30 nov 2018

PERLE DI OSCURITA': TRENT'ANNI DI LYCIA


E’ proprio vero che la notte è notte ovunque. Forse in certi luoghi è più lunga e fredda, ma la coltre nera che essa porta con sé, ristoro per menti e corpi, o scrigno di misteri, covo delle paure più ancestrali, è la medesima in ogni parte del globo. 

Devo ammettere che negli anni ho rivalutato l’America, gli Stati Uniti intendo: officina di genialità metalliche assortite, dal thrash al death, ma anche dal groove-metal al nu-metal, ho sempre considerato gli Stati Uniti un gradino sotto rispetto all’Europa per quanto riguarda la capacità di esprimere emozioni. In particolare negli anni novanta, con l’affermarsi del gothic metal nelle brume inglesi, con l’ascesa del black metal scandinavo, con il proliferare del melodic death metal, il vecchio continente ci ha saputo condurre in un mondo di fantasmi e miti folcloristici, un universo di dolore ed afflizione che non ha conosciuto eguali nel resto del pianeta. Ma con il nuovo millennio qualcosa è cambiato: il black metal ha attecchito anche nelle foreste del Nord America e grazie a band come Weakling, Agalloch, Wolves in the Throne Room si è iniziato a parlare di U.S. Black Metal. I segreti della notte, evidentemente, si sono rivelati anche ai metallari americani, traducendosi in uno sforzo di introspezione inedito per quelle stesse terre che avevano dato i natali, per esempio, allo stoner ed allo sludge. 

Il deserto dell’Arizona è il luogo da dove emergono i Lycia, che Peter Steele ha definito “the most depressing thing I’ve ever heard in my life”, volendoli a tutti i costi sul palco come supporter dei suoi Type O Negative

Con queste credenziali un po’ di curiosità viene, ma attenzione: la cattiva notizia è che i Lycia non suonano heavy metal. La buona notizia (per i patiti del metallo) è che, ascoltandoli, affiorano sensazioni che accomunano questa musica indefinibile a quella dei nomi che avevamo fatto prima, in primis quello dei grandissimi Agalloch, in particolare per il canto sussurrato che ricorda da vicino quello di John Haughm

I Lycia, in poche parole, sono fautori di un affossante forma di gothic rock che offre ben pochi spiragli di luce all’ascoltatore: drum machine che marciano lente e solenni, tappeti di tastiere, arpeggi ossessivi, intarsi di chitarra elettrica altrettanto ossessivi. In trent’anni di vita, i Nostri hanno pubblicato una decina di album, portando avanti il loro discorso nell’oscurità, ritagliandosi uno status di nicchia fra universo dark e metal gotico, risultando però sconosciuti ai più, nonostante la qualità elevata della loro produzione artistica e l'ammirazione espressa da più di un nome illustre, fra cui citiamo anche Trent Reznor: del resto, nel loro essere indefinibili, i Lycia sono stati ricondotti anche al verbo industrial per l’impianto elettronico che percorre le loro sinfonie dolorose per chitarre ed orchestrazioni. Festeggiamo dunque il trentesimo dalla formazione (avvenuta nel 1988) di questa incredibile entità  musicale con i tre loro album che reputiamo essere i più significativi per comprenderla. 

“Ionia” (1991) 
Dopo un esordio assai acerbo, e perduto per la strada uno dei due membri fondatori (John Fair), i Lycia rimangono appannaggio del solo Mike VanPortfleet che si fa carico di tutti gli strumenti. Con il secondogenito “Ionia”, ancora grezzo nella forma ma già efficace nel delineare una visione artistica decisamente originale, il progetto fa il suo primo centro. E’ ascoltando questo album che ci si rende conto di cosa volesse intendere Peter Steele con le sue parole: suoni gelidi, synth funerei, drum-machine caricate con una certa approssimazione ed un brivido elettrico che percorre i dodici brani accomunandoli in un unico dolente viaggio. Come prerogativa dei Lycia e loro inconfondibile cifra stilistica si sarebbe imposta fin da principio l’assenza di significative variazioni nel fluire della loro musica, che non vogliamo certo definire piatta, ma semmai priva di luce. Battiti che si ripetono con lentezza sfinente ed una torbida chitarra perennemente in delay che guida il cammino fra fraseggi black metal ed echi di shoegaze. L’ascolto di un loro album è una lenta immersione in un abisso di oscurità in cui il latrato metafisico di VanPortfleet è un carico di agonia che va ben oltre i lidi classici della dark-wave. In particolare questo “Ionia” può fare la gioia degli amanti del black metal, sia per la verve marziale delle percussioni che per le distorsioni rancide delle chitarre e le asperità vocali chiamate ad accompagnarle. Ricordiamo che dietro al mixer sedeva Sam Rosenthal, leader dei Black Tape for a Blue Girl, nonché titolare dell’etichetta Projekts Records, vera istituzione in fatto di sonorità oscure marchiate a stelle e strisce (e che accompagnerà a lungo il progetto nel suo cammino). 

