15 set 2024

VIAGGIO NEL METAL RURALE_VI - GLI ULTRAS DELLA RURALITA': AUTARCIE

 


Ci siamo abituati alla campagna come luogo di malinconia, forse per i “pezzi grossi” Sale Freux. Abbiamo intravisto campagne più malate, malsane; però è ora di tornare alla centralità della campagna “campagna”, e alla doppia faccia della terra, che può donare o affamare.

Alla base di una delle più note fiabe per bambini (anzi, almeno due) c'è la carestia. I genitori di Hansel e Gretel pensarono di abbandonare i bambini, lasciando loro cibo per un giorno, perché incapaci di sfamarli. Analoga sorte alla base della novella di Pollicino, o Tredicino, che dir si voglia.

Colpa della carestia. In campagna si può rimanere senza cibo, senza acqua, e le distanze possono essere tali che, per gente senza mezzi e riserve di cibo, ciò significa morire di fame, di stenti.

Ci sono, nelle campagne, delicati equilibri, legati al clima, alle “zoonosi” (malattie che decimano gli animali d'allevamento), devastazioni legate alle guerre.

Ma la salvezza della campagna non va cercata nell'urbanizzazione. Non sarà la città a salvare le campagne dalla fame. La campagna vive negli equilibri delicati dell'autarchia (produce per sé e consuma ciò che produce, ma col polso vicino a ciò che succede sulla sua area). La città produce, ma è il prototipo di sistema non auto-sufficiente, che ha sempre bisogno di una campagna da cui trarre cibo e acqua. A Siena, città famosa per il Palio, vi è una famosa banca e ricca nota come “Monte dei Paschi”, a indicare come la ricchezza di un territorio, specie lontano dal mare, fosse legata alla sua ricchezza agro-pastorale.

Gli Autarcie scelgono questo nome per rappresentare la vita “in bilico” della campagna, dove si rimane vicino alle radici, per essere i primi a trarne beneficio e a vederne le malattie. La vita in prima linea si svolge nelle campagne (questo già i Sale Freux lo cantavano). La copertina dello split “Ultra-rural” (2014) con i Baise Ma Hache mostra una versione rurale della copertina di "Hvis Lyset Tar Oss"di Burzum. Un viandante-contadino disteso sulla terra, dormiente, in un paesaggio campestre (anziché boschivo come il vecchio viandante decomposto sul sentiero disegnato da Kittelsen per i Burzum). Ma il viandante in questione non credo sia lo stesso che intendeva Burzum...

Sonno ghiacciato, vecchio amico delle sventure,
compagno silenzioso delle amare disgrazie,
è una delle tre dimore,
dove dimorano i solitari.
Gli altri due sono l'onanismo e il vagabondaggio del viandante.
Questi tre sono fratelli e compagni.

Autosufficienti per essenza,
sono l'ultimo mondo di coloro che non ne hanno altro.
La degenerazione
è l'unica prospettiva in cui sguazzano.

L'onanista è solo ma re,
In un universo indeterminato.
Intorno a lui le immagini turbinano,
Come una corte impaziente.
Momenti di vita, intrappolati tra la follia e il nulla,
Non ancora del tutto morti, non per molto.

“Sembra, senza fretta né tregua,
inseguire un sogno impossibile,
sempre, sempre, finché sta morendo.
(E morì, infatti,
Un giorno spietato di neve e di gelo.)
Poi, sul ciglio della strada,
Muore, senza che nessuno gli stringesse la mano,
Questo affamato di domani..."


(Jean Richepin, La canzone dei Mendicanti).

Gli Autarcie ci presentano inizialmente la loro terra, con la denominazione antica ("Sequania", 2018), Francia orientale accanto alla Svizzera. Propongono la contrapposizione aspra con la città, e riconducono all'urbanizzazione, o comunque al trionfo della cultura cittadina (borghese) il marcire dell'identità nazionale. Ironicamente la ruralità è indicata come luogo di sporcizia e di fango, di letame e di decomposizione nell'indifferenza dei luoghi dove altri hanno deciso che la storia si debba svolgere. La musica accompagna queste visioni: sporca, fangosa, a tratti interrotta da pozzanghere e acquitrini. Talora più marziale e meditativa, altre volte più battente. Ronzante, poco incline all'eufonia, ruvida ma diretta in maniera chiara su un binario, come gli apparenti voli caotici delle api o delle zanzare.

