Capitolo 3: "LIVE AFTER DEATH" (1985)
Parlare di "Live After Death" non richiede preparazione. Potrebbero svegliarmi alle tre di notte con il cercapersone dicendomi: “C'è un'urgenza, bisogna parlare di Live After Death”, e non avrei il minimo sussulto.
Un disco che ha segnato
il mio ingresso nel metal, ma che ha anche sancito la sostanziale
alterità del metal rispetto al rock, duro o non duro, progressivo o
classico. Era ed è un baricentro ideale delle varie tendenze del
metal classico, dalle cavalcate chitarristiche alla teatralità,
dalle suggestioni mitologiche al fascino per l'occulto, dalla
malinconia alla passione rabbiosa, dal funambolismo tecnico al
riffing diretto.
Fu poi anche una pietra miliare della carriera dei Maiden, registrato sulla scorta di un successo ormai pieno. Si tratta di un live abbastanza unitario, uniforme e di alta qualità, in cui il cantato teatrale di Bruce Dickinson trionfa e si impone storicamente come lo stile vocale degli Iron Maiden, chiudendo di fatto la disputa tra dickinsoniani e nostalgici di Di'Anno. Dickinson riesce a donare ad un brano come "Phantom of the Opera" il giusto respiro, trasforma "Wrathchild" in un brano epico, e le variazioni vocali che distribuisce sui nuovi pezzi funzionano bene. "Revelations" è forse il punto in cui Dickinson si abbandona di più alla sua verve recitativa, trasformando un mid-tempo in una specie di aria lirica fluida, completamente nelle sue mani. Se, come capitò a me, sono queste le prime versioni che uno sente dei brani, le versioni in studio risultano poi più legnose, caute, fredde.
Una cosa va però detta.
Mai ho consumato tanto il dito sul tasto del fast-forward come
sull'intermezzo interattivo tra Bruce e il pubblico durante "Running
Free". Minutaggio a vuoto, in cui si sarebbe potuto benissimo inserire
un altro brano, in cui Bruce si trasforma in una specie di Rosario
Fiorello. Divide il pubblico in due ali, destra e sinistra, e poi,
senza alcun rispetto per la dignità umana, trasforma degli individui
paganti in gente che deve fare versi a comando. Prima urla belluine,
poi cori del ritornello. Quanto ce ne potrà mai importare di sentire
“ooooh” “ooooh”, “alzate le mani verso il cielo” e “dai
su, tutti insieme” per interminabili minuti. Sono momenti pietosi,
come il “Joey's speech” durante i concerti dei Manowar.
Come diceva Benigni,
facendo la parodia dei cantanti che coinvolgevano il pubblico:
“Altogether, altogether! Vaffanculo, ...fammi sentire te no...
ho pagato il biglietto …!”. In più, questo
intermezzo già insopportabile allunga la pochezza di uno dei brani
più inutili degli Iron Maiden, va detto, e cioè “Running free”.
Banale nel titolo, nel messaggio, imbarazzante nel testo, goffa nella
struttura, minimale nel ritornello stesso, ripetuto alla nausea. Per
inciso, gli Iron perdono il senso della misura ogni tanto, sulla
ripetizione del ritornello, vedi “The Angel and the gambler”, ma
anche già “Tailgunner”. L'unico pregio di Running Free era che
durava poco, qui la allungano a dismisura. Inoltre, la schiaffano in
scaletta subito dopo “Run to the hills”: si è già urlato a
squarciagola di gente che corre verso le colline, di tutto si sente
il bisogno che di ricominciare a urlare di un cretino qualsiasi che
corre libero, cioè dal particolare al generale, una sequenza
retoricamente infelice.
Checché ne pensi
Wikipedia, il disco non uscì nell'85 in vinile e un mese dopo in cd,
almeno non sul mercato italiano (a mia memoria non c'erano CD nell'88
quando lo comprai). E non è neanche vero che la prima versione fosse
una versione ridotta, era un doppio. Una cosa che invece ritengo vera
è che per motivi di spazio nella prima edizione non fu inserito
“Sanctuary”, cavallo di battaglia dal vivo. Ora, anche qui mi
chiedo, ci sono mille motivi per non inserire "Sanctuary" in una
scaletta antologica: è insulsa, per esempio, anonima, goffa,
semplicistica, non rappresentativo di nessuna epoca in particolare.
Quindi era giusto non averla inserito, perché mai fare una nuova
edizione in cui vantaggio dovrebbe essere l'inclusione di "Sanctuary"?
Queste sono le follie degli Iron che mai riuscirò a capire.
In ogni live si può
discutere sul perché di alcune esclusioni. Misteriosa l'assenza di
“”Where eagles dare”, brano maestoso, dalla ritmica acrobatica.
Un brano di primo livello. Non per infierire, ma col passare degli
anni, e l'accumularsi di un repertorio con brani importanti,
l'ostinazione a schiaffare "Running Free" e "Sanctuary" nelle scalette
live irrita anche perché sommata all'ostinata esclusione di
brani di ben altro spessore.
La copertina, bicromatica
in giallo e blu, mostra un Eddie in versione zombie, coincidente con
la prima versione, ma anche con una nuova connotazione
“magico-demoniaca”, che era assente nelle prime versioni, più
ispirate all'immagine del rocker di strada. Quest'era fu, anche
iconograficamente, inaugurata dalla copertina di “The Number of the
Beast” e coincise appunto con l'arrivo di Dickinson, e catapulta
Eddie da ambientazioni metropolitane a contesti storico-fantastici.
La vera particolarità è
in un dettaglio, cioè la scritta sulla lapide di Eddie che ripropone
l'epitaffio di Chthulhu, il Dio dei sogni, uno di “coloro che
giacciono in attesa”: non è morto ciò che in eterno può
attendere, e con il passare di strane ere, anche la morte potrà
morire.
Va detto che gli Iron non
sono uno dei gruppi che ha attinto molto all'universo di Lovecraft, e
questa citazione è più in linea con il ruolo esemplare di "Live
After Death" rispetto al metal tutto, che non ai suoi specifici
contenuti testuali.
Con quella frase si
chiarisce innanzitutto una cosa, che il metal ormai vive di vita
propria, che la new wave of british heavy metal, che ha contributo a
definirne i canoni, è superata da se stessa, essendone gli Iron
stessi uno dei gruppi protagonisti. Il metal spicca dal rock e
viaggia su territori lontani dall'impegno e dall'intrattenimento, e
“regredisce” su quelli del sogno.
Si sogna la storia, si sogna il mito antico, si sognerà di lì a poco finanche il futuro, con "Somewhere in Time".
Si sogna la storia, si sogna il mito antico, si sognerà di lì a poco finanche il futuro, con "Somewhere in Time".