"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

2 feb 2023

GUIDE PRATICHE PER METALLARI: DARKWAVE & GOTHIC ROCK



Dark e metal. Sebbene le forme espressive siano indubbiamente diverse, e diverso sia il background culturale e valoriale che sta dietro a questi due generi musicali, vi è come un fil rouge che unisce gli universi dark e metal, così lontani così vicini. 
 
Una questione di umori e di tematiche trattate, senz’altro. Del resto i punti di contatto non mancano, basti considerare il fatto che gli album degli artisti dark finiscono sistematicamente nel reparto dedicato al metal nei negozi di musica delle nostre città, come se si trattasse di due clan di reietti dalla società confinati nello stesso ghetto ai margini dei quartieri ricchi. Vi è poi da ricordare, giusto per fare qualche collegamento fra i due mondi, che sono state le influenze darkwave e gothic rock a contaminare il suono estremo dei Celtic Frost, da cui sarebbero originati black e gothic metal, fra le forme più umbratili del metal. Il gothic metal, in particolare, avrebbe attinto a piene mani dagli stilemi del dark -  si pensi a Paradise Lost, Type O Negative, Tiamat, Katatonia e moltissimi altri. Sfido chiunque, infine, a non aver apprezzato, pur nella sua integerrima militanza metal, certi brani dei Sisters of Mercy o lo opere più plumbee dei Cure
 
Le origini di quella che oggi definiamo "musica dark" vanno ricercate nel rock di fine anni sessanta. Certa critica già parlava di gothic rock riferendosi alla musica dei Doors, infestata dalla poetica maledetta di Jim Morrison, anima tormentata e cantore visionario. I Doors sono indiscutibilmente da indicare fra i precursori del filone dark insieme ai Velvet Underground, portatori di una visione urbana e degradata, feroce e disperata (che cozzava ferocemente con le visioni colorate ed utopiche del flower power e della stagione psichedelica), ed agli Stooges, violenti quanto nichilisti, fondamentali per le origini del movimento punk. 

Anche il glam-rock fece la sua parte, con gli eccessi cantati dal pioniere Marc Bolan dei T.Rex, l’orrorifica e scioccante messa in scena di Alice Cooper, padrino dello shock-rock, e l’imprescindibile David Bowie, che si mostrerà influente sia nelle vesti sgargianti di Ziggie Stardust che per la seminale trilogia berlinese, ed in particolare con album come “Low” (1976) e “Heroes” (1977). A latere di queste figure è bene ricordare le influenze provenienti da certe forme di dark-prog romantico e magniloquente (Van Der Graaf Generator un nome su tutti), il cantautorato apocalittico di Leonard Cohen (non smetterò mai di citare il brano “Avalanche” - anno 1970 - come uno dei momenti più oscuri dell’epopea della musica “popolare”) e le nenie della sacerdotessa Nico, nata sotto la protezione di Andy Warhol e cresciuta con i Velvet Underground (avrebbe partecipato al loro debutto del 1967 ed esordito come solista con il supporto di Lou Reed e John Cale). La cantante tedesca si darebbe espressa ad altissimi livelli con un trittico di album (“The Marble Index”, “Desertshore” e “The End”) tramite cui avrebbe avviato la stagione “gothic” praticamente un decennio prima che il movimento acquisisse consapevolezza sulla propria missione artistica. Al resto ci avrebbe pensato la rivoluzione punk del 76-77 (The Damned e Sex Pistols su tutti): un punto di rottura senza precedenti nella storia del rock e che rimise in primo piano l’immediatezza, l’urgenza comunicativa e il disagio vissuto da una generazione di giovani che doveva fare i conti con una inedita crisi socio-economica e la fine delle utopie. 
 
Per capire come la scintilla della darkwave sia scoccata, basta guardare il bellissimo film su Ian CurtisControl”, suggestiva pellicola firmata dal fotografo ed autore di videoclip Anton Corbijn. Sono due le scene significative: una è quella in cui un giovanissimo Ian Curtis nella sua camera si trucca e si atteggia da star con un emblematico poster di David Bowie alle spalle; l’altra è quella in cui lo stesso Curtis va ad assistere ad un concerto dei Sex Pistols che fanno tappa nella sua Manchester. Romanticismo/decadentismo da un lato e punk dall’altro sono gli ingredienti salienti che porteranno al suono dei Joy Division, fra gli iniziatori, insieme ai Siouxsie and the Banchees e ai Bauhaus, dell'epopea dark. 
 
