26 ago 2024

DARKHER - FINE DELL'ESTATE

 
Leggerete queste mie parole negli ultimi giorni di agosto, quando sarà sicuramente più lecito parlare di fine dell'estate, ma i fatti qui narrati risalgono ad un mese fa, al 27 luglio per l'esattezza. 
 
Nei circa sei giorni all'anno in cui si può dire che a Londra è estate succedono cose strane agli occhi di una sensibilità mediterranea: le strade si riempiono di gente in tenuta balneare (infradito, abiti fioriti, occhiali da sole, cappelli di paglia ecc.) nella cornice stridente di asfalto e cemento della grande città. Credo che quest'anno vadano di moda gli stivali da cowboy abbinati a minigonne, non proprio il mio stile, ma non ci si lamenta, un bel vedere in ogni caso. 
 
Sabato 27 luglio era uno di questi giorni, cielo terso e sgombro da nuvole come è veramente raro vedere in terra d'Albione, e molto molto caldo. È stato un vero piacere passeggiare nel pomeriggio per le affollate vie del mercato di Portobello, foriere di positive vibrazioni nonostante la presenza massiccia di turisti. Ma il pensiero è sempre stato rivolto alla sera: Jayn H Maiven, in arte Darkher, avrebbe suonato al Black Hearts di Camden Town, e la sua musica oscura avrebbe spazzato via ogni traccia di estate: prospettiva che non ci dispiace affatto, noi che dell'estate non siamo dei grandi ammiratori...

L'evento è sold out, anche se c'è da far presente che la sala concerti del mitico Black Hearts è grande quanto il mio salotto (e non abito a Buckingham Palace...). Come supporto troviamo tale Carcass of Sighs, personaggio a me sconosciuto. Già la scelta del nome mi pare infelice, a meno che si suoni funeral doom, ma non è questo il caso. Stando alle note riportate su Bandcamp, Carcass of Sighs sarebbe "A lofi multi instrumentalist from the UK performing an exorcism of catharsis through distorted poetry and melancholic torment." Nei fatti, quello che si para davanti ai nostri occhi è un bislacco figuro in felpa e cappuccio dell'Adidas e due vistosi occhiali da sole con lenti nere e grossa montatura bianca. È da solo e munito di chitarra acustica, seduto sul classico panchetto, con un bicchiere di birra ai piedi ed alle spalle la strumentazione di chi verrà dopo (la presenza della batteria ci rincuora sul fatto che il set di Darkher sarà elettrico e non acustico). 
 
Al di là delle premesse poco promettenti, il Nostro se ne esce con una esibizione onesta, tre quarti d'ora di ballate, arpeggi ipnotici ed una voce roca da crooner consumato. Con quella stessa voce il Nostro si concede commenti per lo più divertenti impregnati di un amaro humour squisitamente british che mi ha ricordato 40 Watt Sun nella sua calata al Bush Hall (stesso mix fra note dolenti e sferzate di tetro sarcasmo - probabilmente è questa la matrice di fondo di molti oscuri cantautori inglesi). Aiutano gli azzeccati giochi di luce che immergono il set in un rosso infernale per poi virare talvolta verso un accecante giallo chiamato a conferire sfumature psichedeliche all'esibizione. "House of Bats", "Broken Lullaby" sono i brani che si fanno ricordare insieme alla conclusiva "Hung, Drawn and Quartered" con un finale robusto che monta a colpi di forti plettrate ed un crescendo vocale in cui il verso "drink the blood of Christ" viene ripetuto con inaspettata malvagità. Noi però non ci scomponiamo e andiamo a fare scorta di birre al bar. 
 
Il tempo di una breve pausa ed ecco che si spengono nuovamente le luci e si fanno largo, gentilmente, note soffuse e droni. Entra in scena Darkher... La cantante/chitarrista si fa supportare per l'occasione da un secondo chitarrista ed un batterista. Niente bassista e qualche linea di tastiera pregistrata ad ispessire il sound sognante dalla Nostra patrocinato. Il progetto Darkher ha già rapito i cuori degli amanti delle atmosfere "ombrose" con due ottimi album, "Realms" (2016) e "The Burial Storm" (2022), offrendo un suono in bilico fra doom, dark e folk, ed andando a rinforzare l'esercito di quelle eroine del nuovo "cantautorato noir" femminile che, da Chelsea Wolfe ad Anna Von Hausswolf passando per Lingua Ignota e la sua nuova incarnazione Reverend Kristin Michael Hayter, costituiscono oggi quasi un genere a parte, ma sempre più apprezzato da un pubblico trasversale che include anche i cultori del metallo come noi. 
 
