In redazione ci si chiede spesso cos'è "il Nuovo che avanza" nel Metal.
L'ultima volta che ce lo siamo chiesti contemplavamo
una rivista di settore con in copertina i Deep
Purple. Massimo rispetto per gli inossidabili Purple, ci mancherebbe, ma la domanda nasce spontanea: chi sarà in grado di prendere il posto della
vecchia guardia?
Più volte abbiamo trattato la questione sulle pagine
di questo blog, rispondendoci infine
che oggi il problema è più che altro culturale, in quanto ad essere cambiate
non sono tanto le qualità degli artisti e le energie da loro messe in campo,
quanto le categorie con cui si legge la realtà e con cui si definiscono le
nuove gerarchie di valori. E, semplicemente, vi è da concludere che la nostra
domanda è mal posta, perché non c'è più spazio, in realtà, per "re"
ed "imperatori", ma solo per eroi solitari in grado di compiere, qua
e là, delle imprese che non cambiano drasticamente il mondo, ma che in qualche
modo lo fanno progredire.
Si è visto, tuttavia, che nel "circuito chiuso"
del Metal le energie ristagnano da anni in una palude in cui le idee veramente
innovative latitano: difficile aspettarsi che, senza l'intervento di agenti
esterni, possa compiersi un movimento significativo verso qualche direzione
inaspettata. Allora abbiamo deciso di operare in modo contrario rispetto a
quando abbiamo classificato i migliori album non-metal rilasciati da band metal, per vedere se dal Mondo Non-Metal potesse giungere qualche
contributo interessante, utile alla nostra causa. L'impresa si è mostrata più
difficile del previsto e il frutto delle nostre ricerche ben più magro. Ma non
ci sorprendiamo: chi è quell'artista che passa al Metal, con tutti i pregiudizi
che ci sono nei confronti di questo genere, e con tutto quel modo di pensare
snob che lo giudica come un modo di suonare puerile ed appannaggio di adolescenti
insoddisfatti?
Non sono in molti ad aver avuto il coraggio di fare
un tale salto. Il
primo nome che viene in mente è ovviamente quello di Steven Wilson:
partito dalla psichedelia, poi sfociata nel prog rock, con i suoi
Porcupine Tree, egli saprà, complice l’amicizia con Mikael Akerfledt
degli Opeth (proprio Wilson aveva prodotto il capolavoro “Blackwater
Park”), innestare considerevoli dosi di “metal” (riff, ritmi serrati) nella sua visione artistica. Le prime tracce
le rinveniamo in “In Absentia” per poi trovare questi germi sviluppati
negli album successivi dei Porcospini.
Con il risultato che Wilson dovrà il suo successo commerciale proprio al suo
ingresso nel mondo del metal, sebbene la sua figura rimarrà sempre quella del
raffinato autore neo-prog (contaminando a suo volta, come produttore,
musicista e generatore di tendenze,
il mondo metal).
Interessante la parabola artistica di Phil Elverum, noto nei circuiti dell'indie-rock con gli oramai dissolti The Microphones. Con la successiva incarnazione artistica, i Mount Eerie, egli deciderà di contaminare il suo dolente cantautorato con stilemi black metal, e non diciamo questo tirando per i capelli le etichette. Lavori come “Wind’s Poem” (2009), “Clear Moon” (2012) e “Ocean Roar” (2012), scaturiti dal dolore a seguito del lutto della propria compagna, contemplano riff in tremolo e passaggi in blast-beat, dimostrando come il black metal sia il medium ideale per sondare gli abissi più oscuri e profondi della propria interiorità. Tanto per dare forza alle nostre argomentazioni, nel brano “Stone’s Ode” si citano i versi della burzumiana “Dunkelheit”.
I Matmos, gli alfieri dell'elettronica più intelligente (quelli che, per intenderci, musicavano, fra beat minimali e field recording, le ossessioni di una giovane Bjork), in "The Marriage of True Minds" introducevano nel loro sound chitarre black metal. Ma che il black metal piacesse alla gente più intelligente non è certo una notizia. E poi si è trattato solo di un semplice "prestito" che ha giovato più all'elettronica che al metal, accolto come elemento di utile contaminazione.
Interessante la parabola artistica di Phil Elverum, noto nei circuiti dell'indie-rock con gli oramai dissolti The Microphones. Con la successiva incarnazione artistica, i Mount Eerie, egli deciderà di contaminare il suo dolente cantautorato con stilemi black metal, e non diciamo questo tirando per i capelli le etichette. Lavori come “Wind’s Poem” (2009), “Clear Moon” (2012) e “Ocean Roar” (2012), scaturiti dal dolore a seguito del lutto della propria compagna, contemplano riff in tremolo e passaggi in blast-beat, dimostrando come il black metal sia il medium ideale per sondare gli abissi più oscuri e profondi della propria interiorità. Tanto per dare forza alle nostre argomentazioni, nel brano “Stone’s Ode” si citano i versi della burzumiana “Dunkelheit”.
