Dietro all’enigmatica sigla Lingua Ignota si cela (ma non troppo) Kristin Hayter: californiana, classe 1986, che io scherzosamente ho ribattezzato la Lady Gaga dell’Estremo (complice una vaga somiglianza nei tratti del viso).
Per chi conosce nomi come Diamanda Galas o primi Current 93; per chi non teme sonorità black e death industrial (Brighter Death Now, MZ.412 etc.); per chi, infine, è già avvezzo alle asperità professate da generi come black metal e drone-metal, le sinfonie del dolore di Kristin Hayter presenteranno una certa familiarità. Ma sono l'ispirazione, l'energia e l'urgenza comunicativa a rendere fresco e degno di attenzione il prodotto, al netto di presunti richiami stilistici a nomi già noti ad un certo tipo di pubblico.
Per chi conosce nomi come Diamanda Galas o primi Current 93; per chi non teme sonorità black e death industrial (Brighter Death Now, MZ.412 etc.); per chi, infine, è già avvezzo alle asperità professate da generi come black metal e drone-metal, le sinfonie del dolore di Kristin Hayter presenteranno una certa familiarità. Ma sono l'ispirazione, l'energia e l'urgenza comunicativa a rendere fresco e degno di attenzione il prodotto, al netto di presunti richiami stilistici a nomi già noti ad un certo tipo di pubblico.
La Nostra ha poi una preparazione classica, cosa che le permette di muoversi con cognizione di causa nel territorio dell’avanguardia più oltranzista e di iniettare sostanza dietro al paravento dell’iconoclastia sonora. Le musica di Lingua Ignota non è dunque provocazione fine a se stessa, ma un viaggio genuino nell’universo interiore dell’artista, a quanto pare vittima di abusi e violenze. Vediamo se le premesse gettate dall'ottimo "Caligula" (opera della consacrazione dopo il folgorante debutto "All Bitches Die") troveranno conferma sulle assi di un palcoscenico...
Parto dicendo che mai e poi mai mi sarei aspettato un sold out per una artista così di nicchia. E' anche vero che l’Oslo a Hackeny è un buco, o perlomeno lo è la sua saletta-concerti al piano superiore, visto che al piano terra si presenta come un ristorante nemmeno dei più malvagi. Gli accorsi, come prevedibile, sono un mix ben assortito di intellettualoidi e personaggi estremi, tanto che all’ingresso mi sale un po’ di ansia, turbato da quei brutti ceffi con i tatuaggi in faccia che spesso sono attirati da eventi del genere. Il range è ampio: dagli amanti dell’industrial a quelli della darkwave, e persino qualche metallaro, più che altro di estrazione estrema (grind, black, doom). Molti occhi a mandorla, abbastanza ragazze, il giusto numero di barbe, occhiali e crani rasati: direi che siamo pronti per partire.
Permettetemi di liquidare con poche parole i due gruppi-spalla, che peraltro non mi sono nemmeno dispiaciuti. I Bruxa Maria partono male, con suoni striduli, cambi di tempo a cazzo di cane ed una cantante/chitarrista che strilla come una cornacchia sodomizzata. Le cose miglioreranno di brano in brano grazie ad una proposta varia che sa intercettare influenze che vanno dal noise-rock al grind, dal punk al post-hardcore.
I Grave Lines si presentano con un sound più quadrato e con un chitarrista che oserei definire l’essere più brutale che abbia mai visto in vita mia (altissimo, corpo completamente tatuato, croce rovesciata al collo, barba infeltrita, fauci perennemente spalancate, occhi spiritati – non avrebbe sfigurato nella cricca di Charles Manson). I nostri offrono riff duri come macigni e tempi perennemente in ritardo con qualche divagazione dal sapore psichedelico: già, i Nostri suonano sludge e non spiacciono affatto. Ma permettetemi di sorvolare su costoro e parlare della protagonista della serata, di ben altra caratura.
