"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

14 mag 2017

IL METAL FUORI DAL METAL: IL CASO DI CHELSEA WOLFE




In redazione ci si chiede spesso cos'è "il Nuovo che avanza" nel Metal.

L'ultima volta che ce lo siamo chiesti contemplavamo una rivista di settore con in copertina i Deep Purple. Massimo rispetto per gli inossidabili Purple, ci mancherebbe, ma la domanda nasce spontanea: chi sarà in grado di prendere il posto della vecchia guardia?

Più volte abbiamo trattato la questione sulle pagine di questo blog, rispondendoci infine che oggi il problema è più che altro culturale, in quanto ad essere cambiate non sono tanto le qualità degli artisti e le energie da loro messe in campo, quanto le categorie con cui si legge la realtà e con cui si definiscono le nuove gerarchie di valori. E, semplicemente, vi è da concludere che la nostra domanda è mal posta, perché non c'è più spazio, in realtà, per "re" ed "imperatori", ma solo per eroi solitari in grado di compiere, qua e là, delle imprese che non cambiano drasticamente il mondo, ma che in qualche modo lo fanno progredire.

Si è visto, tuttavia, che nel "circuito chiuso" del Metal le energie ristagnano da anni in una palude in cui le idee veramente innovative latitano: difficile aspettarsi che, senza l'intervento di agenti esterni, possa compiersi un movimento significativo verso qualche direzione inaspettata. Allora abbiamo deciso di operare in modo contrario rispetto a quando abbiamo classificato i migliori album non-metal rilasciati da band metal, per vedere se dal Mondo Non-Metal potesse giungere qualche contributo interessante, utile alla nostra causa. L'impresa si è mostrata più difficile del previsto e il frutto delle nostre ricerche ben più magro. Ma non ci sorprendiamo: chi è quell'artista che passa al Metal, con tutti i pregiudizi che ci sono nei confronti di questo genere, e con tutto quel modo di pensare snob che lo giudica come un modo di suonare puerile ed appannaggio di adolescenti insoddisfatti?

Non sono in molti ad aver avuto il coraggio di fare un tale salto. Il primo nome che viene in mente è ovviamente quello di Steven Wilson: partito dalla psichedelia, poi sfociata nel prog rock, con i suoi Porcupine Tree, egli saprà, complice l’amicizia con Mikael Akerfledt degli Opeth (proprio Wilson aveva prodotto il capolavoro “Blackwater Park”), innestare considerevoli dosi di “metal” (riff, ritmi serrati) nella sua visione artistica. Le prime tracce le rinveniamo in “In Absentia” per poi trovare questi germi sviluppati negli album successivi dei Porcospini. Con il risultato che Wilson dovrà il suo successo commerciale proprio al suo ingresso nel mondo del metal, sebbene la sua figura rimarrà sempre quella del raffinato autore neo-prog (contaminando a suo volta, come produttore, musicista e generatore di tendenze, il mondo metal).

Interessante la parabola artistica di Phil Elverum, noto nei circuiti dell'indie-rock con gli oramai dissolti The Microphones. Con la successiva incarnazione artistica, i Mount Eerie, egli deciderà di contaminare il suo dolente cantautorato con stilemi black metal, e non diciamo questo tirando per i capelli le etichette. Lavori come “Wind’s Poem” (2009), “Clear Moon” (2012) e “Ocean Roar” (2012), scaturiti dal dolore a seguito del lutto della propria compagna, contemplano riff in tremolo e passaggi in blast-beat, dimostrando come il black metal sia il medium ideale per sondare gli abissi più oscuri e profondi della propria interiorità. Tanto per dare forza alle nostre argomentazioni, nel brano “Stone’s Ode” si citano i versi della burzumianaDunkelheit”.

I Matmos, gli alfieri dell'elettronica più intelligente (quelli che, per intenderci, musicavano, fra beat minimali e field recording, le ossessioni di una giovane Bjork), in "The Marriage of True Minds" introducevano nel loro sound chitarre black metal. Ma che il black metal piacesse alla gente più intelligente non è certo una notizia. E poi si è trattato solo di un semplice "prestito" che ha giovato più all'elettronica che al metal, accolto come elemento di utile contaminazione.

