Per voi orfani dei Warning...
Per noi orfani degli Anathema...
È assurdo che sia proprio io, sulle pagine di questo blog, a parlare per primo di Patrick Walker. A molti di voi questo nome non dirà molto, per introdurvelo basti dire che è stato cantante e chitarrista di una non popolarissima ma indubbiamente valida formazione doom inglese, quei Warning dall'Essex che fra alterne fortune e pause esistono da quasi trent'anni, con all'attivo un paio di album: "The Strenght to Dream" (1999) e "Watching from a Distance" (2006).
Non ho niente contro i Warning, semplicemente non mi piacciono. Li trovo monotoni, troppo lamentosi, se dovessi descriverli li tratteggerei come una sorta di My Dying Bride in bianco e nero, senza growl, senza tastiere, senza violino e senza particolare piglio melodico. Non saranno certo d'accordo con questa mia impietosa descrizione almeno due colleghi della redazione di Metal Mirror, che con 'sti Warning la menano da un po' di tempo, ma che, almeno fino ad oggi, non si sono degnati di scrivere una riga sulla band in questione. Mi auguro che a questo mio scritto segua prontamente una loro replica in difesa dei loro beniamini. Detto questo, non vi parlerò oggi dei Warning, ma dei 40 Watt Sun, progetto solista di Walker.
Mi scuso se ultimamente sono solito usare le pagine di questo blog come se fossero quelle del mio diario personale, ma mi interessava far capire ai nostri lettori come e in quanto poco tempo sono diventato ammiratore di Walker. Era il dicembre del 2023, non molto tempo fa, e dopo aver visto i miei amati Brutus ritenevo conclusa la stagione concertistica dell’annata in corso. Ma poi mi imbattei nel programma del Bush Hall, un piccolo locale vicino casa mia in cui non sono mai stato ma che da sempre mi incuriosisce per una programmazione live di nicchia, sebbene estranea ai circuiti a me più consoni del rock e del metal. Nello specifico, mi cade l'occhio sulla data di tali 40 Watt Sun, nome a me sconosciuto ma che attira subito la mia attenzione, complice una foto in bianco e nero ritraente un mesto figuro con barba e papalina in testa. Leggo la bio e realizzo che si tratta del nuovo progetto di Patrick Walker, leader dei (da me) bistrattati Warning, ma tanto basta per poter finalmente avere una scusa per far visita al tanto agognato Bush Hall. E quello che all'inizio si era delineato come un vago proposito è divenuto un imperativo categorico che ha preso corpo giorno dopo giorno grazie ai ripetuti ascolti degli album usciti a nome 40 Watt Sun (ad oggi tre in tutto).
Si può divenire fan sfegatati di un artista in una settimana? E’ esattamente quello che è successo al sottoscritto: avvicinatomi con circospezione alla musica della band, mi sono ritrovato con il groppo in gola, se non con la lacrima a solcare la guancia, investito dalla forza emotiva di determinati passaggi di brani che, ascolto dopo ascolto, hanno definitamente conquistato il mio cuore (complice anche la lettura dei - bellissimi - testi). Non credo che funzionerà così con tutti, anche perché la proposta di Walker rimane in un certo senso ostica, mantenendo un notevole grado di prolissità che addebitavo impietosamente anche ai Warning, e non mi stupirei se qualcuno trovasse i 40 Watt Sun semplicemente noiosi. Ma io forse, orfano degli Anathema, avevo bisogno di queste struggenti ballate per tornare ad emozionarmi come non succedeva da tempo.