I Grave Lines si presentano con un sound più quadrato e con un chitarrista che oserei definire l’essere più brutale che abbia mai visto in vita mia (altissimo, corpo completamente tatuato, croce rovesciata al collo, barba infeltrita, fauci perennemente spalancate, occhi spiritati – non avrebbe sfigurato nella cricca di Charles Manson). I nostri offrono riff duri come macigni e tempi perennemente in ritardo con qualche divagazione dal sapore psichedelico: già, i Nostri suonano sludge e non spiacciono affatto. Ma permettetemi di sorvolare su costoro e parlare della protagonista della serata, di ben altra caratura.
Il primo ed unico errore di Kristin Hayter è stato quello di allestirsi il palco da sola. Vederla aggirarsi sulle assi "in borghese", cappellino con visiera, indaffarata ad armeggiare fra cavi, strumenti, microfoni, luci e scenografie, non solo toglie poesia al tutto, ma, alla luce di quella che sarebbe successo dopo, stempera quello che poteva essere un intrigante processo di svelamento progressivo. Diciamo che ci piace pensare che la Nostra è una perfezionista che intende curare ogni singolo dettaglio del proprio spettacolo e che, sostanzialmente, è una persona sola, che sola porta avanti la sua crociata esistenziale ed artistica su questo mondo. L’esibizione, incentrata totalmente su “Caligula”, si rivelerà una sinfonia in crescendo che, nell’arco di tre movimenti, dal silenzio e le tenebre condurrà al caos e...alle tenebre...
La prima parte dello show ruoterà intorno al tema lirico di “Do you Doubt me Traitor”, che affiorerà periodicamente in superficie con il mantra “I don’t eat, I don’t sleep, I let it consume me” ripetuto all'ossessione. E’ buio e dal nulla si materializzano le dolenti note di un pianoforte: riconosciamo, seppur stravolta, “Sorrow! Sorrow! Sorrow!”, una dolorosa litania dominata dalla voce potente e vibrante di Kristin, ai limiti del soprano.
Rispetto al disco i brani risulteranno espansi, scomposti e riassemblati in un unico flusso sonoro. Con estrema naturalezza infatti l’opener confluisce in una rivisitazione pianistica della già citata ““Do you Doubt me Traitor”. Mentre i droni fanno da collante, riusciamo a scorgere per la prima volta l’artista, avvolta in una lunga tunica nera, a rimarcare gli umori rituali del progetto. La sua ombra si ingrandisce e si deforma dietro ad un lenzuolo trasparente, mentre echeggia in sala la cantilenante e velvettiana “Faithful Servant Friend of Christ”, altro momento di estrema suggestione. Ma ecco che le distorsioni si fanno più pressanti, accompagnate dai ritmi marziali delle drum machine. Kristin, armata di una lampada, si fa largo fra il pubblico in una oscena riproposizione (finalmente in tutta la sua ferocia) di “Do you Doubt me Traitor”, fra lampi di luce ed assordanti deflagrazioni sonore. Quello che era stato fino a quel momento un canto di dolore diventa il grido agonizzante di un essere demoniaco, svelando finalmente l’altra faccia, quella più pericolosa, del progetto. Ridendo e scherzando se ne è andata la prima mezzora.
Rispetto al disco i brani risulteranno espansi, scomposti e riassemblati in un unico flusso sonoro. Con estrema naturalezza infatti l’opener confluisce in una rivisitazione pianistica della già citata ““Do you Doubt me Traitor”. Mentre i droni fanno da collante, riusciamo a scorgere per la prima volta l’artista, avvolta in una lunga tunica nera, a rimarcare gli umori rituali del progetto. La sua ombra si ingrandisce e si deforma dietro ad un lenzuolo trasparente, mentre echeggia in sala la cantilenante e velvettiana “Faithful Servant Friend of Christ”, altro momento di estrema suggestione. Ma ecco che le distorsioni si fanno più pressanti, accompagnate dai ritmi marziali delle drum machine. Kristin, armata di una lampada, si fa largo fra il pubblico in una oscena riproposizione (finalmente in tutta la sua ferocia) di “Do you Doubt me Traitor”, fra lampi di luce ed assordanti deflagrazioni sonore. Quello che era stato fino a quel momento un canto di dolore diventa il grido agonizzante di un essere demoniaco, svelando finalmente l’altra faccia, quella più pericolosa, del progetto. Ridendo e scherzando se ne è andata la prima mezzora.