Nel bel “Aleph at the Hallucinatory Mountain”, David Tibet rivestiva il folk apocalittico dei suoi Current 93 con la scorza dura dello stoner e del doom, stupendoci non poco con un impiego massiccio di chitarre elettriche e batteria, strumenti inediti per la Corrente, che prima di allora aveva preferito la dimensione acustica o quella esoterico/industriale. Un episodio, tuttavia, destinato a rimanere isolato nella vasta e variegata discografia del Nostro, che presto deciderà di abbandonare il verbo elettrico per tornare in territori sonori a lui maggiormente consoni.

Come si suol dire, dal sacro al profano: Dave Grohl, messi da parte per un attimo i redditizi Foo Fighters, decise di dare sfogo ai suoi istinti metallici, retaggio dei suoi ascolti di gioventù, con il progetto Probot, che vedeva come ospiti gente del calibro di Lemmy, Cronos, Max Cavalera, Mike Dean, Lee Dorrian, Tom G. Warrior, King Diamond ecc. Ma si capisce che è stato solo un revival, un'esperienza fine a se stessa ed intrapresa quasi per gioco, con un occhio ovviamente al mercato discografico, considerata la parata di stelle a richiamare l’attenzione dei più.

Più seriamente farà Scott Walker, che collaborerà niente meno che con i temibili Sunn O))), ma alla fine l'esperimento (un magma sonoro a metà strada fra doom, avanguardia e cantautorato) riuscirà pretenzioso e vuoto di ispirazione: mero esercizio intellettuale, fin troppo prevedibile nel suo svolgimento, di due entità estreme volte all'arte astratta e votate alla provocazione.

Seppur in modo più genuino, falliranno anche Mark Kozelek/Sun Kil Moon e Justin Broadrick/Jesu, fiacchi e nemmeno troppo determinati a far funzionare un gioco che poteva avere il suo perché, ossia far coesistere l'indole da cantastorie del primo e l'apparato post-metal del secondo.

Nel loro piccolo, faranno meglio i nostri Bachi da Pietra, che nel giro di due album passeranno, senza tanti cazzi, dal blues al death metal.

Oggi, tuttavia, parleremo di un caso secondo noi ancora più interessante e ricco di implicazioni: quello rappresentato da Chelsea Wolfe, giovane cantautrice statunitense (classe 1983) approdata al doom-metal  con il suo ultimo parto discografico "The Abyss". Un percorso originato dalle scarne ballate folk degli esordi (il picco di questa prima fase è stato l'album "Apokalypsis") e proseguito prima con la svolta elettrica di "Unknown Rooms: a Collection of Acoustic Songs" (!!!) e poi con le irrequietudini dark-wave di "Pain is Beauty": pregevole lavoro che aveva fatto meritare alla nostra ragassuola lo status di nuova musa del rock oscuro. Contribuì a questa nomea l'abitudine della Nostra a presentarsi sul palco nascosta dietro a lunghi veli neri: non un semplice vezzo, ma quasi una necessità, considerati i timori della cantante ad esibirsi davanti ad un pubblico in carne ed ossa.

La partecipazione in qualità di ospite nell'album "Memorial" della band post-metal Russian Circles, e il conseguente tour con gli stessi, poteva certo essere una prima avvisaglia di quello che sarebbe successo di lì a poco, ma nessuno si poteva aspettare un abbraccio così "totale" del paradigma metal con "The Abyss", uscito nel 2015. L'azzardo verrà premiato, l'audacia baciata dalla fortuna, visto che esso rappresenterà l'opera della consacrazione definitiva per la cantante, giunta alla maturità autoriale proprio con il suo album più coraggioso ed estremo di sempre. E quando l'ispirazione coincide con cambiamenti drastici, generalmente ci scappa il capolavoro.

Chitarroni doom, suoni grassi, influssi industriali, umori squisitamente dark con puzza di disagio generazionale che tira a miglia di distanza: forse c'è del ruffiano in tutto questo, perché il doom viene in questa operazione spogliato del suo fascino arcano ed esoterico (quello proprio della vecchia scuola) e poi rivestito di un guscio modernista che ovviamente non poteva e doveva essere autenticamente metal, visto che la sua interprete un autentico spirito metal non lo possiede (il suo mondo di riferimenti rimane quello del cantautorato e di certo rock indipendente, e non è un caso che, abbastanza fuori luogo, spunti ancora il solito paragone con PJ Harvey).

