farina del
leader Fabban) non fanno che aumentare il senso di gelo e spietatezza che
pervade le visioni catastrofiche di questi straordinari e dotati debuttanti,
per l'occasione coadiuvati in ben tre brani dal mitico Attila Csihar.
Dodheimsgard:
"666 International" (1999)
Sebbene sia lampante
l'utilizzo di certi escamotage
mutuati dell'universo sonoro industriale
(campionamenti, filtri vocali, manipolazioni sonore di ogni tipo,
attitudine noise ecc.), per i Dodheimsgard è più lecito parlare di avant-garde black metal. Ma mentre i
“rivali” Arcturus avrebbero
sviluppato le loro pulsioni sperimentali verso orizzonti progressivi, uscendo così
dall’empireo del metal estremo (“LaMasquerade Infernale” vedeva la luce nel 1997 e già non presentava più
collegamenti diretti con il black metal), la band capitanata da Vicotnik rimase sempre saldamente
ancorata ai crismi di violenza tipici del genere. “666 International” si imponeva come un inferno di dissonanze, un turbinio
schizofrenico di input sonori che scuote tutt’oggi l’ascoltatore, sballottandolo
continuamente in un furibondo ottovolante: adesso cullandolo con un pianoforte
classicheggiante, il momento successivo molestandolo con furiosi blast-beat, poi spingendolo negli abissi
elettronici di new-wave e post-punk, infine lasciandolo morire nella
morsa di riff micidiali e arpeggi
strampalati. Il tutto condito dal “canto” versatile di Aldrahn, capace di passare in un millisecondo da uno screaming abrasivo a deliranti sproloqui
degni di un predicatore invasato.
Void of Silence:
"Criteria ov 666" (2002)
Concludiamo questa prima
carrellata di album all'insegna della contaminazione
industriale. Il merito principale dei Void of Silence, oltre ovviamente all’aver sempre confezionato prodotti di
altissimo livello, fu quello di portare nel black metal (ma potremmo aggiungere
nel metal in generale) una inedita passione per il neo-folk e per il martial-industrial: act come Death in June e Der
Blutharsch facevano così capolino nel sound
tragico ed al tempo stesso epico del trio romano, convergendo e toccando
l’apice espressivo nella ballata acustica "Victory!" (che suona decisamente Morte in Giugno, sebbene le vocalità efferate nel finale tradiscano
il background estremo degli autori).
Il resto dell'album si adagia sulle movenze tragiche di un affossante doom (lo
chiameranno apocalyptic doom),
innervato continuamente da elaborate orchestrazioni ed inasprito dall'ugola
corrosiva ed innegabilmente black metal di Fabban,
direttamente dagli Aborym.
To be continued…