La seconda fase dell’esibizione sarà caratterizzata dalla monumentale “Butcher of the World”, introdotta dal celebre tema di “Arancia Meccanica” (scelta non così banale, se si pensa che “Caligula” è un saggio sulla violenza, e la pellicola di Stanley Kubrick è il film sulla violenza per eccellenza). Libera oramai da ogni orpello, in canottiera e collant neri, con in bella mostra il tatuaggio “caligula” in caratteri gotici sul petto e la proverbiale catena di ferro avvolta al collo (simbolo di dominazione/sottomissione), la cantante si erge su una pedana, vomitando feroci invettive sul pubblico. La sua voce perde dal vivo i contorni dell'aspro screaming burzumiano che possiamo udire su disco, per acquisire una irruenza declamatoria che dona maggiore autenticità alla sua arte. Questa volta la lampada viene appesa ai tralicci sul soffitto, costituendo l’unica fonte di luce in sala. Mentre essa oscilla lentamente sullo sfondo, creando un effetto a dir poco funereo, Kristin si posiziona nuovamente dietro alle tastiere, dove, una volta dissolto il frastuono, si cimenta con innaturale pacatezza nella parte pianistica del brano, cambiando nuovamente il volto alla sua musica. La voce stanca e tremante con evidente sforzo si setta su uno straziante pulito: è questo, senza ombra di dubbio, il momento più intenso della serata.
L’ultima porzione dell’esibizione è un saliscendi emotivo che sa di polmoni svuotati e muscoli spossati: i suoni sono ormai pastosi, le dita sul piano stanche, la voce un rantolo moribondo, corde vocali tirate allo spasimo. Il terzo movimento, aperto dall'epica "May Failure Be Your Noose”, tocca il suo apice con i gorgheggi di “If the Poison won’t Take You my Dogs Will”, che quasi ci strappa le lacrime dagli occhi. La Nostra, elevandosi ancora una volta in piedi sulla pedana posta sul palco, compie gesti sgraziati che si approssimano alla danza contemporanea, quasi mimando una impiccagione con il cavo della solita lampada (ben più che un espediente scenico, ma uno strumento con cui dialogare e generare giochi di luce). C'è tempo per un’altra letale incursione fra il pubblico: immagini sfocate rapite dalla penombra.
Dalla sonata di clavicembalo alla montagna di distorsioni che restituiscono il progetto alla sua natura noise-industrial: la lenta rincorsa verso il caos porta il nome del binomio conclusivo “Fucking Deathdealer”/“I am the Beast”, con il quale si conclude anche il disco. E mentre sul palco si materializza l’apoteosi black metal di arpeggi in tremolo lanciati in loop, il rituale si completa con la silenziosa uscita al palco della nostra eroina.
Dalla sonata di clavicembalo alla montagna di distorsioni che restituiscono il progetto alla sua natura noise-industrial: la lenta rincorsa verso il caos porta il nome del binomio conclusivo “Fucking Deathdealer”/“I am the Beast”, con il quale si conclude anche il disco. E mentre sul palco si materializza l’apoteosi black metal di arpeggi in tremolo lanciati in loop, il rituale si completa con la silenziosa uscita al palco della nostra eroina.
Un’ora scarsa è bastata per mettere in scena il dolore: il concerto (se così lo possiamo definire) non poteva durare di più, considerate la fisicità dell’esibizione e le ingenti energie richieste. Distante dalle leziosità aristocratiche di una Anna Von Hausswolff, lontana anni luce da una più cantautoriale Chelsea Wolfe, su un altro pianeta rispetto alla statuaria Myrkur, Kristin Hayter, in arte Lingua Ignota, si inserisce senza ombra di dubbio fra le interpreti femminili più interessanti del momento, nonché fra le proposte più significative dei nostri tempi in campo estremo e non.
A star is born...
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