Ma a questo punto mi sento di dovervi tranquillizzare: non vi dovete aspettare la classica produzione patinata, innocua ed inconsistente, da "nuova reginetta del goth-metal ". A dirla tutta, possiamo aggiungere che nemmeno di punk o post-punk c'è molto: Chelsea non alza mai la voce, preferendo il suo lamento sconsolato ma al tempo stesso imperioso, solo di tanto in tanto scosso da nevrosi, ma mai da fastidiosi isterismi. Ed è anche per questo aspetto, forse più per coincidenza che per effettivo volere, che il risultato suona "molto doom" e poco fake-metal. Perché "The Abyss" incarna un ideale di "pesantezza ed oscurità" che era nelle corde e nelle intenzioni dell'artista e che essa ha ritrovato calandosi negli abissi del Metal.

Le circostanze vogliono che lo slancio introspettivo della cantante si sposi alla perfezione con l'avvilente armamentario sonoro offerto dal doom. Una formula che funziona talmente bene che in parallelo vediamo il fiorire, di questi tempi, di due correnti che si muovono in senso opposto, ma che si incontrano in un luogo oscuro ed affascinante che sta generando realtà interessanti (un fenomeno ancora in fermento, il più delle volte squisitamente underground, di cui non si sa dire oggi se destinato al successo commerciale).

Da un lato abbiamo gruppi dediti a stoner, sludge, funeral doom o drone o depressive black che decidono di giocarsi la carta dell'ugola femminile (il primo nome che ci viene in mente sono proprio quei Fvnerals che abbiamo già trattato sul nostro blog); dall'altro troviamo insospettabili cantautrici sedotte dal verbo elettrico (oltre la stessa Wolfe, potremmo citare Anna  Von Hausswolff, organista virtuosa passata al verbo drone-doom con l'ultimo oscuro e derelitto album "The Miraculous").

Per quanto riguarda questa seconda categoria, non si tratta di un vero e proprio salto nel mondo metal come lo conosciamo noi esperti, con i suoi cliché consolidatisi nel corso della decade ottantiana. Qua si parla piuttosto di un metal primigenio, del sempiterno linguaggio sabbathiano che è sicuramente patrimonio comune di metal e rock indipendente, e che, appunto, si trova in sintonia con il folk o con la musica liturgica o d’ambiente. Il risultato viene poi ben "ingrassato" dalle produzioni moderne e, diciamolo, dalla voglia di esagerare di certa avanguardia, che nei droni e nelle distorsioni trova sempre più spesso linfa vitale. Cosa che non ci stupisce se si pensa che fuori dal recinto del Metal è più facile trovare estimatori di Mayhem, Burzum ed Immortal che di Helloween e Gamma Ray, perché a volte l'attitudine, l'essere evocatori di mondi perversi, prevale sul semplice "rockeggiare", un ambito poco gradito da chi ha del disagio da esprimere.

Vince dunque Chelsea Wolfe? Secondo me sì: quel che costei saccheggia dal metal è basilare, non troveremo una ricerca virtuosa nel suo procedere. Quello che lei dona al metal, invece, è qualcosa di infinitamente prezioso: il suo raffinato mondo poetico. Da qui potremmo ripartire per rifondare una nuova concezione (l’ennesima!) del Metal.

Che sia solo una sbandata di un momento, questo lo capiremo solo seguendo le sue prossime mosse: di certo la Nostra dovrà fare le sue scelte, capire se è il caso di cavalcare l'onda e perpetuare un corso che le sta dando una ragion d'essere nel mare magnum della musica contemporanea (ma che magari è solo frutto di una pulsione temporanea o di un guizzo di genio non replicabile), o tornare alla sua chitarra acustica e ad una più canonica forma di cantautorato, paventando magari, nel modo più prevedibile del mondo, una maturazione artistica ed esigenze da "interprete adulto".

Per adesso, allargando lo sguardo agli altri nomi femminili alle prese con il Verbo Oscuro del Metallo, possiamo affermare: Doom, il tuo nome è donna!