Un amore che sarebbe poi destinato a crescere grazie all’esibizione dal vivo a cui a quel punto non potevo più rinunciare: una circostanza difficile da descrivere per chi non era presente e su cui non mi dilungherò. Basti dire che Walker si è presentato in solitaria ed armato della sola chitarra classica per imbastire un set interamente acustico in cui è emersa, più di ogni altra cosa, la capacità dell'artista nel saper creare un'intima e profonda connessione con i pochi fan accorsi: fra il magnetismo della sua musica (che anche ridotta all’osso mantiene la sua innegabile forza evocativa) e siparietti in cui l’ironia ed un impeccabile humour inglese andavano a stemperare i drammi messi in note, quello che ci siamo trovati sul piccolo palco è stato un artista autentico e genuino fino all’auto-denigramento. Ma se non posso descrivere le grandi emozioni vissute la sera del 19 dicembre 2023 al Bush Hall, posso comunque presentare la musica dei 40 Watt Sun a chi fosse interessato ad approfondirli.
Il progetto nasceva nel 2009 ad avrebbe debuttato discograficamente nel 2011 in un momento in cui la band madre sembrava essersi fermata (i Warning si sarebbero poi riformati nel 2016, ma sulla loro effettiva vitalità è lecito nutrire qualche dubbio in quanto i Nostri, sospesi e moribondi in uno stato a lungo vegetativo, non hanno più rilasciato materiale inedito). Il debutto targato 40 Watt Sun "The Inside Room" presentava una formazione vera e propria (con William Spong al basso e Christian Leicht alla batteria ad accompagnare Walker diviso fra voce e chitarra) ed un sound ancora assai metallico, articolato in lunghissimi brani che del doom ereditavano la lentezza esasperante ed il riffing ossessivo, ma che guardavano ad una maggiore ariosità che all'epoca avremmo potuto definire post-metal. Un prodotto che sarebbe potuto piacere a fan dei Jesu, degli Isis meno abrasivi, con la voce lamentevole di Walker sempre in primo piano ad introdurre carezzevoli scenari cantautoriali, tanto che qualcuno avrebbe definito i 40 Watt Sun come una sorta di Pearl Jam del doom, considerata la somiglianza in certi frangenti della voce di Walker a quella di Eddie Vedder (paragone ovviamente da prendere con le pinze).
Non nego che alla lunga la proposta possa stancare, in quanto la scrittura di Walker risulta ancora innervata di una certa pesantezza “doom”, e salvo qualche indubbio acuto (l’opener “Restless”, la bellissima “Carry Me Home” poi divenuto classico), arrivare freschi e pimpanti alla fine di questi 47 minuti (spartiti fra sole cinque – lunghe – tracce) non è da dare per scontato.
La svolta si avrebbe avuta con il successivo "Wider than the Sky" (2016), ancora elettrico e sorretto dalla medesima line-up, ma più vicino ad un disco di cantautorato che ad uno metal. Chiamatelo slowcore, chiamatelo sadcore, fatto sta che l’estro di Walker continua a muoversi lungo i binari di ballate-fiume (sei a questo giro, per più di un’ora di durata complessiva) che scorrono quiete per poi, di norma, incresparsi nel finale. Che le emozioni si abbiano nelle strofe finali dei brani diverrà un po’ uno schema tipico della scrittura di Walker, che preferirà muoversi ai margini del classico formato canzone per affrontare uno story-telling pregno di pathos, musicalmente molto rigoroso e tendente al minimale, ma capace di elevarsi e regalare forti brividi lungo la schiena dell’ascoltatore più disposto a farsi cullare dal mood malinconico che queste ballate inseguono ostinatamente.
La musica dei 40 Watt Sun si fa qui più che mai paesaggistica, un landscape sonoro per sofferti e commoventi flussi di coscienza, ideale commistione fra la vibrante emotività di Neil Young e il romanticismo esasperato degli Anathema: disperazione e disillusione, impietosa auto-analisi e voglia di redenzione si fronteggiano in ballate che potremmo definire d'amore in cui Walker si mette totalmente a nudo e trasfigura le sua interiorità martoriata in immagini vivide e dalla forte pregnanza emotiva. Sfido chiunque, nella giusta predisposizione d'animo, a non emozionarsi ascoltando brani come “Stages” (sedici minuti di autentica devastazione emotiva), “Another Room” o “Craven Road”.
