15 nov 2023

LUNGO I CONFINI DEL METAL ED OLTRE: BEYOND THE REDSHIFT

 


Prosegue il nostro viaggio attraverso le "sonorità promiscue": un'acrobazia che ci vede in bilico, come equilibristi, sul filo sottile che separa metal e non metal. Dopo aver assistito alla splendida esibizione di Lingua Ignota nella cornice del suo Perpetual Flame, a pochi giorni di distanza (il 20 ottobre per l'esattezza) ci siamo immersi nel vibrante mondo del Beyond the Redshift, festival ideato e curato dai Cult of Luna e che anch'esso giunge alla sua seconda edizione. Ad attirarmi, oltre ai padroni di casa, un cartellone di nomi di diversa estrazione, molti a me ignoti, fra cui spiccano gli storici Napalm Death e la cantautrice Emma Ruth Rundle: un luogo, il Beyond the Redshift, dove possono coesistere post-metal, grindcore, cantautorato, hardcore, noise, elettronica, shoegaze e post/rock. 

The cosmological redshift is caused by the expansion of space. The wavelength of light increases as it traverses the expanding universe. Unable to assume that we have a special place within this universe, the redshift suggests to us that everything is moving away from everything else…

We may not be able to go beyond the redshift, but we can certainly think beyond it. We are bringing together artists who expand within their space - artists who create something special within this space. 

Questo il manifesto della giornata. In più - mi sento di aggiungere - evviva la gioventù! In un'epoca in cui si fatica ad individuare i nuovi "supereroi del metal", siano benvenute tutte quelle giovani e promettenti realtà che, oltre che a stupire in studio, possono garantire sulle assi di un palcoscenico energia, entusiasmo e voglia di dare una esperienza unica e speciale al pubblico: tutte quelle entità che ancora non vivono la musica come un lavoro e che non vedono un concerto come lo svolgimento del classico compitino. In più - devo ammettere - in tutte queste forme d'arte che stanno con un piede nel metal e con l'altro altrove, i cliché, le pose, le ingessature, la prevedibilità vengono incredibilmente meno e ad emergere è semmai l'umanità, ora veicolata da un'urgenza comunicativa che deriva da una attitudine punk/hardcore, ora scaturita dalla sensibilità di un approccio più cantautoriale. Questa - e qui concludo - è secondo me la vera dimensione in cui il metal può avere un futuro.

Come riscontrabile dalla locandina, l'evento ha avuto come casa tre diversi locali: i gruppi principali si sono esibiti nel capiente O2 Kentish Town Forum, mentre nei più piccoli The Dome e Boston Music Room si sono tenuti i concerti dei gruppi minori. Dome e Boston sono contigui e distano  una decina di minuti a piedi dalla venue principale. Specifico questo dettaglio per rendere l'idea dell’impegno richiesto da una giornata che, sulla carta, si prospettava come dieci ore di musica intervallate da scarpinate in una gelida giornata di ottobre londinese. Cosa non si fa per passione...

Si parte male, non solo per i ritardi della linea della metropolitana e per la chiusura per lavori della stazione di Kentish Town, ma anche perché quando arrivo tutto trafelato alle 13:20 (l’esibizione sarebbe dovuta iniziare alle 13:00) mi rendo conto che Emma Ruth Rundle ha dato forfait per problemi personali sopravvenuti all'ultimo momento. Per chi non la conoscesse, la Nostra è una cantautrice americana che nasceva come chitarrista nei post-rocker Red Sparrows per poi intraprendere una valida carriera solista e via via farsi notare in collaborazioni interessanti. Fra le tante esperienze segnaliamo l'album fatto a quattro mani con i Thou (dove il suo irrequieto cantautorato si incontrava con sonorità sludge/doom nel bel “May Our Chambers Be Full”) e il singolo uscito in tandem con Chelsea Wolfe (la bellissima “Anhedonia”). Insomma, una grande interprete femminile che possiamo mettere accanto ad altre eroine contemporanee come la stessa Chelsea Wolfe ed Anna Von Hausswolff

E chi abbiamo trovato al suo posto? Niente meno che Jo Quail, agganciatissima violoncellista che a Londra è come il prezzemolo: te la ritrovi dappertutto! C'è un buco da riempire? Chiami Jo Quail! Io stesso l’ho beccata più volte ed altre l’ho accuratamente evitata perché, sì, è bravissima, la sua è musica può essere malinconica, a tratti oscura, altre vigorosa, ma rimane una violoncellista e senza grandi connessioni né con il rock né tanto meno con il metal. Ritrovarmela sul palco al posto di Emma Ruth Rundle è stata dunque una doccia fredda, anche perché mi ero preso un giorno intero di ferie (invece che mezza giornata) ed ero uscito presto di casa proprio per vedere la Rundle, altrimenti mi sarei presentato direttamente alle 15:00 per i Gggolddd. Finita l’esibizione ho anche il problema del pranzo da risolvere, ma questi sono cazzi miei. 