I Matmos, gli alfieri dell'elettronica più intelligente (quelli che, per intenderci, musicavano, fra beat minimali e field recording, le ossessioni di una giovane Bjork), in "The Marriage of True Minds" introducevano nel loro sound chitarre black metal. Ma che il black metal piacesse alla gente più intelligente non è certo una notizia. E poi si è trattato solo di un semplice "prestito" che ha giovato più all'elettronica che al metal, accolto come elemento di utile contaminazione.
Nel bel “Aleph
at the Hallucinatory Mountain”, David
Tibet rivestiva il folk apocalittico dei suoi Current 93 con la scorza dura dello stoner e del doom, stupendoci
non poco con un impiego massiccio di chitarre elettriche e batteria, strumenti
inediti per la Corrente, che prima di
allora aveva preferito la dimensione acustica o quella esoterico/industriale.
Un episodio, tuttavia, destinato a rimanere isolato nella vasta e variegata discografia
del Nostro, che presto deciderà di abbandonare il verbo elettrico per tornare
in territori sonori a lui maggiormente consoni.
Come si suol dire, dal sacro al profano: Dave Grohl, messi da parte per un
attimo i redditizi Foo Fighters,
decise di dare sfogo ai suoi istinti metallici, retaggio dei suoi ascolti di
gioventù, con il progetto Probot,
che vedeva come ospiti gente del calibro di Lemmy, Cronos, Max Cavalera, Mike Dean, Lee Dorrian, Tom G. Warrior, King Diamond ecc. Ma si capisce che è stato solo un revival, un'esperienza fine a se stessa
ed intrapresa quasi per gioco, con un occhio ovviamente al mercato
discografico, considerata la parata di stelle
a richiamare l’attenzione dei più.
Più seriamente farà Scott Walker, che collaborerà niente meno che con i temibili Sunn O))), ma alla fine l'esperimento
(un magma sonoro a metà strada fra doom, avanguardia e cantautorato) riuscirà
pretenzioso e vuoto di ispirazione: mero esercizio intellettuale, fin troppo
prevedibile nel suo svolgimento, di due entità estreme volte all'arte astratta
e votate alla provocazione.
Seppur in modo più genuino, falliranno anche Mark Kozelek/Sun Kil Moon e Justin Broadrick/Jesu, fiacchi e
nemmeno troppo determinati a far funzionare un gioco che poteva avere il suo perché, ossia far coesistere l'indole
da cantastorie del primo e l'apparato post-metal del secondo.
Nel loro piccolo, faranno meglio i nostri Bachi da Pietra, che nel giro di due
album passeranno, senza tanti cazzi, dal blues al death metal.
Oggi, tuttavia, parleremo di un caso secondo noi
ancora più interessante e ricco di implicazioni: quello rappresentato da Chelsea Wolfe, giovane cantautrice
statunitense (classe 1983) approdata al doom-metal
con il suo ultimo parto discografico "The
Abyss". Un percorso originato dalle scarne ballate folk degli esordi (il picco di questa prima fase è stato
l'album "Apokalypsis") e
proseguito prima con la svolta elettrica di "Unknown Rooms: a Collection of Acoustic Songs" (!!!) e poi con
le irrequietudini dark-wave di
"Pain is Beauty":
pregevole lavoro che aveva fatto meritare alla nostra ragassuola lo status di nuova musa
del rock oscuro. Contribuì a questa nomea l'abitudine della Nostra a
presentarsi sul palco nascosta dietro a lunghi veli neri: non un semplice
vezzo, ma quasi una necessità, considerati i timori della cantante ad esibirsi
davanti ad un pubblico in carne ed ossa.
La partecipazione in qualità di ospite nell'album
"Memorial" della band
post-metal Russian Circles, e il
conseguente tour con gli stessi,
poteva certo essere una prima avvisaglia di quello che sarebbe successo di lì a
poco, ma nessuno si poteva aspettare un abbraccio così "totale" del
paradigma metal con "The Abyss", uscito nel 2015. L'azzardo verrà
premiato, l'audacia baciata dalla fortuna, visto che esso rappresenterà l'opera
della consacrazione definitiva per la cantante, giunta alla maturità autoriale
proprio con il suo album più coraggioso ed estremo di sempre. E quando l'ispirazione
coincide con cambiamenti drastici, generalmente ci scappa il capolavoro.