“The Burning Circle and Then Dust” (1995) 
Dopo il pregevole “A Day in the Stark Corner”, che aveva evidenziato una crescita soprattutto a livello formale, con arrangiamenti più curati che in passato, VanPortfleet realizza quello che a nostro parere è il suo album migliore di sempre: il doppio “The Burning Circle and Then Dust”. Ad aiutarlo troviamo David Galas (basso e tastiere) e Tara Vanflower (voce), entrata a far parte ufficialmente della formazione, sebbene il suo contributo risultasse ancora limitato a poche tracce (sarà infatti ancora il sofferto sibilo di VanPortfleet a dettare legge per i ben ventisei brani che compongono la scaletta). Il frutto di questo rinnovato sodalizio a tre è quanto di più raffinato i Lycia avessero prodotto fino ad allora. I toni ovviamente non vedono alcun tipo di alleggerimento, ma la musica scorre che è una bellezza, con avvolgenti tastiere ed un impianto per lo più acustico (è qui che vengono in mente gli Agalloch e persino i Death in June del capolavoro But, What Ends When the Symbols Shatter?”). Nello scorcio finale del platter fa capolino la voce da fata della Vanflower, che non stravolge la formula, fungendo semmai da orpello decorativo. In questo passaggio dalla prima fase del progetto, considerabile a tutti gli effetti una one-man band, alla maturità di band vera e propria, si configurano i momenti più entusiasmanti di una intera carriera, con uno strepitoso lavoro di chitarra elettrica ad “illuminare” (si fa per dire) con straordinarie melodie un viaggio che, più che mai, finisce per ammantarsi di impalpabili contorni onirici. 

“Cold” (1996) 
Solo un anno dopo i Lycia si ripresentano sul mercato discografico con quello che potremmo definire il loro capolavoro formale. La formazione si conferma quella del lavoro precedente e la transizione verso la perfezione di suoni ed arrangiamenti sempre meglio orchestrati si compie, con una Vanflower finalmente protagonista. La sua presenza in organico ha instillato nei più la sensazione che i Lycia volessero ripercorrere il solco tracciato dai seminali Dead Can Dance (tanto più che in futuro, dopo un temporaneo scioglimento, i Nostri resusciteranno come un duo), cosa però vera fino ad un certo punto. Con la premiata ditta Brendan Perry/Lisa Gerrard i punti di contatto si esauriranno nell’eterea voce della Vanflower: per il resto l’incubo sonoro allestito dai tre continua a marciare ai ritmi da tragico slow-motion di una dark-wave espansa che travalica, in più di un frangente, i cancelli dell’ambient-music. A questo giro sono tastiere e sintetizzatori a porsi al centro di tutto, con partiture mai così raffinate e curate nel dettaglio. Nonostante gli innegabili passi in avanti, continuiamo tuttavia a preferire gli episodi precedenti, in quanto il canto della Vanflower ha finito per appiattire il sound, una volta tanto peculiare, su sonorità già conosciute e limitrofe a quell’ethereal-dark caro ai discepoli dei già citati Dead Can Dance: un romanticismo un po' lezioso che ha svilito quel senso di abisso con cui i Lycia si erano imposti fin dall’inizio nel nome della disperazione più nera. 

Che la notte sia con voi.