Se la stagione creativa del punk fu relativamente breve, è vero che l’eredità è stata immane: un universo in espansione che per comodità avremmo chiamato post-punk. Molti musicisti, infatti, vollero andare oltre le forme dirette e semplici del punk originario, il più delle volte incorporando ulteriori sonorità (chi il funk, chi il jazz, chi la world music, chi l’elettronica). Vi furono band come The Pop Group, Magazine, Public Image Ltd., Gang of Four, The Fall, Wire, Talking Heads che, pur mantenendo un discreto groove ed un approccio “chitarristico”, esprimevano un suono colto che andava a denunciare le nevrosi e le contraddizioni della società capitalistica. Lo stesso obiettivo se lo prefissarono i vari Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, Suicide, Einsturzende Neubauten, Nurse with WoundPsychic TV, Diamanda Galas che tuttavia preferirono imboccare la via della sperimentazione elettronica, del rumore, dei sintetizzatori e della musica industriale. 

Entrambi i filoni mantenevano una visione cinica della realtà, una vocazione alla denuncia sociale ed una carica eversiva intrinsecamente anti-establishment che erano state ereditate dal punk. Ma ci furono anche artisti che, dalle medesime premesse, decisero di perseguire una via più introspettiva, esistenzialista, impregnata di letteratura decadente, a volte di esoterismo, e segnata irrimediabilmente da una interiorità lacerata. E l'etichetta darkwave andava proprio a descrivere quell’ondata “oscura” (appunto!) di band che, a partire dalla fine degli anni settanta, avviò un percorso di esplicitazione del disagio come mai era stato fatto nella storia del rock, incarnando tratti stilistici e culturali ben precisi. 
 
A descrivere questi scenari si prestò bene un suono freddo, minimale, disperante, dettato da secche ed ossessive percussioni ai limiti della drum-machine (impiegata in diverse circostanze), un basso distorto che andava a costituire il corpus dei brani (sia come motore ritmico che melodico), chitarre acide e sferraglianti di matrice punk (ma non estranee alla melodia), tastiere spettrali (non obbligatorie, ma comunque frequenti) e voci tenorili che sembravano esalare da una cripta in un nebbioso cimitero. Con il tempo, invero, la definizione darkwave sarebbe divenuta un termine ombrello sotto cui sarebbero ricadute sonorità ed approcci molto diversi fra loro, annettendo anche realtà new wave e synth pop abbraccianti un sound più oscuro (un esempio possono essere i Depeche Mode di “Black Celebration”, anno 1986) e tutte le tendenze più elettroniche, industrial, EBM e danzerecce che sarebbero seguite - a dimostrazione di come l’atmosfera, l’attitudine e l'estetica adottata contassero di più degli effettivi contenuti musicali. Di pari passo sarebbe emerso l’esercito dei dark (o goth – così i Nostri vengono definiti all’estero): smilzi figuri dagli abiti oscuri, dalla carnagione cadaverica, il trucco nero e pesante sul viso, le acrobatiche capigliature. Perché, come si diceva sopra, il dark assunse le dimensioni di un movimento culturale prima ancora che strettamente musicale.

Quelli che seguono sono venti titoli significativi per il genere che fungeranno come utile guida per il neofita. Ci limiteremo ai primi dieci anni di vita del movimento, cercando di tratteggiarne la genesi e le più interessanti diramazioni. L’attrazione per le sonorità oscure non si sarebbe estinta: con gli anni novanta la darkwave avrebbe assunto nuove forme, rinvigorita dall’elettronica, dall’industrial e, guarda caso, anche dal metal, con il quale vi sarà un proficuo scambio di favori (si veda ancora il fortunato filone del gothic metal). Ma questa è un’altra storia... 
 
1) Joy Division – “Unknow Pleasures” (1979) 
Con soli due album all’attivo, i Joy Division si dimostreranno una della band più influenti del rock. Il loro esordio in full, “Unknown Pleasures”, è ancora molto punkeggiante, ma il tutto viene affossato dal canto degradato di Ian Curtis che traslava le ossessioni di Jim Morrison e Lou Reed nella sua tragica dimensione individuale. Ma i Joy Division non sono stati solo il loro cantante, potendo contare su una formidabile sezione ritmica, assicurata dal carismatico bassista Peter Hook e dal potente Stephen Morris dietro alle pelli, e sulle intuizioni melodiche del chitarrista/tastierista Bernard Sumner: tutti e tre in grado di esprimere uno stile personale che avrebbe influenzato generazioni successive di musicisti. Con “Closer” (1980) la discesa negli inferi nella interiorità afflitta da parte di Curtis (che soffriva anche di epilessia) avrebbe toccato nuovi vertici espressivi tramite un sound meno irruente e più synth-oriented. Purtroppo il cammino promettente dei quattro genietti di Manchester avrebbe subito un brusco arresto per via della morte prematura dello stesso Curtis, che si tolse la vita a soli ventisei anni. I compagni superstiti proseguiranno sotto il nome di New Order, cambiando totalmente vesti sonore ed abbracciando una riuscita svolta elettronica che li avrebbe condotti al meritato successo. 

