"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

5 ago 2019

CINQUANT'ANNI DI STOOGES



Il 5 agosto del 1969, esattamente cinquant’anni fa, usciva “The Stooges”. Partorito nel degrado urbano della "ridente cittadina" di Detroit, l'esordio discografico della compagine capitanata da Iggy Pop esprimeva un disagio inedito per il periodo, un messaggio che andava in netta controtendenza rispetto alla stagione del ‘68: quella delle utopie e della contestazione, sociale e politica. Ma gli Stooges non nacquero dal nulla: essi si cibarono delle ossessioni e dei suoni ruvidi dei primi Velvet Underground (a produrre l'album troviamo non a caso John Cale), decisero di abbracciare l’oscurità dei Doors (altro fondamentale punto di riferimento - lampante fin dalla copertina che ricalca palesemente quella del debutto di Jim Morrison e soci). Il nichilismo degli Stooges, la loro rabbia avrebbero anticipato di quasi un decennio il movimento punk. 

Non staremo tuttavia a decantare ancora una volta i meriti storici ed artistici degli Stooges: se vi interessa l’argomento vi sono a vostra disposizione milioni di scritti in rete. La nostra semmai sarà la celebrazione di un concetto a noi caro, ossia l’Estremo. L'Estremo si è manifestato innumerevoli volte nel corso della storia del rock, ma più affondiamo lo sguardo nel passato e più la questione si fa interessante: per il cultore del metal, in particolare, questo percorso a ritroso fornisce nuove ed utili chiavi di lettura per comprendere ancora meglio la genesi del proprio genere preferito. 

Partiamo dal presupposto che gli Stooges non sono il tipico nome che l’artista heavy metal cita fra le proprie influenze. Gli Slayer inserirono in “Indisputed Attitude” una cover di “I Wanna Be Your Dog” (ribattezzata “I'm Gonna Be Your God”, con ovvio stravolgimento lirico in ottica slayeriana), ma questo esempio (l’unico che su due piedi ci viene in mente) costituisce senz’altro un’eccezione. 

Il metallaro in generale non ama, anzi, non conosce gli Stooges, che per sonorità ricollega più che altro all’universo punk, di cui furono indubbiamente dei precursori. Ed anche se è stra-noto che punk e hardcore abbiano costituito un fattore determinante nella modellazione dello speed e del thrash metal (ma volendo anche del metal classico), sono altri gli artisti punk/hardcore a cui il mondo del metal ha guardato con interesse: Ramones, Misfits, Minor Threat, Exploited, Dead Kennedys, Black Flag, Discharge sono i nomi citati più di frequente. 

Nel calderone vanno inseriti necessariamente i Motorhead, che in verità rappresentano un caso a parte. Lo spirito più marcatamente rock’n’roll, la non centralità dei temi sociali nelle liriche e l’iconica figura di Lemmy (capelli lunghi e chiodo d’ordinanza, stivali da cowboy e motocicletta) esercitarono un forte magnetismo nelle metal band dei primi anni ottanta. La velocità, l’utilizzo della doppia-cassa, la voce gutturale (anticipazione del growl), l’impetuosità che dava ai brani una connotazione epica, se non addirittura una tensione bellica (acuita dai riferimenti storici nei testi): ci sono mille motivi per far sì che i Motorhead divenissero fondamentali per l’heavy metal. 

A rendere più di ogni altra cosa simpatici Lemmy e soci ai metallari dell'epoca, tuttavia, sono state l’attitudine virile ed una visione della vita positivista: ricordiamo il motto “Born to lose, live to win”, esattamente agli antipodi del nichilismo incarnato dalle coeve band punk britanniche. Se dunque Lemmy nasceva per perdere ma viveva per vincere, gli Stooges non si divertivano affatto (cantavano “No Fun”, edificando quello che poi sarebbe divenuto l’inno nichilista per eccellenza di una generazione di ragazzi allo sbando che viveva nell’apatia e nell’assenza di speranza, sogni, progetti). 