I due album verranno stasera riproposti in maniera bilanciata, confermando la solida visione artistica della compositrice del Nord dell'Inghilterra: nella dimensione live Darkher diviene un coerente flusso sonoro che sa alternare momenti di quiete e dal grande pathos ad impetuosi crescendo dove la voce rimane sempre evocativa e ieratica. La veste elettrificata avvicina ulteriormente i brani all'estasi sonora della Chelsea Wolfe più doomy, influenza evidente anche su disco. Il fatto che la Nostra si presenti poche volte all'anno su un palco (di solito in cornici ben più suggestive, come chiostri, abbazie o chiese sconsacrate) spiega e giustifica qualche incertezza esecutiva e sbavatura nell'esibizione, che in più frangenti sembra prendere la piega dell'improvvisazione, anzi, della dilatazione
 
Ciò non toglie che i gioielli della produzione rilasciata a nome Darkher emergano in tutta la loro forza emotiva. Non sarà infatti difficile esaltarsi innanzi alla monumentalità di brani come "Foregone", irresistibile requiem in crescendo, "Moths", con i suoi riff apocalittici, e soprattutto in occasione della baldanzosa "Wars", aspra nei suoi toni marziali e forte di una coda che sa mettere insieme Burzum e Swans. Ma il momento più intenso di "Realms" rimarrà la commovente "Lament", animata da una linea vocale così bella da rendere bene sia come ballata folk dagli umori ancestrali che nella veste post rock noir di stasera. 
 
Nonostante le ridotte dimensioni del locale (o forse proprio per questo motivo) non si ha una chiara visuale su quello che accade sul palco. Le teste di quelli in prima fila sovrastano le sagome dei tre musicisti, che si muovono su un palchetto di pochi metri quadrati allo stesso livello del pubblico. Non dev'essere semplice per i musicisti concentrarsi mentre sono costantemente bersagliati dagli sguardi così ravvicinati del pubblico. Si capisce che Jayn, che di indole non sembra essere proprio una estroversa, cerca di isolarsi dal contesto esterno chinando la testa sul suo strumento o guardando in un punto immaginario oltre le teste o addirittura voltando le spalle al pubblico durante le lunghe escursioni strumentali. Dal punto di vista del sottoscritto, in terza fila e un po' defilato sulla destra (non si dimentichi la mia sempiterna attenzione ai temi dell'alcol durante i concerti e l'arguzia nell'individuare insospettabili corridoi che conducano agevolmente al bar), la sagoma della lunga e folta chioma riccia della cantante scompare e ricompare in una dimensione irreale di pura trasfigurazione onirica. 
 
Al rosso che aveva caratterizzato l'esibizione di Carcass of Sighs succede un blu onirico che dona perfettamente alle atmosfere intime e decadenti messe in scena. Le emozioni più grandi verranno dagli estratti dall'ultimo "The Burial Storm": "Love's Sudden Death" è un blues dolente che schiaccia i cuori con il suo passo desolato; "Immortals", ancora più forte ed incisiva che da disco, completa il set all'insegna di una vigorosa epicità che ancora oggi al pensiero mi commuove. Poco dopo il primo commiato della band dal palco, ecco che si ode il suono greve degli archi che aprono l'immancabile bis con "Lowly Weep", dieci minuti di pura emozione aperti da un'invocazione e chiusi da una potentissima coda di maestoso doom. 
 
Dopo un'ora e mezza circa termina un concerto che inseguivo da tre anni (grande amarezza seguì alla cancellazione della data, nel 2021, di spalla ai Me and That Man - progetto country-rock di Nergal dei Behemoth) e devo dire che le aspettative non sono andate affatto deluse. L'alcool e l'elettricità mi fanno pensare che questa musica non sia possibile senza Burzum. Mi riferisco alla "rivoluzione" burzumiana negli anni novanta, determinante ovviamente per le sorti di molto metal estremo successivo, ma anche capace di travalicarne i confini: il fatto di aver reso un genere pragmatico come il metal qualcosa di etereo, contemplativo e dai forti connotati spirituali, unito allo sguardo nostalgico verso un passato irrecuperabile, ha senz'altro sedotto giovani cantautori e sound-designer in questi tempi bui e privi di speranza. 
 
Tanto seria e profonda la concezione musicale di Jayn H Maiven che, mescolandosi la musicista nel pubblico a fine concerto, non me la son sentita di chiederle di posare con me in un vile selfie. Credendo di rispettare la vocazione ancestrale della sua musica, mi sono limitato a ringraziarla personalmente con un inchino e scendere giù le scalette del Black Hearts ubriaco e pieno di rimpianti, per poi mescolarmi in lacrime nelle vie  di una Camden traboccante di metallari, un po' per la vicinanza con il pub rock/metal The World' End, un po' perchè nel contiguo Underworld si erano appena esibiti i Soar (serata indubbiamente introspettiva a Camden!). 
 
L'estate non è finita, nè tantomeno è finita quel giorno, ma quel giorno nei nostri cuori è iniziato l'autunno delle umide ed umbratili brughiere della campagna inglese...

Summer ends
Winter's sword descends
Death's sweet embrace
Veils your face

She dreams
With a glorious scream
That will never end
That will never end

She whispers in the night
Of love and ancient rites
Nature heeds her call
Wakes to rise once more

She dreams
With a glorious scream
That will never end
That will never end

Summer comes again

(Sol Invictus, "Summer Ends")