2) Bauhaus - "In the Flat Fields" (1980) 
I Bauhaus sono stati fra i primi a meritarsi l’appellativo darkwave, e questo già accadeva con il brillante singolo “Bela Lugosi’s Dead” del 1979. “In the Flat Field” è invece il debutto discografico ufficiale, una sequenza di tracce al fulmicotone che sa coniugare alla perfezione l’energia del punk e l’enfasi teatrale ereditata direttamente dal glam rock, tanto da diventare una pietra miliare della nuova “ondata oscura” (non a caso furono presto accalappiati dalla mitica etichetta 4AD, di inestimabile valore per la diffusione di queste sonorità). Anche qui la sezione ritmica assestava colpi da orbi, con un drumming pulsante che a tratti assumeva una tracotanza tribale, mentre la chitarra e il basso dispensavano frastuono, distorsioni e dissonanze. Completa il quadro il grido vampiresco di Peter Murphy, sorta di Jim Morrison dell’Oltretomba. Egli è da indicare senz’altro fra i frontman più emblematici dell’epopea dark: non solo egli è stato un istrionico e potente vocalist, ma anche un eccellente performer, più vicino alla figura di una rock-star che alla morbosità del depresso cronico (sebbene i suoi testi macabri fossero scioccanti come pochi). La band sarebbe andata incontro ad uno scioglimento precoce, ma non prima di aver lasciato ai posteri almeno un altro colpo vincente (“Mask”, 1981). 
 
3) The Birthday Party – “Prayers on Fire” (1981) 
L'electro-blues degli australiani Birthday Party (anch'essi supportati dalla 4AD) è infuocato, nevrotico, cacofonico, si muove con passo ubriaco e molesto, mette insieme urgenza punk, gospel spettrale, il cantautorato da cirrosi epatica di Tom Waits. Non a caso dietro al microfono troviamo niente meno che un giovanissimo Nick Cave. La voce tossica del cantante, le sue intemperanze iniettano adrenalina in un sound drogato fatto di percussioni irregolari, chitarre acide, interventi di organo e piano, talvolta di fiati. I brani traballano, destabilizzano, vivono di atmosfere fumose a tratti e scoppi improvvisi in altri. Il talento anarchico di Cave anima l’intero circo, ma scordatevi il Cave crepuscolare delle sue murder ballads: qui il Nostro non si risparmia, la sua è una performance a dir poco animalesca, imprevedibile, continuamente sospesa fra sacro e profano, spiritualità e peccato. I Birthday Party avranno vita breve, sforneranno un altro lavoro degno di nota, “Junkyard” (1982), per poi confluire nel 1983 nei celeberrimi Bad Seeds con i quali Cave avvierà una folgorante carriera solista. 
 
4) Siouxsie and the Banshees – “Ju-Ju” (1981) 
Fra i primi mover del movimento gothic rock, se non i primi, i Banshees offrono un post-punk sanguigno animato dal carisma della statuaria Siouxsie Sioux (all’anagrafe Susan Janet Dallion), giustamente incoronata come Regina dei Goth. Abiti in latex, tatuaggi vistosi, trucco pesante ed una incontestabile presenza scenica fanno di questa cantante una icona indiscussa dell’intera epopea dark. Dal punk degli esordi i Nostri approdano ad un goth-rock maturo con l'opera terza “Ju-Ju”, osando mischiare lo spleen decadente tipico della tradizione letteraria romantica inglese con i riti dell’Africa Nera in un cortocircuito che fonde indissolubilmente rock e rituale collettivo. Musicalmente parlando, il tutto si traduce in brani incisivi, solidi, anthemici, caratterizzati dalla furia punk degli strumenti (ottimo il lavoro dietro alle pelli e le contorsioni rumoristiche delle sei corde) con le urla da indemoniata della vocalist a tratteggiare scenari horror di grande suggestione. “Ju-Ju” è notoriamente anche l’opera più celebrata dei Banshees, i quali si confermeranno come uno dei nomi di punta del genere. 
 
