26 ott 2024

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: SELVHAT

Trentaseiesima puntata: Selvhat - "Jgennom Moerket Famlende" (2008) 

Si è visto che la Norvegia è stata la culla del depressive black metal. Realtà come Burzum, Forgotten Woods, Manes e Strid sono stati determinanti affinché il filone attecchisse e potesse acquisire una sua autonomia (quella che, più volte, abbiamo definito come la deviazione dalla strada maestra). Il verbo del depressive, soprattutto a partire dagli anni zero, sarebbe poi proliferato un po' ovunque e la Norvegia, paradossalmente, sarebbe uscita dai radar per quanto riguarda questo sotto-genere. 

Pone in parte un rimedio il progetto Selvhat, chiamato a tenere alta la bandiera della Norvegia anche in ambito depressive. Non vi preoccupate se non ne avete mai sentito parlare, i Selvhat hanno dato alla luce solo un full-lenght e questo è uscito originariamente in cassetta per poi essere ristampato un paio di volte su vinile, mi immagino non in grandi tirature. Questo il motivo per cui il vostro negoziante di fiducia non ve lo ha proposto nel 2008, quando è stato realizzato. L'utilità della rete si palesa proprio in questi casi: quando ti permette di riscoprire gioielli altrimenti irrecuperabili come questo... 

I Selvhat sono stati una faccenda privata di tale Steingrim Torson. Parlo al passato perché il progetto è stato attivo per una manciata di anni, dal 2004 al 2009: un'esperienza che si è bruscamente interrotta la notte del 30 aprile del 2009 con la morte di Torson. No, non un suicidio, come probabilmente starete pensando, ma un colpo di pistola ricevuto accidentalmente. Nell'arco di quegli anni, con il monicker Selvhat sono stati rilasciati anche cinque demo, due EP e due compilation, testimonianza di una prolificità che vedeva Torson stesso attivo anche in altre formazioni. Gli sarà di scarsa consolazione saperlo, ma il Nostro lascia in eredità un piccolo capolavoro che ci sembrava doveroso inserire nella nostra rassegna. 

Il dipinto in bianco e nero ( un tetro paesaggio innevato con tanto di chiesa, albero spoglio ed uccellacci del malaugurio) scelto per la copertina evoca i desolanti quadri di Theodor Kittelsen, pittore che abbiamo già conosciuto attraverso gli album di Burzum. L'indizio è chiaro: siamo in procinto di percorrere una via desolata ove a materializzarsi innanzi al nostro cammino sarà un black metal cupo, introspettivo, lontano dalle esagerazioni e dalle ostentazioni della corrente suicidal. Il titolo, rigorosamente in norvegese, significa "Brancolando nel buio" e va ad anticipare le ambientazioni notturne in cui è calato questo black metal che guarda in primis al Burzum di "Filosofem". 

"Jgennom Moerket Famlende", per capirci, è uno di quegli album che ascolti strizzando gli occhi, impegnato a capire quello che sta succedendo: la produzione infatti è una delle più confuse che orecchio umano abbia mai udito, cosa credo voluta perché nel 2008 anche il cane sapeva fare di meglio. Ma come sempre capita in questi casi, la bassa fedeltà è elemento integrante della pietanza, al pari della scrittura. Siamo infatti nell'ambito della pura suggestione e questi sono album che bisogna subire senza farsi tante domande. 

A renderlo magico è la capacità del polistrumentista (Torson si fa carico di voce, chitarra e basso, mentre la batteria è affidata al collaboratore esterno Azazil) di creare scenari di grande afflizione sonora con pochissimi elementi. Il sound, comprensibilmente, è minimale da manuale (scusate la rima) e si regge principalmente sul riffing ispirato della chitarra, considerato che il basso è inudibile (of course...), la voce un gracidio in lontananza e la batteria armeggia molto, molto in secondo piano. Apprezzabile comunque il lavoro dietro alle pelli del buon Azazil: un lavoro misurato e che certo non cerca protagonismi, ma in un contesto così il valore aggiunto dato da un batterista in carne ed ossa si sente, laddove una drum-machine, che pure ci poteva stare, avrebbe appiattito il tutto. Perché "Jgennom Moerket Famlende" è un album dagli equilibri fragili che gioca perennemente sul filo del rasoio sfidando la pazienza dell’ascoltatore: un album sempre pronto ad esondare nel frastuono o nella noia, ma che si salva sempre in corner grazie al tempismo con cui poche ma efficaci variazioni sono centellinate. 

I brani son cinque e le durate non scherzano, arrivando nel complesso ai tre quarti d'ora, che non è poco per un album che sulla carta non ha molto da offrire. La title-track apre le danze all'insegna di un riff contagioso che si protrae per un minuto e mezzo di pura desolante elettricità. Con l’avvento della batteria il brano sembra voler ricalcare le orme di una “Jesu Død” di burzumiana memoria, ma qui la tensione è misurata dal potenziale inesploso del brano. Lo sferragliare ossessivo della chitarra abbinato al battito da fabbro della batteria mi ha ricordato i primi Stooges, quelli di “I Wanna Be Your Dog”, ma sapete che a me piace sparare cazzate. Il paragone (sicuramente improprio) mi serve tuttavia per descrivere le vibrazioni del brano, anzi dell’opera intera, pregna di una urgenza comunicativa palpitante che a tratti sembra trascendere il metal per fare ritorno ad una forma primordiale di musica estrema. 

Si sente che siamo in Norvegia, i riff sono gelidi e a tratti conservano un che di epico, restituendoci la sensazione di camminare faticosamente in una tormenta di neve. Ovviamente in questo caso non si tratta di vera neve, come potrebbe valere nel caso di Immortal o Taake, ma dei patimenti interiori che Torson ha saputo riversare in musica. Ed anche se non possiamo disporre dei testi, di certo la traduzione dei titoli è eloquente nel descrivere gli umori che attraversano i diversi brani: “Brancolando nel buio”, “Prigioniero per l’eternità”, “Ansia ed odio per se stessi”, “Odio per se stessi - una vita rovinata”, “Il potere dell’oscurità - Il potere del dolore”.  Non ci sono cali di tensione nonostante accadano veramente poche cose e i brani siano di durata alquanto estesa: l’ispirazione melodica e qualche azzeccato (nonché vitale) cambio di tempo bastano infatti per farci piacere l’opera. E vi dirò, persino a farci commuovere in qualche frangente...

Come quando al sesto minuto della già citata opener la batteria si ferma per lasciare spazio alle emozioni di uno struggente tema melodico. O quando un arpeggio desolatissimo subentra nella seconda metà di “Fange Til Evig Tid”. Persino la strumentale “Angst og Selvorakt” non delude, ergendo un baccanale elettrico di imponenza quasi rituale. Il tour de force esistenziale che si trascina stancamente per 17 minuti con l’accoppiata finale “Selvhat - et Liv til Grunne” e “Moerkets Kraft - Smertens Makt” (quasi da intendere come una unica composizione) conduce ad un finale da brividi, dove un riff di grande intensità gira per minuti accompagnato da un drumming pieno di pathos. 

Al termine del tutto (e non si sarà trattato di una esperienza sempre piacevole!) ti viene stranamente voglia di riascoltare l’album: "Jgennom Moerket Famlende" lascia nonostante tutto un buon retrogusto, imponendosi come un'opera tanto magnetica quanto inafferrabile. E forse proprio questo è il suo segreto. Fatevi avanti, dunque, e non esitate a dischiudere questo magico scrigno..


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