Giungono finalmente le 15:00 e sono già nella penombra brulicante del Kentish Town Forum: i Gggolddd si presentano davanti ad una platea non ancora molto nutrita, cosa che mi permette di portarmi nelle prime file e godermi da vicinissimo l’esibizione. Lasciatesi le scorie metal alle spalle, gli olandesi sono oggi promotori di una musica elettronica venata di post-rock. Cambia la forma ma non la sostanza e il fine ultimo: la musica dei Nostri è infatti da sempre portatrice di un messaggio ben preciso, ossia raccontare ed elaborare il trauma della cantante Milena Eva a seguito di abusi sessuali subiti in passato. La Nostra, dotata di una voce forte e limpida, e di un grande controllo sulla stessa, è responsabile di una esibizione intensissima. Accompagna il suo canto fragile e forte al tempo stesso con movimenti secchi e studiati ai limiti della danza contemporanea, mentre il resto del gruppo si dedica con concentrazione ai propri strumenti. 

La tensione si affetta con il coltello, tanto che, commossa, la cantante dovrà interrompere l’esecuzione di un brano (la bellissima “Spring”). Il set di 50 minuti è spartito fra l’ultimo ottimo full-lenghtThis Shame Should Not Be Mine” (del 2022) e l’ultimissimo EP “PTSD” (uscito appena una settimana prima) che propone nuovi brani e ne rivisita altri vecchi secondo quella che è l’evoluzione ultima del sound della band orange, ossia un trip-hop dalle tinte depressive che vede una presenza della chitarra sempre meno invasiva, concentrata per lo più in ricami ambientali o raffinate architetture post-rock. Voto: 10 (per l'esibizione, 7 per la proposta in sé). 

Mi dirigo al piccolo Boston per saggiare dal vivo i Trench, quartetto canadese dedito ad un furiosissimo thrash/death/hardcore. Complice un’acustica un po’ rimbombante e qualche problema tecnico ad inizio concerto, mi bastano due brani per stufarmi. Non voglio dire che  ci siano stati particolari demeriti da parte della band, il fatto è che dopo una esibizione raffinata ed emotivamente pregnante come quella dei Gggolddd, il salto si rivela troppo brusco. Monto le scale ed accedo al Dome (che è al piano di sopra) dove nel frattempo risuona il potente shoegaze degli Slow Crush, che già dal monicker evocano i maestri Slowdive, di cui sembrano essere la versione più pesante e metallica. 

Come ampiamente atteso, il quartetto belga punta sulle emozioni e ci regala 45 minuti di estasi elettrica pescando dai due album ad oggi rilasciati, “Aurora” (2018) e “Hush” (2021). Ci sarebbe però da fare un appunto: come il post-rock, lo shoegaze è difficile che non piaccia, il rischio è semmai di ripetersi  divenire prevedibili, quello che un po’ accade ai Nostri perché sì, sono dei bravissimi artigiani, ma non mostrano una grandissima personalità nell’interpretare il genere. E il genere, se non incarnato con originalità, tende al sonnolento, se non al narcolettico. Come da copione la voce fatata della bassista Isa Holiday un po’ si perde fra la potenza delle distorsioni, ma questo è un classico dello shoegaze. Si apprezzano inoltre un paio di brani più tirati che vengono strategicamente piazzati in mezzo ed alla fine con lo scopo di spezzare il flusso onirico di chitarre effettate e batteria in slow-motion. Bravi ma un po’ più di coraggio non solo sarebbe stato gradito, ma sarà anche loro necessario per sopravvivere nell'insidioso panorama musicale odierno. Voto: 7

L’esibizione degli Slow Crush è comunque il ponte ideale che ci permette di passare senza troppi scossoni dai suoni soffusi dei Gggolddd al set energico degli Svalbard, che nel frattempo hanno preso posizione sul palco del Kentish Town Forum. La formazione di Bristol, dopo una partenza di carriera improntata su sonorità post-hardcore, ha saputo mettere a punto una formula che fa efficacemente convivere velocità e melodia, black metal, metalcore, melo-death e shoegaze. Si parte in salita con dei suoni pessimi che penalizzano gravemente le chitarre, ma i Nostri sapranno, brano dopo brano, guadagnare il mio entusiasmo. Questo grazie al loro stesso entusiasmo, all’energia e all’impegno profusi ed ai sorrisi dispensati dalla cantante/chitarrista Serena Cherry, un personaggio veramente positivo. 