5) Christian Death – “Only Theatre of Pain” (1982) 
Ecco dagli Stati Uniti (Los Angeles per la precisione) i padrini del death rock, filone del gothic rock che intavola temi come depressione e morte confondendoli con scenari orrorifici e brani schietti, diretti e dal forte impatto. Il debutto dei Christian Death è l’apoteosi di tutto questo: un baccanale esoterico continuamente sospeso fra irruenza punk e ritualismo. Fanno molto la chitarra acida e dinamica di Rikk Agnew (un vero prodigio se si pensa che il genere non contempla di solito virtuosismi alle sei corde) ed ovviamente l’ugola logorata di Rozz Williams, una delle figure più carismatiche in ambito dark: la sua è la voce del malessere per eccellenza, ma anche dal punto di vista scenico il Nostro non scherzava, prodigandosi in siparietti a dir poco blasfemi sulle assi del palco. Non si può certo dire che la sobrietà faccia parte dell’immaginario del death rock. Degni di nota saranno anche i due album successivi, “Catastrophe Ballet” (1984) ed “Ashes” (1985), sempre con Williams dietro al microfono. Dopo la separazione con il cantante storico, la band avrebbe poi proseguito fra alti (pochissimi) e bassi (moltissimi) sotto la guida del chitarrista/cantante Valor Kand. Quanto a Williams, la sua carriera sarebbe proseguita attraverso altri progetti (gli Shadow Project e i Premature Ejaculation) per interrompersi con la sua morte per overdose di eroina nel 1998 a soli trentaquattro anni. 
 
6) The Cure – “Pornography” (1982) 
I Cure sono indubbiamente la band più nota dell’intero universo dark e il loro leader Robert Smith sarebbe divenuto con il tempo la quintessenza stessa dell'estetica gothic/dark con il suo caratteristico look (trucco pesante e capelli scarruffati). Dal post-punk degli esordi, la band inglese avrebbe lasciato il segno con un trittico di opere sfornato in stretta sequenza nei primi anni ottanta: “Seventeen Seconds” (1980), “Faith” (1981) e questo “Pornography” (1982). Il merito del successo non va solo alla penna ispirata di Smith, ma anche alle gesta dei suoi validi comprimari, tali Laurence Tolhurst, con il suo drumming secco ed essenziale, e Simon Gallup, che avrebbe fatto scuola con il suo basso melodico. “Pornography” è stato l’apoteosi della fase “dark” dei Cure, una tempesta emotiva che si avventa sull’ascoltatore a suon di graffianti chitarre elettriche (mai così ingombranti in un album dei Cure), possenti ritmiche, roboanti giri di basso e il canto lacerante di Smith, all’apice della sua tragedia esistenziale. Vi è un primo ed un dopo “Pornography” nella carriera dei Cure: questo album dai contorni confusi e dall’anima cacofonica è stato infatti un abisso esistenziale da cui Smith è riemerso con nuove energie da spendere. E così è stato: i Cure proseguiranno con successo il loro cammino abbracciando sonorità più accessibili ed orecchiabili (e lavori come "Kiss Me Kiss Me Kiss Me",  “Disintegration” e “Wish” dimostrano che anche in questa nuova veste la band avrà molto da dire). 
 
7) Virgin Prunes – “...If I Die, I Die” (1982) 
In terra irlandese scaturisce l'originale rito pagano dei Virgin Prunes, sorta di collettivo musical-performativo capace di mettere in musica incubi ancestrali riaggiornandoli agli standard del neo-nato post-punk. La loro proposta non è affatto catalogabile. “...If I Die, I Die”, debutto sulla lunga distanza (la band era attiva già da qualche anno), è un crocevia fra new wave, glam bowiano, folk paganeggiante e soluzioni avanguardistiche mutuate dall’universo del rock progressivo (lo avrebbero chiamato glam dark!). Gli esiti sono un allucinante incubo sonoro dove, fra fremiti tribali e nenie gotiche, svetta la delirante prova vocale del leader e compositore Gavin Friday, istrionico e schizofrenico interprete, santo e peccatore, blasfemo predicatore in un universo di reietti. Un prodotto destinato indubbiamente a scuotere le coscienze, ma a riscuotere poco successo. Non ci stupiamo pertanto che, nonostante le innegabili qualità, il progetto si sia sciolto di lì a poco e che Friday si sia poi orientato verso lidi più redditizi. 
 
