3 ago 2023

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: FORGOTTEN WOODS


Terza puntata: Forgotten Woods - "As the Wolves Gather" (1994)

Si è descritta la genesi del depressive black metal nei termini di una deviazione dalla strada maestra ed abbiamo visto Burzum come l'autore di questa prima sterzata, con un suono indubbiamente più cupo, lento e rarefatto rispetto ai suoi contemporanei. Ci sarebbero voluti ancora diversi anni affinché si potesse iniziare a parlare di DBM come genere a sé stante: in molti ancora avrebbero dovuto percorrere, spianare e rendere autonomo quel sentiero. 

Fra i primi che decisero di percorrerlo ci furono senz'altro i Forgotten Woods, che nel corso degli anni novanta avrebbero rilasciato due veri gioielli, "As the Wolves Gather" (1994) e "The Curse of Mankind" (1996), divenuti con il tempo cruciali per i progressi del DBM. 

La band nasceva in terra norvegese nei primi anni novanta dalle menti di Olav Berland (chitarra e batteria) e Rune Vedaa (basso), con il primo a farsi carico della scrittura delle musiche e il secondo della composizione dei testi. Si sarebbero poi aggiunti Jarle Swahn, entrato come cantante poi rimasto come batterista, e il cantante Thomas Torkelsen. Dopo un paio di demo, ecco l'ottimo debutto "As the Wolves Gather", che presentava un suono già maturo ed estremamente personale. 

L'impostazione è post-burzumiana, soprattutto nel focus sull'aspetto melodico, nel prevalere di tempi medi e nelle asperità vocali. Gli esiti, tuttavia, sono molto diversi rispetto a quanto espresso da Vikernes nei suoi lavori. I Nostri infatti sono stati in grado di sviluppare un sound molto originale e distante per certi aspetti dagli stilemi di quel True Norwegian Black Metal concretizzato alla perfezione da nomi come Mayhem e Darkthrone: ha certamente aiutato quel profilo dimesso e defilato della band che, anche per la distanza geografica, non ha mai flirtato con la turbolenta scena di Oslo, anzi, ha preferito tenersene debitamente a distanza. 

Quello del debutto dei Forgotten Woods può essere descritto come un black di retroguardia, nel senso che la band non ha inteso cogliere quegli elementi di novità che i maggiori centri, Oslo e Bergen, stavano elaborando proprio in quegli anni (opere paradigmatiche per l'intero movimento come "Transilvania Hunger", "Hvet Lyset Tar Oss" e il postumo "De Mysteriis dom Sathanas" uscivano proprio nel 1994). Se il black metal nazionale stava correndo verso orizzonti di rarefazione sonora e velocità attraverso lo sviluppo di un riffing peculiare e nei fatti innovativo (con tutte le sfumature del caso), i Forgotten Woods mantenevano un suono corposo in cui si potevano individuare ancora influenze dal metal classico e dal thrash metal, con esiti non lontani dal cosiddetto black'n'roll: un approccio che li potrebbe accomunare ai Carpathian Forest (in particolare quelli dei demo e del primo EP). Ma contrariamente a Nattefrost e Nordavind, i Forgotten Woods scrivevano brani ben strutturati e li rivestivano di suoni assai definiti, dove era possibile distinguere gli strumenti e persino udire il basso! 

I Nostri sembravano essere influenzati anche dalla tradizione dark-wave ottantiana, e può capitare che certi intrecci melodici possano evocare eminenze del goth-rock come Sisters of Mercy e Fields of the Nephilim: aspetto, questo, che conferiva un carattere malinconico, decadente e persino epico ai brani, ma tenendoli ben lontani da certi umori più tipicamente burzumiani. La componente melodica è preponderante, sovente resa attraverso sublimi fraseggi elettro-acustici e questo, associato ai ritmi lineari e mai sostenuti della batteria, conferisce un tocco rock-oriented alle composizioni dei Nostri. Per questo motivo poc'anzi definivo la loro musica di retroguardia, in quanto portatrice di un'aura vintage che le avanguardie di Oslo e Bergen cercavano di minimizzare. 

