13 mar 2022

BACK TO THE STAGE: A.A. WILLIAMS



“ANATOMIA DI UN CONCERTO” DOPO DUE ANNI DI LONTANANZA DAL PALCO: SENSAZIONI, EMOZIONI, RIFLESSIONI DI UN TOSSICO MUSICALE IN ASTINENZA 

Il latrato di Abbath ancora echeggiava per la sala, le ultime distorsioni si stavano spegnendo, le orecchie fischiavano ed avevo, in un certo senso, il presentimento, anzi, la consapevolezza, che quello sarebbe stato l'ultimo concerto prima di una lunga pausa. 

Era il 27 gennaio 2020, circa tre mesi dopo sarebbe nato mio figlio, sentivo che per il sottoscritto sarebbe stato impossibile rockeggiare per un bel po’ di tempo, ma mai mi sarei aspettato di stare lontano dal palco per più di due anni. La pandemia si sarebbe abbattuta su di noi, stravolgendo le nostre vite. 

4 marzo 2022, una data da segnare sul calendario, almeno per chi scrive, in quanto questa data ha coinciso con il tanto agognato ritorno alla dimensione concertistica. Forse a voi non fregherà molto di A.A. Williams, ma questo non è il reportage di un concerto, è la descrizione di una esperienza: quella che tutti voi, o appassionati di musica dal vivo, avrete vissuto (o non avete ancora vissuto) andando ad un concerto dopo una cosi devastante astinenza! 

Avevamo già conosciuto sulle nostre pagine A.A. Williams: il suo full-lenght di debutto “Forever Blue”, uscito nel 2020, fu un fulmine a ciel sereno per il sottoscritto. Più ragioni mi hanno fatto pensare che il mio primo concerto post-pandemia sarebbe stato il suo. Ragioni di ordine pratico, per lo più: la ragazza è londinese, cosa che la rende particolarmente disponibile da queste parti, e, in un contesto in cui tour europei e mondali saltano continuamente, qualche data locale la Nostra se la sarebbe potuta permettere sicuramente; e cosi è stato. Inoltre la sua è una popolarità contenuta, nel senso che è un’artista di nicchia, seguita da un pubblico selezionato, cosa che avrebbe determinato le condizioni di sicurezza psicologica ideali per un mio "rientro soft in società", un "ritorno  - in punta di piedi - nella mischia" dopo due anni di clausura forzata. 

Infine (o prima-di-tutto), la sua musica che, costituendo un giusto mix fra intimità e virulenza elettrica, avrebbe assicurato una proposta variegata quanto a suggestioni, permettendomi di soddisfare in contemporanea più voglie, ahimè, represse da troppo tempo. La Nostra, infatti, si presenta come una cantautrice, ma una di quelle oscure e dolenti cantautrici che stanno uscendo negli ultimi anni come funghi, dopo che la grande Chelsea Wolfe ha in qualche modo spianato la via a questo nuovo filone di afflitte donzelle. A.A. Williams non si spinge fino al doom, ma non disdegna affatto l’elettricità: il suo sound si ammanta talvolta di possente post-rock; del resto la Nostra, oltre ad un EP omonimo ed al sopra menzionato album di debutto (più un paio di operazioni che hanno avuto luogo durante il lockdown – “Songs from Isolation”, raccolta di cover registrate fra le pareti di casa, ed “Arco”, rivisitazione in format "da camera" del suo repertorio), vanta una prestigiosa collaborazione con i post-rocker giapponesi MONO

E proprio ai MONO la cantante avrebbe fatto da spalla il 4 e il 5 marzo: quale migliore occasione per commuoversi, esaltarsi, gridare e piangere e celebrare il tanto agognato ritorno alla dimensione live? Ma come ampiamente previsto i nipponici hanno dato forfait, posticipando ulteriormente il loro tour europeo (già sarebbero dovuti venire l’anno scorso!). Fortunatamente A.A. Williams si è tenuta la data del 04/03 al piccolo Lafayette; e dunque eccoci qua. 

Non era scontato esserci, non solo per gli ostacoli oggettivi sopra elencati, ma anche per uno stato d’animo ondivago pregno di timori e sensi di colpa. Non sono mancati i ripensamenti dell’ultim’ora: vado o non vado? Non mi sento benissimo, sono stanco, mi sento accaldato, forse ho il covid, ma che ci vado a fare tra la gente? E poi adesso ho un bambino! Ti agghindi con riluttanza, ti ritrovi sulla soglia, esitante, con un’ora di ritardo rispetto alla tabella di marcia, con la febbre a 35.2, il figlio con le braccine protese che sulla porta ti dice “Babbino babbino dove vai? Perché mi lasci solo?”; un momento dopo sei fuori, nel freddo, cammini trasognato mettendo un piede avanti all’altro, la tensione sale perché la metro è in ritardo (ci mancava anche lo sciopero dei mezzi pubblici!) e dopo un’ora circa eccoti nuovamente nella fossa dei leoni, un salto nella vecchia vita...