8) Alien Sex Fiend – “Who's Been Sleeping in My Brain” (1983) 
Eccoci all’album di debutto della death rock band simbolo del Regno Unito, i Sex Alien Fiend. Un sound, il loro, infuocato, baldanzoso, teatrale, sopra le righe, proprio come deve essere il death rock. Primi mover della scena londinese, i Nostri erano di casa al Batcave, mitico locale da cui son passati tutte le band gothic rock del periodo. La loro proposta conserva la verve del rock’n’roll, l’irruenza del punk, il carattere visionario di certa psichedelia, ma anche il lato plateale del glam, con la voce acida di Nik Fiend a condurre le danze. Danze meccaniche fatte di ritmi martellanti, chitarre distorte e tappeti di tastiera glaciale. Proseguiranno all’insegna dell’industrial e dell’elettronica, non venendo certo meno alle prerogative della loro missione artistica, ossia l'impatto sonoro e il gusto per l’eccesso (tanto che il loro dark sound sarebbe stato indicato come una influenza fondamentale da parte di molti musicisti successivi, fra cui il grande Glenn Danzig). 
 
9) Echo and the Bunnymen – “Ocean Rain” (1984) 
Giunti al quarto album, questi ragazzi di Liverpool (non una città a caso per il rock inglese....) decisero di fare il salto di qualità, accantonando le sonorità più dark-oriented dei primi (pregevoli) lavori per cercare di andare oltre i cliché di quello specifico genere musicale con un prodotto più maturo nella sostanza e sofisticato nelle sue forme. Le ritmiche si fanno più discrete, le chitarre passano dall’elettrico all’acustico, il vocalist Ian McCulloch stempera le asperità del passato in un canto più suadente e conciliante, con sontuosi arrangiamenti di archi a fare da valido rinforzo. Il risultato sarà una manciata di brani a dir poco memorabili da consegnare alla Storia. Fra pop orchestrale e rigurgiti post-punk, è facile passare dal fiabesco al gotico e viceversa, in un viaggio psichedelico che costituisce il ponte ideale fra i concittadini Fab Four e la corrente brit-pop di novantiana memoria, con ovvie ripercussioni su tutto il pop-rock che verrà.
 
10) Cocteau twins – “Treasure” (1984) 
I Cocteau Twins rappresentano il lato più soft della darkwave, tanto che molti nutrono qualche dubbio nell’inserirli nella categoria. I Nostri, infatti, passeranno alla storia come coloro che daranno i natali a generi come il dream-pop e l’ethereal-wave. Questo accadeva grazie alle atmosfere sognanti allestite dalla bellissima e versatile voce di Elizabeth Fraser (che ricorda non poco le movenze pop di Kate Bush) e dal talento melodico del compare Robin Guthrie (chitarra e drum-machine). Della darkwave dei primi dischi, l’opera terza del combo scozzese (questo “Treasure”) eredita solo i ritmi sintetici e il corpulento basso, per il resto il suono si fa più leggero, aereo, impalpabile, naif e fanciullesco nelle atmosfere (la Fraser era solita gettarsi in vocalizzi con parole inventate sul momento o in giochi di parole dal potere onomatopeico). Una musica, dunque, che punta dritta al cuore ed alla sfera delle emozioni, ma che poggia su un gran lavoro di composizione ed arrangiamento. Da segnalare che la Fraser figurerà fra i protagonisti di maggior peso nel fortunato progetto This Mortal Coil voluto dal leader della 4AD Ivo Watts-Russell e che vedrà coinvolti altri musicisti della etichetta. 
 
11) Killing joke – “Night Time” (1985) 
Dei Killing Joke è sempre bene ricordare l’omonimo debutto (anno di grazia 1980) considerato una delle opere più seminali della storia del rock, capace di segnare la via, entro i canoni del post-punk, sia dell’industrial-rock che del metal (si pensi alla famigerata “The Wait”, non a caso coverizzata dai Metallica, con quel suo riff che avrebbe anticipato di qualche anno l’esplosione del thrash metal). Ma il quartetto inglese sarebbe stato importante anche per gli sviluppi della darkwave, fornendo alla causa un sound ossessivo, gelido e disumano che sarebbe stato ripreso da molti. In questo quinto album, “Night Time”, i Nostri ammorbidiscono non di poco il loro suono, ma le loro composizioni rimangono magnetiche, con la morbosità vocale del carismatico Jaz Coleman ad intorbidire brani nella media più melodici e di maggior appeal commerciale (non mancò infatti un certo successo). 
 