Ritorno alla sporcizia 

Sì, è l'immersione forzata nelle masse

Non per piacere ma piuttosto per minaccia

Mi fa venire la nausea trovare la popolazione
Tutto questo arredamento mi fa venire la nausea

Ho lasciato la mia roccaforte dell'Haut-Doubs
Per ritrovarmi nella merda fino alle ginocchia
Addio verde pianure e campi
Addio pesca, bivacchi e fuochi da bivacco
Ciao sudori freddi e ansia
È un fottuto ritorno per me...

Ritorno alla sporcizia!
Mi sento come se fossi arrivato in una discarica
In questo caos continuo a trascinare le scarpe
Ho preso due o tre Grafenwalder nella borsa
Per dimenticare che sono finito in un vicolo cieco

Di nuovo nella sporcizia!
Ritorno in un mondo in cui non ho più il mio posto
Non ricordo più quanto sia disgustoso tutto
Intrappolato come un topo in fondo a un crepaccio
Non potrò mai riacquistare la superficie

Ritorno alla sporcizia ("Retour to crasse", 2015)

I patrioti, i figli della terra preferiscono morire nella terra e nella sua imposta aridità e sterilità fangosa, piuttosto che accondiscendere alla rigogliosità surrettizia e amorfa della città. Se la campagna è condannata alla carestia, l'eroe fa ritorno alla campagna in carestia per essere divorato dalla fame e dagli insetti, nascosto in una tana umida. In “Millepiedi” egli si trasforma nella materia viscida del millepiedi soltanto per quell'intervallo di vita residua che sarà poi seguita dalla morte, in altri esseri faranno le uova nella materia in decomposizione.

A livello delle montagne, altipiani scoscesi

Nella cavità di pianure ventose e deserte

Si conduce una vita aspra e isolata
Nelle mani dei nostri vecchi dal volto irregolare

Rappresento a modo mio
La Francia dei fienili e delle tane
Queste tane perdute la notte
In fondo ai pettini, alle valli addormentate

La mia Francia d'aratura, di liquame e di fango
Con climi incerti, con paesaggi offuscati
Queste linee d'orizzonte che ti tengono sotto tiro
Offrono poca pace alla tua curva ferita

Io rappresento sulla mia strada
La Francia di paludi e torbiere
L'incarnazione della sordida campagna
In fondo agli abissi e alle fetide paludi

Substrati dell'antica Francia
Dimenticate nel silenzio
Resti di tempi antichi
Ultime stigmate di un lontano passato

Nell'indifferenza generalizzata dei popoli sottomessi
Distruggono la nostra terra, la nostra cultura e la nostra patria
Schiavizzano ferocemente gli ultimi nuclei di resistenza
Il mondo rurale scompare affinché la nostra vecchia Francia muoia

Perché regni una gioventù senza memoria né passato
Sradicata, globalizzata, dimentica dei valori di un tempo
C' è l'anima di La Francia messa al rogo
L'incendio avviene tra gioie e applausi

Noi siamo i farabutti, i contadini
Peggio dei redneck texani
La nostra fede risiede nei nostri campi
Duro lavoro e valori di una volta

Il fango attaccato alle suole delle mie scarpe
È tanto più nobile del tuo schifoso cemento
Non provare a rubare le patate dal mio orto
Altrimenti ti faccio esplodere in faccia col sale grosso!

(La Francia del fango)

La campagna è ostile. Nel già citato film “I guerrieri della palude silenziosa” , il Cajun dice ai forestieri non graditi: “i miei amici non sono gentili neanche con me”, per far capir loro che non è questione di cercare di essere ospitali, ma che l'inospitale è il principio guida della vita agreste. Nel film, il Cajun dal braccio mutilato deve sudare il doppio per dare agli amici una buona ragione per non lasciarlo indietro o linciarlo. Altro che pietà, lo spirito del branco è la crudeltà interna applicata anche all'esterno, quando occorre.

Da noi non c'è spazio per l'eccentrico

La nostra quotidianità è guerra
Carica il fucile, mettiti l'elmetto
O finirai con la faccia a terra...

Le nostre foreste profonde e selvagge
il cui sole fatica a bucare il folto fogliame
Le nostre valli con rupi austere, ai ripidi burroni
Dove la terra scompare alla curva di un sentiero
I nostri boschi misteriosi e oscuri
Le nostre colline silenziose erette dal tempo
Sulle rovine dimenticate di antichi mondi cancellati
Le vette immutabili dei nostri monti
Tanto maestose quanto ostili, qualunque sia la stagione
Le nostre pianure e i nostri campi verdi
Dove la vita e la morte perpetuano il loro ciclo, instancabilmente...