Chitarroni doom, suoni grassi, influssi
industriali, umori squisitamente dark
con puzza di disagio generazionale che
tira a miglia di distanza: forse c'è del ruffiano in tutto questo, perché
il doom viene in questa operazione spogliato del suo fascino arcano ed
esoterico (quello proprio della vecchia scuola) e poi rivestito di un guscio
modernista che ovviamente non poteva e doveva essere autenticamente metal,
visto che la sua interprete un autentico spirito metal non lo possiede (il suo
mondo di riferimenti rimane quello del cantautorato
e di certo rock indipendente, e non
è un caso che, abbastanza fuori luogo, spunti ancora il solito paragone con PJ Harvey).
Ma a questo punto mi sento di dovervi tranquillizzare:
non vi dovete aspettare la classica produzione patinata, innocua ed
inconsistente, da "nuova reginetta del goth-metal ". A dirla tutta,
possiamo aggiungere che nemmeno di punk o post-punk c'è molto: Chelsea non alza
mai la voce, preferendo il suo lamento sconsolato ma al tempo stesso imperioso,
solo di tanto in tanto scosso da nevrosi, ma mai da fastidiosi isterismi. Ed è
anche per questo aspetto, forse più per coincidenza che per effettivo volere,
che il risultato suona "molto doom" e poco fake-metal. Perché "The Abyss" incarna un ideale di "pesantezza ed
oscurità" che era nelle corde e nelle intenzioni dell'artista e che
essa ha ritrovato calandosi negli abissi
del Metal.
Le circostanze vogliono che lo slancio introspettivo della cantante si sposi alla perfezione con
l'avvilente armamentario sonoro offerto dal doom. Una formula che funziona talmente
bene che in parallelo vediamo il fiorire, di questi tempi, di due correnti che si muovono in senso
opposto, ma che si incontrano in un luogo oscuro
ed affascinante che sta generando realtà interessanti (un fenomeno ancora
in fermento, il più delle volte squisitamente underground, di cui non si sa dire oggi se destinato al successo
commerciale).
Da un lato abbiamo gruppi dediti a stoner, sludge,
funeral doom o drone o depressive black che decidono di giocarsi la carta dell'ugola
femminile (il primo nome che ci viene in mente sono proprio quei Fvnerals che abbiamo già trattato sul
nostro blog); dall'altro troviamo insospettabili
cantautrici sedotte dal verbo elettrico (oltre la stessa Wolfe, potremmo citare
Anna Von Hausswolff, organista
virtuosa passata al verbo drone-doom con l'ultimo oscuro e derelitto album
"The Miraculous").
Per quanto riguarda questa seconda categoria, non si
tratta di un vero e proprio salto nel mondo metal come lo conosciamo noi
esperti, con i suoi cliché
consolidatisi nel corso della decade ottantiana. Qua si parla piuttosto di un metal primigenio, del sempiterno
linguaggio sabbathiano che è sicuramente
patrimonio comune di metal e rock indipendente, e che, appunto, si trova in
sintonia con il folk o con la musica liturgica o d’ambiente. Il risultato viene
poi ben "ingrassato" dalle produzioni moderne e, diciamolo, dalla voglia di esagerare di certa
avanguardia, che nei droni e nelle distorsioni trova sempre più spesso
linfa vitale. Cosa che non ci stupisce se si pensa che fuori dal recinto del Metal
è più facile trovare estimatori di Mayhem,
Burzum ed Immortal che di Helloween
e Gamma Ray, perché a volte
l'attitudine, l'essere evocatori di mondi perversi, prevale sul semplice
"rockeggiare", un ambito poco gradito da chi ha del disagio da
esprimere.
Vince dunque
Chelsea Wolfe? Secondo me sì: quel
che costei saccheggia dal metal è basilare, non troveremo una ricerca virtuosa
nel suo procedere. Quello che lei dona al metal, invece, è qualcosa di
infinitamente prezioso: il suo raffinato
mondo poetico. Da qui potremmo ripartire per rifondare una nuova concezione
(l’ennesima!) del Metal.
Che sia solo una sbandata di un momento, questo lo
capiremo solo seguendo le sue prossime mosse: di certo la Nostra dovrà fare le
sue scelte, capire se è il caso di cavalcare l'onda e perpetuare un corso che
le sta dando una ragion d'essere nel mare magnum della musica contemporanea (ma
che magari è solo frutto di una pulsione temporanea o di un guizzo di genio non
replicabile), o tornare alla sua chitarra acustica e ad una più canonica forma
di cantautorato, paventando magari, nel modo più prevedibile del mondo, una maturazione
artistica ed esigenze da "interprete adulto".
Per adesso, allargando lo sguardo agli altri nomi
femminili alle prese con il Verbo Oscuro
del Metallo, possiamo affermare: Doom, il tuo nome è donna!