12) The Sisters of Mercy – “First and Last and Always” (1985) 
Fra i gruppi più iconici nella storia della darkwave abbiamo le Sorelle della Misericordia (con un monicker non a caso scippato dal repertorio di Leonard Cohen). Tramite una discografia veramente risicata (solo tre full-lenght, ma diversi EP e singoli di grande rilievo), il combo inglese è riuscito a lasciare un’impronta profondissima definendo il profilo del suono idealtipico del gothic rock. “First and Last and Always” è il luogo dove questo suono trova il suo equilibrio definitivo: meno punk degli esordi e più melodicamente maturo, il primo full-lengh della band amplifica e valorizza i tratti salienti che avevano già reso grande la band: il gorgoglio tenorile di Andrew Eldritch (sorta di Iggy Pop delle tenebre – nel tempo diverrà un vero standard per qualsiasi cantante che si voglia cimentare con il genere), le epiche chitarre dell’accoppiata Wayne Hussey e Gary Marx, il basso corpulento di Craig Adams e i beat implacabili del mitico Doktor Avalanche, non altro che una drum-machine (le malelingue sosterranno che è stato l’unico membro capace di andare d’accordo con l’irascibile Eldritch, da solo alla guida della band a partire dal successivo - ed altrettanto valido - “Floodland”). La band, tutt’oggi attiva, partorirà ben poco altro da un punto di vista artistico, limitandosi a sporadiche comparsate dal vivo. 
 
13) The Cult – “Love” (1985) 
Non sempre visti di buon occhio dai puristi del dark per l’ancoraggio a sonorità rock e psichedeliche degli anni sessanta e settanta (ah, eresia!), i Cult (nati da una costola dei Southern Death Cult ed inizialmente noti anche come Death Cult) sono indubbiamente un nome di rilievo nel movimento gothic rock, almeno per quanto riguarda il loro primissimo cammino. “Love”, secondo album, è il capolavoro della band inglese, fondata dal chitarrista Billy Duffy e dallo sciamanico frontman Ian Astbury, cantante dall'indole spiccatamente morrisoniana e con la passione per i riti e le usanze dei nativi d’America. Certo, non si respirava aria di nebbiosa ed umida brughiera inglese nei loro brani, ma il sound era egualmente unico ed irresistibile: un post-punk esplosivo che si cibava di vibrazioni hard rock e visioni misticheggianti di grande impatto, fra Hendrix, Led Zeppelin ed ovviamente The Doors
 
14) Clan of Xymox – “Medusa” (1986) 
Medusa”, opera seconda degli olandesi Clan of Xymox, è un gioiello imperdibile per gli amanti della darkwave più pura e meno contaminata (non a caso anche questa band si è accasata con la 4AD). Fra Cure e Sisters of Mercy, Ronny Moorings, mastermind del progetto, edifica un suono personale ed intenso, intriso di cangianti melodie e una profondità lirica che si può ritrovare solo nei più grandi del genere. Chitarre arpeggiate e maestose tastiere fanno da contraltare ai secchi colpi della drum-machine e al timbro metallico della voce di Moorings (a volte accompagnato da un'ugola femminile) in dieci tracce da sogno che non possono mancare nella collezione di ogni cultore del genere. 
 
15) The Mission – “God's Own Medicine” (1986) 
Waine Hussey e Craig Adams erano stati colonne portanti del suono dei Sisters of Mercy, di cui hanno fatto parte nei primi, e maggiormente proficui, anni di attività. Le cose evidentemente non andarono bene con Eldritch ed allora eccoli che si ripresentano con il nome Mission ed un debutto con i fiocchi come questo “God's Own Medicine”. Della band precedente permane la forza della chitarra, la capacità di secernere riff epici e di grande impatto, ma i brani si fanno indubbiamente più morbidi e melodici. I Nostri non nasconderanno la tentazione di sfondare in alta classifica, e molti storcono il naso per un sound anche troppo ruffiano e tendente al radiofonico, ma è innegabile che nella proposta vi sia sostanza: un dark non più sprezzante e diretto, ma calato in architetture magniloquenti e arrangiamenti indubbiamente più elaborati e a tratti barocchi. Consigliato a coloro che gradiscono l’ala “pop” della darkwave (gli altri si avvicinino con circospezione...).
 