La band sfodera tecnica e discrete qualità compositive sciorinando uno dopo l'altro passaggi di grande intensità, con l’alternarsi riuscito fra il ruvido growl della Cherry e lo screaming più affilato dell'altro chitarrista Liam Phelan. Indubbi sono i margini di miglioramento sia sul fronte della scrittura (ancora troppo dispersiva) che della mera esecuzione (un po' confusionaria la resa complessiva - in particolare per quanto riguarda la sezione ritmica) e, nonostante un atteggiamento alquanto naif, non dobbiamo scordarci che i Nostri non sono proprio dei principianti, con ben quattro album alle spalle ed un repertorio assai nutrito su cui poter contare (una decina circa i pezzi suonati questo pomeriggio, la maggior parte dei quali provenienti dalle ultime due release, “When I Die, Will I Get Better?” del 2020 e “The Weight of the Mask” del 2023).C'è solo da capire se la recente svolta stilistica (e conseguente visibilità) costituirà una nuova fase rigenerativa per i quattro musicisti oppure essi rimarranno ancorata ai loro vizi di fondo. Teniamoli d'occhio. Voto: 7.5

Con il ritorno al piccolo Boston il copione si ripete: assisto per qualche minuto all’esibizione degli Ştiu Nu Ştiu e poi passo al Dome per rifarmi con i LLNN, ma senza particolare interesse per entrambe le band. Nonostante qualche ascolto alla vigilia, non mi ero fatto un’idea chiara di cosa suonassero gli svedesi Ştiu Nu Ştiu: con il mio ingresso nel locale, quello che mi si para innanzi ad occhi ed orecchi è una specie di post-rock strumentale venato di math-rock, progressive e psichedelia, volendo anche interessante, ma non particolarmente richiesto in quel preciso momento storico dal sottoscritto, già abbastanza fiaccato dalla giornata e con energie da risparmiare per il prosieguo. Credevo inoltre che vi sarebbe stata una cantante, di cui però, almeno per quanto ho potuto vedere io, non vi è stata traccia (chissà se sarebbe comparsa successivamente dopo una ipotetica introduzione strumentale). O magari non l’ho semplicemente individuata fra i membri della band. Andatevi comunque ad ascoltare il loro ultimo album “New Sun” (2022), veramente valido. 

Mi colpiscono positivamente gli olandesi LLNN, che inizialmente avevo depennato per la brutalità, ma che dal vivo non passano inosservati. I Nostri sono autori di una claustrofobica ed asfissiante forma di sludge/industrial: lenti e pesanti, ossessivi e martellanti, i quattro  si concentreranno sulla loro ultima fatica discografica “Unmaker” del 2021 (cinque brani su sette). E, devo dire, spaccano letteralmente il culo grazie ad una spessa coltre sonora rafforzata da sintetizzatore e campionamenti, il tutto squarciato da un lacerante screaming che ancora mi sogno la notte. E meno male che nel locale distribuivano i tappi per le orecchie. Me ne vado soddisfatto. Voto: 7

Torno al Kentish Town Forum un po’ in anticipo sui tempi, cosa che mi permette di guadagnare l’ambita posizione alla barra davanti al palco. Vedere i Napalm Death a due metri di distanza è stata una esperienza elettrizzante. Fa il suo ingresso senza tanti fronzoli l’iconico Shane Embury che inizia a strimpellare in modo brutale il basso a mo’ di intro. Lo seguono gli altri, con un invasato Mark “Barney” Greenway che si agita, cammina in modo sgraziato avanti ed indietro come un cavallo pazzo. Completano la formazione l’inossidabile Danny Herrera alla batteria e il live-guest musician John Cooke alla chitarra (perché Mitch Harris da anni ormai non sale più sul palco). Quattro veloci colpi di piatto e via, parte il primo pezzo, inizia il concerto della gioia

Dal vivo i Napalm suonano più punk che mai, sembrano più una band hardcore di inizio anni ottanta che l'autorità del grindcore per eccellenza quali essi sono. La cosa curiosa è che ho le stesse sensazioni di quando li vidi per la prima volta, tipo venti anni fa al Baraonda, rockotechina storica in provincia di Massa Carrara. All’epoca detti la colpa al luogo inadeguato (pessima acustica, niente palco sopra-elevato, impianto elettrico che saltò due volte lasciandoci al buio), ma anche a Londra in un ottimo locale come il Kentish Town Forum si subodorano gli stessi umori da centro sociale. Questa volta però me la godo, sono ubriaco e disposto al divertimento. Non ascolto i Napalm su disco da più di venti anni (l’ultimo album comprato fu “Enemy of the Music Business” nel 2000) e non ho grandi aspettative, ma proprio per questo mi sorprendono ed esaltano. 