Tornando dunque agli Stooges, avendo in testa i Motorhead, sono due le considerazioni che ci saltano alla mente. La prima (semplice, obiettiva, un dato di fatto) è che gli Stooges vennero quasi dieci anni prima dei Motorhead (cosa non da poco, nel nostro percorso a ritroso verso le radici dell'Estremo). Quello degli Stooges era garage rock e solo con lo scoppio del movimento punk, nella seconda metà degli anni settanta, sarebbe stati etichettato come proto-punk. 

Eppure, se prendete un brano come “I Wanna Be Your Dog”, vi renderete conto che, nella sua carica sovversiva e deragliante, è già punk! Anno 1969, signori, mentre sulla west coast imperversavano ancora gli ultimi rigurgiti della psichedelia fanciullesca dell'ondata di band Flower Power: una musica che, a guardarla adesso, ci sembra vecchia di secoli rispetto alla modernità espressa da Iggy Pop e soci. Lo loro musica è punk perché i gruppi punk riprenderanno pari pari quei tre-accordi-tre schiaffati in faccia senza riguardi per l’ascoltatore, quei ritmi martellanti, quei suoni sferraglianti, quella voce sgraziata che secerneva una visione impietosa della realtà. Nel 1969 quella baraonda di suoni era quanto di più tremendo e perverso si potesse verificare su un palco. 

A proposito di palco. Prendete Iggy Pop, non tanto la sua voce, ma le sue gesta. Egli ha incarnato l’autodistruzione fatta persona: si gettava dal palco (si dice sia stato l’inventore dello stage-diving), rimaneva parte del concerto a cantare fra gli spintoni e i fendenti del pubblico; si procurava ferite sulle braccia e sul corpo, in un evento specifico si cosparse persino di burro di arachidi per rendere ancora più distruttiva la sua calata nella bolgia infernale della folla, altrettanto carica di rabbia ed insoddisfazione. 

Se, pensando a queste pratiche di auto-flagellazione, vi è venuto in mente la figura di Dead dei Mayhem, siete pronti per la seconda nostra considerazione. Ossia: se i Motorhead con il loro vigoroso punk’n’roll seppero anticipare le tendenze del thrash e per certi aspetti del death metal, potremmo oggi sostenere che gli Stooges avrebbero anticipato i suoni scarni, l’ossessività, la carica nichilista del black metal. Un episodio come “We Will Fall” (un cupo rituale di dieci minuti in cui la poetica maledetta di Morrison si incontra efficacemente con le tessiture velvettiane della viola di Cale) potrebbe rafforzare la nostra tesi, facendoci sostenere che nel sound degli Stooges era già incorporato persino quella componente rituale che diverrebbe poi fondamentale nel black metal. 

Ovvio che immaginare un ponte fra gli Stooges e il black metal diviene un azzardo concettuale che non ci sentiamo di avallare fino in fondo. La Storia, semplicemente, ci racconta che gli Stooges sarebbero stati presi a modello da parte di un forma sfrontata e maleducata di rock che si è fatta in certi casi punk e in altri è rimasta rock, battendo percorsi alternativi e deviati. Il metal, come si diceva, sarebbe passato per altre vie: gli Stooges, del resto, erano troppo malsani per un metal che guardava più volentieri a modelli costruttivi e, tutto sommato, confortanti. Come i Motorhead, appunto.

Eppure, al netto delle vicissitudini successive, “The Stooges” rimane un lungimirante esempio di arte estrema (etichettatelo come vi pare!) dove, oltre a quei semi che porteranno al punk, vi possiamo trovare molto molto altro. Più in generale, è il carattere estremo ad affascinarci a cinquant’anni di distanza dalla sua pubblicazione: chi di voi se li è persi, il cinquantennale del loro debutto discografico può essere una buona occasione per riscoprirli. 

Buon malessere!