"I have made an end; take me home again
And I'll leave my shoes at your door.
Show me another room, somewhere
I can call my own;
And though you have built a wall around you,
I am standing on the inside.
I am standing on the inside
I am standing on the inside, on the inside"
Si farà ancora meglio con il successivo “Perfect Light” (2022) che vede accreditato il solo Walker circondato da uno stuolo di collaboratori esterni i cui contributi saranno dettagli o poco più (echi di violino, voci femminili, mandolino, piano, basso, batteria ecc.) ma fondamentali nell’impreziosire con sfumature e nuove tonalità di colore lo scarno cantautorato di Walker, oramai a suo agio nella dimensione acustica. Come al solito la proposta non è semplice ed immediata, i brani rimangono lunghi (otto per quasi settanta minuti di durata) e privi di grandi variazioni. Essi si trascinano avanti con indole sconsolata per poi infiammarsi nel finale, come accaduto in passato e come accade in modo magistrale nelle stupende “Reveal” ed “Until”, quest'ultima il mio brano preferito in assoluto del canzoniere di Walker.
La prima parte pacata, ipnotica, stentorea, ti tiene in pugno per molti minuti per poi librarsi in un finale da pelle d’oca in cui Walker ripete “Oh, Ophelia, I’m strong enough to lift you up.”: un’immagine che personalmente vedo potentissima (il gesto salvifico di sollevare dal fiume il corpo di Ofelia - fino a prova contraria una donna che si è annegata - è una di quelle cose che mi fa singhiozzare come un bambino). Per non parlare del finale di “Until”, che certo farà la gioia dei fan degli Anathema (il cui futuro è più incerto che mai a seguito dei problemi di salute del maggiore compositore Daniel Cavanagh). Si parla di un'altra ballata dai toni sospesi e lacrimevoli ma che quando meno te lo aspetti impenna regalandoti uno struggente crescendo che sembra uscire dalla gola affranta di Vincent Cavanagh. Anche qui fatemi riportare le esatte parole che, beninteso, andrebbero apprezzate ascoltando il brano:
“Let life lift me over the dark of my design
and fold me in your perfect light,
where I’ll find a closure,
and questions I confined, a freedom
that I went the wrong ways to feel.
Show me all I ever translated in to pain
that, knowing, I might see better with – and I will.
You’ll hold me together
wholly in your arms,
and know how much I need you then;
and until."
Tutto l’album si muove ad altissimi livelli, con brani tanto semplici quanto emozionanti come “Behind My Eyes” o autentiche calate di “doom acustico” come “Raise Me Up”, marcia funebre funestata da arpeggi sconsolati, bacchette spossate ed un canto che sembra recuperare certe inflessioni teatrali in stile Aaron Staintorpe dei tempi dei Warning. Fino alla consueta apertura nel finale, ove la tensione trattenuta fino a quel momento si stempera nell'ennesima struggente confessione:
“And maybe I’m an island, but make me like the sea,
to pour across your shores and borders
before it covers me.
I will cover up the scars for you,
and the dead parts of the past for you;
uncover your eyes for you to see
that no one has loved you this way;
nobody will love you this way;
and though I know you feel it,
I need you more to know.
Am I strong enough to carry this?
or too weak to let it go?"
Walker rimane doom dentro, ma ciò non ci impedisce di riconoscergli nella sua avventura solista inaspettate doti cantautoriali. Se interpreto bene il senso del monicker, un sole di soli 40 watt è un sole pallido, impotente, incapace di riscaldare, specchio di quella sensazione di spossatezza esistenziale che ispira la musica di Walker che dai tempi dei Warning, con più coerenza e continuità di quanto si possa sospettare, trasla un animo decadente, romantico, inequivocabilmente "doom" nella desolazione di scheletriche ballate folk, infinite nel loro languore, scosse da dubbi, fremiti e sussulti, talvolta rischiarate da un'opaca speranza...
Ballate oscure avvolte in una luce perfetta...