Another kind of Norwegian Black Metal, potremmo dire, ma non meno suggestivo e comunque con dei tratti di continuità con l'ondata del black nordico: dall'idea di fondare una nuova forma di metal estremo by-passando le istanze del death metal alle tematiche trattate (foreste, notte, inverno ecc.) ed alla iconografia (si guardi alla bellissima copertina in bianco e nero). Fino ad arrivare allo screaming lacerante, quello sì, indubbiamente burzumiano: acuto, monotono, riverberato, pieno di echi agghiaccianti, a fare da contro-altare ad un sound articolato e indulgente nei confronti della melodia. Da questo fronte, è interessante sottolineare delle analogie con i primi lavori dei Dimmu Borgir ("Far All Tid", dello stesso anno, e il successivo "Stormblast") e gli Ulver del magnifico "Bergtatt" (uscito l'anno successivo). 

Nei suoi cinquanta minuti di durata "As the Wolves Gather" contempla anche brani di considerevole durata come la title-track di dieci minuti e mezzo, "My Darkest Visions" di quasi nove e la conclusiva "Through the Dark and Forgotten Valleys" che supera i nove giri di orologio: composizioni non schiacciate dall'ossessività e dalla dilatazione burzumiane, ma percorse da una certa dinamicità e drammatiche nell'incedere, con una solida scrittura che incastona sapientemente commoventi progressioni e temi ricorrenti. Il tutto corredato da testi che trasudano un intimo rapporto fra uomo e natura (maestosa ma anche selvaggia e brutale) in un ottica fieramente misantropica, come sottolineato nelle interviste da parte dei componenti della band, a loro detta personaggi solitari e facenti parte di una cerchia ristretta di relazioni sociali, ovviamente selezionatissime. 

C'è da dire che suddetta attitudine "isolazionista", refrattaria alla luce accecante dei riflettori, si percepisce nella musica, conferendole un fascino speciale, una inquietudine reale, un senso di grande mestizia, che peraltro si rispecchia nelle splendide copertine (dai lupi ululanti della selvaggia ed istintuale cover di "As the Wolves Gather" ai minacciosi corvi appollaiati sullo scarno ramo - atti a rappresentare uno oscuro presagio - di "The Curse of Mankind"). 

Questo insieme di suggestioni accostato al canto da cornacchia spennata di Torkelsen avvicina molto la musica dei Forgotten Woods agli stilemi del DBM che verrà. Non è un caso che nelle diverse classifiche dei migliori album del genere pubblicate su internet capiterà di imbattersi in questo "As the Wolves Gather" e nel successivo, altrettanto bello, "The Curse of Mankind". A rinsaldare la convinzione di trovarsi di fronte a dei veri precursori del genere, è il fatto che Berland, Vedaa e Torkelsen fondarono nel 1996 i Joyless, che, partendo proprio dalle contaminazioni con il post-punk espresse nello scorcio finale di "The Curse of Mankind", avrebbero presto archiviato il black metal per avviare una prolifica carriera all'insegna degli umori disperanti di un brillante depressive rock. 

Il progetto Joyless sembrerebbe essere divenuto la priorità per i membri dei Forgotten Woods, considerato il lungo iato che separa "The Curse of Mankind" e il terzo (ed ad oggi ultimo) loro album ("Race of Cain", uscito nel 2007). Con la morte di Olav Berland avvenuta nel 2022, il futuro della band appare più che mai in forse, ed oggi la formazione ufficiale pare essere composta dai soli Rune Vedaa (anche alla chitarra) e tale Nylon (ex Joyless, subentrato nella reunion del 2006). 

Non è dunque lecito sapere se questa band così unica potrà ancora regalarci gioie, ma certo l'eredità da essa lasciata con i due seminali primi album (senza dimenticare il bellissimo EP "Skel av Natten" del 1995) è già un patrimonio importantissimo che non deve essere ignorato da qualsiasi cultore del black più cupo e decadente. E certo non è stato ignorato da molti che del DBM hanno fatto un mestiere...