30 lug 2018

I MIGLIORI 10 ALBUM LIVE DEL METAL: "THE ORIGIN OF THE FECES" (TYPE O NEGATIVE)


CAPITOLO 6: “THE ORIGIN OF THE FECES” (1992) 

Deep Purple, Judas Priest, Motorhead, Iron Maiden, Ozzy Osbourne, Slayer: questi i nomi che abbiamo incontrato nella puntate precedenti della nostra rassegna sui migliori live-album del metal. Ecco che adesso ci imbatteremo invece in un monicker che, messo a confronto con i gloriosi artisti appena elencati, è a dir poco un pugno nell’occhio: i Type O Negative. Niente meno che i Type O Negative di quel guascone di Peter Steele, che ebbe l’idea balzana di dare alle stampe un truffaldino finto live-album, proprio quel “The Origin of the Feces” di cui oggi parleremo. 

Leggenda vuole che Steele e soci, sull’onda dell’inaspettato successo del loro debutto “Slow, Deep and Hard”, ricevettero da parte della loro etichetta (una lungimirante Roadrunner) il budget per la realizzazione di un live-album. I Nostri tuttavia, ricevuto il denaro, decisero di sperperare il grosso della somma in alcool e di impiegare la manciata di dollari rimasti per registrare nuovamente i brani del debutto, limitandosi a rimaneggiarli, cambiar loro i titoli ed aggiungere degli inserti posticci di pubblico. Questo modus operandi, in verità, era in linea con una condotta consolidata da parte della band che fin da principio ha preteso di occuparsi in prima persona della produzione dei propri album, ben sapendo come gestir le risorse economiche di volta in volta a disposizione, per poi potersi spartire gli “avanzi” a proprio piacimento (fra gli acquisti prediletti, oltre ai classici vizi, si dice vi fossero le motociclette). 

Al di là di questa peculiarità, “The Origin of the Feces” non fu un semplice divertissement, né tanto meno un modo per fregare la propria etichetta, ma un’operazione intelligente capace di esprimere ai massimi termini l’incorreggibile vocazione provocatoria del quartetto di Brooklyn: un’indole ben rappresentata dalla scelta originaria di mettere in copertina la fotografia dell’ano dilatato dello stesso Steele (si opterà successivamente per un ben più sobrio balletto di scheletri). 

Con questo fake-live la band si prefissava un duplice scopo. Da un lato Steele, eterno insoddisfatto, ebbe modo di rimettere le mani sul materiale già pubblicato con l’album d’esordio, dopo aver più volte espresso il suo disappunto in merito alla resa finale dello stesso (una mossa analoga si sarebbe poi ripetuta con il masterpieceBloody Kisses”, rieditato in seguito in una versione alternativa). Dall’altro, fu l’occasione per la band di togliersi qualche sassolino dalle scarpe e colpire i propri detrattori, che all’epoca erano più numerosi e feroci che mai. 

Dobbiamo infatti considerare che la band era ancora agli albori della propria carriera, un attimo prima che i Nostri, con la pubblicazione di “Bloody Kisses”, si sarebbero imposti nell’immaginario collettivo come icone indiscusse del gothic metal mondiale. Stilisticamente, erano sospesi fra furioso hardcore e primi influssi gothic, il tutto miscelato in brani anarchici e dal minutaggio infinito, con i testi al vetriolo di Steele a gettare benzina sul fuoco: una formula che non a tutti andava evidentemente a genio e che sembrava piuttosto uno scherzo di cattivo gusto, complice anche la non eccelsa preparazione tecnica del combo.

Il tour a supporto di “Slow, Deep and Hard”, diviso fra Stati Uniti e Europa, si rivelò così un fiasco totale. Il messaggio controverso dei Type O Negative, accusati di fascismo, antisemitismo, razzismo, xenofobia, misoginia, istigazione alla violenza carnale e al suicidio, fu comprensibilmente frainteso, e certo i trascorsi nei Carnivore di Steele non aiutavano. Episodi di violenza costellarono ogni singola esibizione, fra tafferugli, cori ostili e lanci di bottiglie. Steele, oltre a dover subire una forte pressione da parte di media e giornalisti, riceveva quotidianamente minacce di morte e capitò persino che il tour bus con cui viaggiava la band venisse preso di mira con mattoni. Insomma, quello che si suol chiamare un bel periodo di merda.

E “The Origin of the Feces” fu la degna risposta a tutto questo stato di cose: una secchiata di (...ehm) bile su quel mondo che li osteggiava e li rifiutava. L’inizio del concerto è emblematico in tal senso, con la folla che grida in coro “You suck! You suck!” e Steele che serafico risponde, apostrofando i contestatori come “pezzi di merda”, che essere lì stasera per offendere la band è costato loro quindici dollari, evidenziandone così il comportamento contraddittorio, se non la stupidità. 

La prima volta che ascoltai "The Origin of the Feces" non capii la natura dell’operazione, scambiandolo per un live-album autentico. Ci vollero ulteriori ascolti per farmi cogliere casualmente dettagli curiosi, come il pubblico che in coro ripete “Fuck you! Fuck you!” mentre Steele intona incurante una nenia ed alla fine ricambia la cortesia mandando a sua volta gli spettatori affanculo; oppure l’interruzione brusca di un brano (per presunti motivi di sicurezza), con tanto di sirene di ambulanza in lontananza fra il panico e l’esagitazione della folla. Ad un ascolto più attento sarebbero poi emersi nuovi particolari, come il rumore dell’infrangersi delle bottiglie in sottofondo o altri esilaranti siparietti fra il nerboruto cantante e il “suo” pubblico. 

Musicalmente la band eseguì un interessante opera di assemblaggio dei vari tronconi che componevano i (lunghissimi) pezzi dell’esordio, condendoli con inserti inediti, reprise e ben due cover: “Hey Joe” (ribattezzata “Hey Pete”) e “Paranoid” (in verità una studio-song inclusa come bonus-track in una versione successiva dell'album). Da questo punto di vista c’è da dire che i quattro musicisti hanno saputo portare a compimento un lavoro egregio, con suoni potenti e persino migliori di quelli dell’esordio, ed un alternarsi travolgente di parti tirate, affossanti rallentamenti e coretti orecchiabili. 

E' dal punto di vista lirico, tuttavia, che si tocca il top, rimodellando il repertorio dell’epoca in una sorta di concept sui trascorsi sentimentali dello stesso Steele e dei suoi rapporti burrascosi con l’altro sesso, fra pensieri suicidi e minacce di morte indirizzate alla sua ex (da qui le accuse di misoginia): un saggio sull’infedeltà, sul dolore che ne consegue e sulle estreme conseguenze a cui le pene d’amore possono condurre, tutto filtrato dall’humour nero di Steele (un frullatore sanguinolento che non risparmia le due cover, rallentate/dilatate all’inverosimile, stravolte dalla poetica orrorifica della band e ricondotte liricamente alle esigenze del concept). 

Una volta consapevoli di ciò, l’ascolto di questo album diviene tutt’altra esperienza: una esperienza che deve essere necessariamente vissuta saltando da un piano dell’opera all’altro, ossia quello musicale e quello meta-musicale. In questo aspro contrasto fra i contenuti drammatici dei testi da un lato e i grotteschi botta-e-risposta fra band e pubblico dall’altro, fra vita personale e vita professionale di Steele, fra dolore autentico ed ironia, si compie la più irriverente manifestazione di sarcasmo da parte dei Type O Negative, nonché la realizzazione di uno dei "live-album" più geniali nella storia del metal.

Una inclusione decisamente meritata nella nostra top-ten.