(Non gradito)

Sì, perché la ruralità non è – negli Autarcie – apologia della campagna. E' semplicemente una postazione autentica per avere della vita una visione credibile, da cui discende una consapevolezza e un'identità non ricattabile. Chi affonda i piedi nel liquame più sordido e nel secco più decrepito non ha bisogno di perversioni o di spiegazioni.

La carestia della nostra Borgogna in questo 1638:
Le strade erano lastricate di gente affamata e debole,
stremata e morente.
Le carogne degli animali morti erano una prelibatezza ricercata.

Cani e gatti erano pezzi d'eccezione,
si tirava avanti con i ratti.
Ma non è una tavola che può restare apparecchiata a lungo...
Io stesso ho visto persone ben coperte
portare per le strade topi morti,
gettarli attraverso le finestre delle case
e nasconderli per mangiarseli.

Alla fine siamo arrivati ​alla carne umana.
Prima nell'esercito,
dove i soldati uccisi servivano
da pascolo ad altri che tagliavano
le parti più carnose dei cadaveri,
da bollire o arrostire.
Sciamavano affamati fuori dell'accampamento a beccare
carne umana.

Nei villaggi, le madri scoprivano sorprese di poter uccidere i loro bambini
per proteggersi dalla morte.
E fratelli sui fratelli.
Il volto delle città era il volto della morte,
i posteri non ci crederanno.

Secondo G. de Nozeroy (1843)

Insomma gli Autarcie ci offrono una campagna che non è il bene contro il male (della città, della modernità). Semplicemente, è un male autarchico. Il male è mio e lo gestisco io. La vita delle città altro non è che lo stesso squallore incanalato per scopi non controllabili, non limpidi e non espliciti. La vita nelle città è descritta come un paesaggio postatomico, una società di zombi. La terra d'origine è trasfigurata come una prigione, preferibile comunque ad una libertà fasulla. E i ribelli campagnoli sono un “Gruppuscolo” (titolo di uno dei full lenght, "Groupuscule", 2013) identificabile o con una banda di disadattati cittadini, o come una minoranza sediziosa. Diamo per scontata la prospettiva pessimistica, politica e storica. L'autarchia è patrimonio del passato, o di isole felici che sopravvivono prima che intervenga la società, quella che consapevolmente vuole organizzare le vite degli uomini per controllarle. La città è il simbolo di questa deriva, e la sua direzione prevalente, ma in realtà si parla di una tendenza culturale contro il localismo, per la globalizzazione e contro ogni elemento di identità culturale che non sia vendibile su larga scala.

Peraltro, parte della produzione degli Autarcie tratta della loro visione politica ed esistenziale, con conclusioni parallele a quelle dei Sale Freux (finirà tutto in merda) ma già dall'inizio con una visione più cruda e meno romantica. Non esiste un giusto da recuperare, soltanto un “autentico” autoreferenziale, che per ciascuno è il suo, in un mondo medievale, povero, dove se ci si sposta è spesso per depredare. E va bene così. Dove si ama la stessa terra che ti affama, e l'unica soddisfazione che la vita può farti ottenere è essere mangiato dai vermi della tua terra, magari per un colpo di spada del tuo nemico, o per l'infezione presa dai tuoi acquitrini, o semplicemente perché è arrivato il tuo tempo.

La morale che unisce politica, storia e implica, senza nominarla, la ruralità, è questo inno all'opposizione totale, continua, anonima. Eppure solidale, non solitaria, riferita ad un fantomatico “gruppuscolo” di umani resistenti al resto del mondo, o forse all'umanità.

Come abbiamo già visto, il rurale non è la lotta contro il ricco proprietario o l'industriale in sé, perché spesso il mondo contadino si arrocca intorno ai suoi latifondi e ai suoi signorotti, ingranaggi di un unico organismo. Castello e contado non sono nemici, finché capiscono di avere l'uno bisogno dell'altro (vedi episodio precedente sulla Vandea). Anzi, in epoca moderna il piccolo proprietario contadino, il padrone del podere per intenderci, è diventato il nemico numero uno delle ideologie socialista, che si proponevano di difendere i proletari. Oggi mi vedevo un documentario sul “socialismo scientifico” della Romania di Ceausescu. Il dittatore, entusiasta del progresso industriale, fantasticò di una corsa all'industrializzazione e ingaggiò ditte estere per costruire stabilimenti in Romania. Per pagare i debiti e divenire indipendente, svalutò l'economia interna, ma a questo aggiunse un colpo di genio: cioè spinse alla migrazione nelle aree urbane per ottenere manodopera operaia. Per sfamare sfamare la popolazione così concentrata ricorse a importazione dall'estero, dato il crollo della produzione interna, in una spirale demenziale. In altre parole, egli tagliò le gambe all'unico settore che poteva essere autarchico, contando di produrre tanta e tale ricchezza con i camini delle industrie da potersi pagare tutto il cibo del mondo.