I Nostri nella loro carriera quarantennale hanno cambiato pelle più volte, passando a suoni più death-oriented ed anche a fasi più sperimentali, ma oggi dal vivo sembra tutto sgorgare da “Scum” e “From Enslavement to Obliteration”: schegge impazzite e sguaiate di furia incontrollata si susseguono intervallate dai lunghi discorsi del loquace (divertente ed anche divertito) Greenway. L’attitudine è proprio old-school, questa è la cosa che esalta di più, come se questi quattro “ragazzi” invecchiando fossero regrediti ad uno stadio primordiale della loro visione artistica. Tutto bellissimo: loro, la gente, il pogo, persino gli addetti alla sicurezza continuamente impegnati a raccattare le persone che gli volano addosso, tutti con un sorriso stampato sulla faccia. 

Il set si compone di una ventina di brani e nonostante essi vengano pescati in lungo e in largo entro la vasta discografia dei Nostri (non trascurando nemmeno il presente della band), il tutto tende a somigliarsi ed omologarsi in un approccio esecutivo molto scarno e diretto, ma va bene così, anzi va benissimo. Emergono il classico “Suffer the Children(l’inizio della fine - da lì in poi il pogo sarebbe stato ingestibile e per noi in prima fila sarebbe divenuto un flusso continuo di corpi volanti sopra la testa), i pochi istanti di “Dead” (un momento ilare dove i musicisti non hanno che potuto ironizzare su loro stessi), la cover dei Dead KennedysNazi Punks Fuck Off” e il gran finale lasciato all’immancabile “Siege of Power”. Devastanti e divertenti. Voto: 8.

Devastato e divertito me ne torno al Dome con grande leggerezza. Devo ammettere di essere assai stanchino, quindi questa volta decido di saltare a piè pari l’esibizione dei Gallops (gruppo experimental rock inglese di potenziale interesse ma sacrificato per necessità date le circostanze) ed andare direttamente a vedere 'sti tanto sbandierati Birds in Row, band hardcore/punk francese che pareva molto promettente. Attivi da una quindicina di anni e con tre album all'attivo, i Nostri si sono senz'altro meritati i piani alti del bill. Per quel che ho visto, mi sono sembrati interessanti, con sonorità bombastiche più vicine ad uno scatenato e caciarone post-punk che ad un ortodosso hardcore. I ritmi incalzano, la batteria procede secca e dura, la chitarra stimpana, la voce brucia le orecchie, un mix di cose che mi spinge, poco dopo, a capitalizzare il tempo a disposizione per buttar giù un boccone e preservarmi le orecchie per l’evento clou della serata: i Cult of Luna. Mi perdonino gli uccellacci francesi, ma è stata una questione di sopravvivenza.  Voto: 7.

Arrivo al Kentish Town Forum che non è ancora pieno. Potrei anche riposizionarmi davanti alla barra ma per gli svedesi decido di rimanere un po’ indietro per meglio godermi lo spettacolo e la forza d’urto della loro musica. Ringrazio il Dio del Metallo per non aver instillato in me più di tanta voglia, quel giovedì sera di molti anni fa, a prendere il culo e portarlo al Siddartha di Prato per andare a vedere i Cult of Luna. Il locale, di ridotte dimensioni, era infatti più indicato per concerti di artisti neo-folk che per catastrofiche manifestazioni post-metal, e gli svedesi sarebbero stati di sicuro sacrificati, mentre stasera avrò modo di godermeli al massimo delle loro potenzialità! 

Monumentali. Questa è la prima parola che mi viene in mente per descrivere i geni di Umea nelle quasi due ore di concerto a cui abbiamo assistito stasera: giochi di luce spettacolari, volumi altissimi (ma anche nitidi), sei musicisti, due batterie, un suono massimalista che da disco viene a riversarsi fedelmente sulle assi del palcoscenico. Dopo la breve introduzione ambientale ("Beyond II") suoni, luci e colori esplodono nell'incipit tribale (rafforzato dall'instancabile lavoro dei due percussionisti) di "Cold Burn", traccia di apertura dell'ultimo “The Long Road North”. Fin da subito i Nostri si dimostrano musicisti con le palle: precisi, impeccabili, potenti come quando quella stessa musica esce dalle casse dello stereo di casa tua.  