16) Death in June - "Brown Book" (1987) 
Abbiamo letteralmente un debole per la creatura di Douglas P., padre spirituale del folk apocalittico (per chi volesse approfondire l’argomento si vada a leggere la nostra rassegna). Meste ballate senza tempo sono il medium espressivo privilegiato per questo artista che dal punk (con la precedente band Crisis) e il post-punk à la Joy Division (si vedano le prime registrazioni dei Death in June) seppe muovere verso sonorità ermetiche e fortemente suggestive che sapevano miscelare folk ed industrial, atmosfere marziali e rituali esoterici, il tutto immerso in una manifestazione di fiero distacco dal decadimento culturale e valoriale del presente e con un immaginario militaresco dalle forti valenze simboliche che avrebbe fatto discutere non poco. 
 
17) Dead Can Dance – “Within the Realm of the Dying Sun” (1987) 
I Dead Can Dance sono un’altra creatura della 4AD. Brendan Perry e Lisa Gerrard, inglese lui ed australiana lei, cantanti, polistrumentisti, compositori ed arrangiatori, si completano a vicenda formando una entità unica che, distaccandosi progressivamente dagli stilemi del rock, hanno saputo espandere il proprio suono verso la world music e suggestioni etniche. Il terzo album “Within the Realm of the Dying Sun” è l’apice gotico del loro viaggio artistico, un’opera oramai svincolata dagli stilemi tipici della darkwave e che affonda gli artigli nel folclore medievale e nella musica da camera tout court: un viaggio metafisico a tratti epico, a tratti inquietante, ma sempre enormemente evocativo. A dominare sono i sintetizzatori, le eteree tastiere e le possenti orchestrazioni (compaiono anche strumenti acustici), palcoscenico ideale per l’alternarsi fatale del canto baritonale di Perry e lo svolazzare imprevedibile della voce della Gerrard, genio canoro e virtuosa interprete, nonché modello di riferimento per qualsiasi cantante appartenente al gentil sesso che si sia voluta cimentare nell’ambito. 
 
18) Swans – “Children of God” (1987) 
Tiriamo per i capelli in questa nostra selezione anche gli Swans, entità inclassificabile che, originata dalla scena no-wave newyorkese, ha saputo affrontare diverse fasi e lambire le sonorità più disparate. Nel 1987, dopo qualche album brutale di puro noise-industrial, li troviamo alle prese con la loro svolta melodica, un cambio di rotta solo intuibile dalle logoranti prove precedenti e che li avrebbe condotti sulle spiagge della darkwave e del neo-folk. Su un sottofondo a base di tracotante forza percussiva e chitarre sferraglianti ai limiti del metal, si confrontano le anime di Michael Gira, leader storico del progetto, e Jane Jarboe, all’epoca sua compagna, il cui canto stregonesco fa da contraltare alle corrosive declamazioni del primo. Il risultato è un (doppio) album colossale dove accade praticamente di tutto, fra percussioni ossessive, deflagrazione di chitarre, disperate ballate acustiche ed intermezzi spettrali che puzzano di rito esoterico ad un miglio di distanza. I Nostri continueranno sulla scia di un gothic rock dalle forti valenze spirituali, sfornando sempre lavori di altissimo livello, ma andando incontro allo scioglimento (per poi riformarsi sotto la guida del solo Gira in anni recenti). Il mondo delle sonorità alternative avrebbe pagato un profondo tributo a questa band, veramente unica nella storia del rock. 
 
19) The Legendary Pink Dots – “Any Day Now” (1987) 
I Legendary Pink Dots offrono una discografia sterminata, a tratti vincente, in molti altri dispersiva, e non sempre il loro operato è stato sovrapponibile alla dimensione del gothic rock. Questo perché il genio incontinente del fondatore Edward Ka-Spel non si è mai posto dei limiti in termini di composizione e realizzazione, offrendo opere ricche di suggestioni diverse e cozzanti, con un approccio "crossoveristico" che ha saputo mischiare elementi vecchi e nuovi della storia del rock. Questo “Any Day Now" è sicuramente da indicare fra i capolavori massimi della band, un viaggio che non risparmia colpi di scena, ma anche un album completo ed equilibrato che sa alternare momenti memorabili, fra gelida darkwave, cabaret, kraut-rock, psichedelia, jazz, avanguardia ed un esoterismo serpeggiante che fa capolino fra un brano e l’altro sotto forma di intermezzi. Gli umori umbratili, i toni pessimistici, l’irrequietudine della penna di Ka-Spell sono un filo conduttore che riporta, almeno per quanto riguarda questo album, la visione artistica della band nei ranghi del rock più decadente. 
 