La campagna autarchica quindi non è difesa dai soprusi dei nobili, ma in primo luogo espressione di un'anarchia solidale, quando ogni forma di società (specialmente quelle che dicono di fare il bene dei contadini) sono i primi e più spietati nemici.

I nostri ostili bastioni di pietra resistono ancora
al subdolo invasore,
che minaccia il nostro dominio e brama i nostri tesori,
ma noi non ci arrenderemo.

Cittadella, nostro ultimo bastione,
ultimo contrafforte,
nella morte, la nostra vittoria,
sarà ancora più grande.

Ancora una volta, il nostro dominio è in guerra,
diamo l'allarme!
I piedi sporchi del nemico calpestano la nostra terra,
estraiamo le nostre armi!

Fortificazione, simbolo di tempi di gloria,
Sentinella rocciosa che veglia sul nostro territorio,
Cittadella inespugnabile dagli austeri bastioni,
Sulle tue pietre sgorgherà il sangue dei nostri nemici.

Respingiamo l'attaccante dal deserto,
Questa battaglia sarà senza dubbio l'ultima,
Ma nella nostra cittadella siamo invulnerabili,
Sulle nostre mura si infrangono i loro miserabili assalti.

Per il nostro passato, la nostra memoria,
Per la nostra cultura, la nostra storia,
Di cui siamo i guardiani,
Morte a coloro che si frappongono sulla nostra strada.

Elimineremo i vostri ghetti
con il gas mostarda,
semineremo lì il caos
con pesanti colpi di lanciagranate.
E anche se il nostro popolo è già perduto,
anche nella morte, la lotta continua.

Per il nostro passato, la nostra memoria,
Per la nostra cultura, la nostra storia,
Di cui siamo i guardiani,
Morte a coloro che si frappongono sulla nostra strada.

Le vostre verruche urbane, crogioli infami,
le daremo fuoco.
Il tuo mondo scomparirà tra le fiamme
il cui splendore brillerà nei nostri occhi.

Ti guarderemo morire
e urleremo dalle risate!

(Cittadella)

Questa idea della campagna come cittadella di difesa, valida anche per la città, va però intesa in questo caso come rivendicazione dell'autarchia del primo settore, cioè quello agricolo. Un primo settore che è stato, nella storia, sacrificato sia per fare da bacino di nutrimento per l'industria (e poi il terziario), sia mortificato per favorire lo sviluppo di settori agricoli di altre aree (nel mondo globalizzato in cui ciascuna area ha una sua “quota”). Un mondo agricolo che però, quando si tratta di assorbire gli urti della Storia e della Natura, non può chiedere aiuto a nessuno, e deve funzionare appunto in maniera autarchica, non per scelta ma per obbligo. Nascendo proprio così, per autarchia, la rivendicazione della ruralità è anche rivendicazione di quest'autarchia innata.

Al di là quindi di ogni altra considerazione, questa “brutalità della ruralità” degli Autarcie ha un significato storico ed economico innegabile, e non è soltanto un pretesto per un nuovo nazionalismo identitario. Se gli si deve dare una dimensione centrale, direi quella esistenziale: il lavoro organizzato, il mondo finalizzato come “malattia”, e la campagna come ritorno alla serenità nichilistica di chi lavora per vivere, vive per godere, e se teme di morire, almeno non teme di vivere come l'uomo illuminato. 

Va bene, mi sto allontanando dalla folla,
sono sull'orlo della nevrosi...
Stufo della sporcizia, della plebe,
è un'overdose...
Sudore freddo, sono come un drogato,
io ho bisogno della mia dose di ampi spazi aperti.
Ritorna in patria,
lascia le città disgustose...
devo scappare!
Come un galeotto in fuga,
È la scappatella,
Ritorno alla roccaforte patriarcale...

Giunto al nostro dominio ancestrale,
Nel cuore dell'antico fienile di famiglia,
Finalmente, Mi sento di nuovo vivo,
E subito mi ubriaco,
Di questo fresco vento, di quest'aria pura,
esaltante come una droga pesante.
Finalmente la tanto sospirata tregua,
Pace e libertà,
Lontano dalla mia sporca quotidianità,
Con il peso sempre più pesante,
Del mio destino calamitoso,
Scandito dal day-hospital.
Finalmente nella foresta…


("Ultra-rural")

A cura del Dottore

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