Che altro dire? Insostenibili: difficile descriverli, impossibile abbracciare la loro musica, i loro infiniti brani, le poderose progressioni, i momenti di quiete, i maestosi crescendo. Dalle radici post-hardcore i Nostri si sono evoluti nel tempo, come puntualmente ricordato nel nostro blog, portandosi su lidi psichedelici, progressivi, math-rock, post-rock, ambient. I Nostri non vivono certo sugli allori e lo dimostra una scaletta che si incentrerà principalmente sulle ultime due notevoli fatiche discografiche “A Dawn of Fear” e il già citato “The Long Road North” dello scorso anno (rispettivamente tre e quattro i brani selezionati da questa doppietta). La scaletta stasera trascurerà il passato remoto della band., ma fortuna ha voluto che a questo giro venissero premiati due album a cui sono molto affezionato, ossia “Somewhere Along the Highway” (con la riproposizione di “Finland”) e "Vertikal" (con “I: The Weapon” e “In Awe Of” - questa ultima rappresenterà l'apice assoluto dell’esibizione per quanto mi riguarda). 

Ho provato a fare qualche video con il telefono ma amaramente ho dovuto constatare che è letteralmente impossibile catturare il senso di questo live: i Cult of Luna non brillano nei singoli passaggi ma si muovono su spazi ampi, ampissimi, e quando pensi che il massimo dell’intensità sia già stata raggiunta, il momento dopo ti rendi conto che non è ancora finita, che i Nostri sono in grado di elevarsi ancora. L’unico modo per recepirli è arrendersi e subirli

Più volte li ho accostati ai maestri Neurosis ma oggi mi rendo conto di quanto le due band siano distanti e, senza mancar rispetto ai Neurosis che il post-hardcore l’hanno inventato, laddove negli ultimi anni la tribù di Oakland ha faticato a mantenere i livelli qualitativi di un passato anche troppo glorioso, il collettivo di Umea continua imperterrito la sua ascesa verticale verso la perfezione. 

A colpire è il dualismo che si viene a creare sul palco fra le due asce: da un lato il dinamico, estroverso, a tratti tamarro Johannes Persson, sorta di Ken Guerriero del post-metal, muscoli e canotta, spesso avvistato in piedi sugli amplificatori in epiche pose da guitar hero;  dall’altro la figura rannicchiata sul proprio strumento di Fredrik Kihlberg, poco più di un’ombra persa nella nebbia dei fumogeni, una suggestiva silhouette che dietro alla sua immobilità secerne riff e refrain melodici memorabili con metodo e scioltezza. Forse alla lunga stanca il grido monocorde di Persson, ma è solo un piccolo dettaglio che si smarrisce nella apocalisse sonora allestita dal sestetto. 

Momenti topici? Tutto il concerto è una sequela di grandi emozioni, ma si fanno notare la “lenta” “Beyond I”, sorta di oscura ballad cantata con ascetica voce pulita da Kihlberg (momento di grande suggestione) e la devastante “In Awe Of” che fa scatenare un pogo violentissimo che pensavamo oramai impossibile innanzi ad una esibizione del genere (ma evidentemente era un bubbone che doveva scoppiare dopo tanta tensione accumulata). Il cerchio si chiude con un brano dell'ultimo album: "Blood Upon Stone" prosciuga ogni energia residua e sale più in alto di tutte le altre composizioni attraverso un imponente crescendo finale al cardiopalma. A fine esibizione mi rendo conto che uno dei due batteristi aveva imbracciato la chitarra, portando a tre il numero delle chitarre dispiegate sul palco ed elevando a livelli insostenibili il wall of sound.  

Fisici, mentali, spirituali, stasera i Cult of Luna sono stati TUTTO. Voto: 9.

Dopo un concerto del genere ci sarebbe voluto solo silenzio, ma purtroppo Persson, in evidente stato di ebbrezza, decide di fare lo showman, concedendosi un evitabilissimo sproloquio con il quale cerca maldestramente di fare gli onori del padrone di casa e ringraziare tutti i gruppi che hanno partecipato all’evento, non ricordandosi però i nomi e facendoseli suggerire dal pubblico. Una scena pietosa che si è protratta anche troppo a lungo, meno male che il Nostro è stato in grado di salvarsi in corner citando il grande ed imprescindibile Jello Biafra e lasciandoci al grido di: 

NAZI PUNKS FUCK OFF!