20) Fields of the Nephilim – “The Nephilim” (1988) 
Concludiamo questa carrellata di nomi con i Fields of the Nephilim, da considerare fra i massimi esponenti del gothic rock britannico. Nonostante una discografia risicata e lunghi periodo di inattività, la band è divenuta un autentico nome di culto e ha saputo imporsi nei cuori degli amanti delle tenebre grazie ad un trittico di album importanti, di cui questo "The Nephilim" è il perno. Preceduto dal brillante debutto “Dawnrazor” (1987) e seguito dall'altrettanto valido “Elizium” (1990), l'atto secondo degli inglesi offre un sound duro e potente, epico, rockeggiante, un suono che sa di polvere ed incenso, peccato e perdizione. Fanno da sfondo scenari western-apocalittici che sanno mettere insieme Sergio Leone e la saga di Mad Max. La fragilità di Ian Curtis è davvero lontana innanzi alle linee coinvolgenti di un basso che detta legge e le due chitarre che si riconcorrono instancabilmente su ritmiche battenti ed implacabili. Quando non pestano, i Nostri sanno invischiare l'ascoltatore nelle spire sonore di un rock spettrale sospeso fra visioni doorsiane e psichedelia pinkfloydiana. A dominare sul tutto è l’ugola al vetriolo del leader Carl McCoy, un rantolo, il suo, che si avvicina al growl (da segnalare che negli anni novanta, con il progetto Nefilim, egli si cimenterà in un devastante industrial/goth/death metal). I Fields of the Nephilim segnano così un cambio di paradigma importante per l'epopea del dark, sganciandosi dai freddi minimalismi della darkwave per come si era affermata nei primi anni ottanta, e settando gli standard di quello che sarà il rock gotico negli anni a venire. 
 
Playlist essenziale: 
1) Bauhaus - "Bela Lugosi's Dead" ("Bela Lugosi's Dead, single - 1979) 
2) Joy Division - "Love will Tear Us Apart" ("Love Will Tear Us Apart", single - 1980) 
3) Siouxsee and the Banshees - "Spellbound" ("Ju-Ju" - 1981) 
4) Christian Death - "Romeo's Distress" ("Only Theatre of Pain" - 1982) 
5) The Cure - "One Hundred Years" ("Pornography" - 1982) 
6) Echo and the Bunnymen - "The Killing Moon" ("Ocean Rain" - 1984) 
7) Killing Joke - "Love Like Blood" ("Night Time" - 1985) 
8) The Cult - "She Sells Sanctuary" ("Love" - 1985) 
9 Fields of the Nephilim - "Last Exit for the Lost" ("The Nephilim" - 1988) 
10) The Sisters of Mercy - "Temple of Love" ("Temple Of Love (Touched By The Hand Of Ofra Haza)", single - 1992) 
 
Ulteriori suggestioni: 

1) Diamanda Galas: "The Divine Punishment" (1986)
2) Skinny Puppy - "VIVIsectVI" (1988)
3) Das Ich - "Satanische Verse" (1990)
4) Lacrimosa - "Angst" (1991)  
5) Current 93 - "Thunder Perfect Mind" (1992) 
6) Laibach - "NATO" (1994) 
7) Lycia - "The Burning Circle and then Dust" (1995) 
8) Black Tape for a Blue Girl - "Remnants of a Deeper Purity" (1996)
9) Wumpscut - "Embryodead" (1997) 
10) Sopor Aeternus & The Ensemble of Shadows - "Dead Lovers' Sarabande" (Face One & Two)" (1999)  
11) Faith and the Muse - "Evidence of Heaven" (1999)  
12) Hocico - "Sangre Hirviente" (1999) 
13) Covenant - "United States of Mind" (2000) 
14) Interpol - "Turn on the Bright Lights" (2002)  
15) L'Ame Immortelle - "Gezeiten" (2004) 
16) Editors - "An End Has a New Start" (2007)  
17) Have a Nice Life - "Deathconsciousness" (2008) 
18) The Soft Moon - "The Soft Moon" (2010)  
19) Chelsea Wolfe - "Pain is Beauty" (2013)  
20) Anna Von Hausswolff - "Dead Magic" (2018)