Il Lafayette è piccolo ma accogliente, scendo le scale e nell’anticamera sento già in filo-diffusione musica interessante, non so chi è ma mi piace, sembra Danzig al femminile, Doom il tuo nome è donna! Sosto un attimo ad ammirare lo stand con cd e magliette, urto per sbaglio un energumeno che ha sbagliato il senso di percorrenza e non capisco se dopo due anni di isolamento e di ferrea selezione delle persone da frequentare riavere nuovamente a che fare con i disadattati - immancabile dote di questi concerti - sia un bene o un male. Diciamo che lì per lì la cosa non mi ha entusiasmato. 

Entro finalmente nella sala concerti, sembra che la mia presenza (giacca e maglia di Burzum) alzi il livello intellettuale ed estetico dell’evento, ma è solo la sensazione di un attimo. Dopo tutto non si sta male con il “popolo” di A.A. Williams, che, in estrema sintesi, odora di Southern Lord, di metallo alternativo oscuro estremo: mi sento a casa. 

"Locale piccolo e non troppa gente" equivale a dire capacità di movimento e buona posizione sotto il palco, giusto in terza fila, leggermente di lato, con accanto un tizio alto due metri che indossa la maglietta di Lingua Ignota, altro buon auspicio. Tentennamenti esistenziali e sciopero dei mezzi hanno fatto sì che per una volta non sono stato il primo stronzo ad arrivare e a dover trascorrere un’ora e mezza in un locale vuoto: sono le 8:10pm e il concerto inizia alle 8:30, perfect timing, e pazienza se abbiamo perso l’esibizione di Jo Quail, violoncellista londinese che sicuramente ho incocciato come supporto in qualche concerto passato (adesso mi sfugge quale) e che non rappresentava certo l’impatto iniziale che io desideravo avere dopo due anni di astinenza da concerto. Meglio così.

Bene A.A. Williams, dunque, e bene A.A. Williams subito. Anzi no, c'è il tempo di andare a prendere una birra al bar: sono proprio un re stasera! 

Eccoci finalmente al fatidico momento: la cantante entra sobriamente con la sua band (batterista, bassista – stranamente uguale a Pino Daniele – ed il classico factotum che si divide fra chitarra e piano). A.A. mi stupisce per la presenza: me la figuravo più minuta ed invece mi ritrovo davanti una stangona, ulteriormente slanciata da un ampio completo grigio che dà una connotazione da “cantautrice della metropoli” piuttosto che da chanteuse noir come mi aspettavo. 

Si parte con i toni soft di “All I Asked for (Was to End it All)”, sorniona ballata che apre “Forever Blue”, fra Radiohead e Nick Cave. Il sound non è perfetto, in particolare la batteria suona un po’ "set di pentole", ma nell’insieme il pacchetto è tollerabile. La Williams, inoltre, sembra un po’ ingessata dietro alla sua chitarra, pare turbata da qualche problema tecnico che tuttavia non riesco ad individuare…Cazzo A.A., c’mon, vorrei dirle, sei a casa, siam qui per te, non ti perdere in un bicchier d’acqua, via! 

Scorre alquanto liscio il primo brano, non ho ricevuto quella “botta” che mi aspettavo, ma è anche vero che devo tornare a ricalibrarmi su determinati scenari e sensazioni: è un po’ come quando fai sesso per la prima volta con un'altra donna dopo una lunga relazione...sei un po’ ovattato, in uno stato confusionale che ti fa apprezzare l’atto fino ad un certo punto; ma siamo fiduciosi, siamo pur sempre solo all’inizio. 

EccoLove and Pain”, uno delle mie preferite, ed ecco l’esplosione delle chitarre a metà del brano, ed ecco i primi brividi. L’alone post-rock del disco si perde un poco sul palco, le distorsioni sono meno enfatiche, ma graffiano comunque e il brano quasi assume il passo di un blues elettrificato, continua a venirmi in mente Danzig (sarà la vecchiaia?). A.A. se la cava alle sei corde, assume pose sobrie, il suo fare dimesso cozza con l’iconicità del momento, non ha niente da dimostrare, ma molto da esprimere, e forse proprio questo è il bello di questi concerti. Le prime lacrimucce solcano le gote: direi che siamo decollati. 

La prosecuzione del concerto sarò un alternarsi di sensazioni, tutte più o meno positive, con inni del mal de vivre come "Cold" e "Control" (entrambi dal primo EP) che sono l'emblema di un repertorio ancora ridotto ma pregno di brani eccellenti. Soprattutto si ha quella varietà di suggestioni, quel "pacchetto di suoni onnicomprensivo" che avevo fortemente cercato per soddisfare tutte le mie varie esigenze. Ci sono dei momenti di solo piano e voce, e questi servono per favorire la voglia di umanità vibrante dopo quasi due anni di esistenza virtuale fra schermo del PC e quello del telefono; ci sono le dark-ballad (e fra tutte si distingue l’epica “Glimmer”, con la Nostra che imbraccia la chitarra acustica su sfondo rosso fuoco) ed anche i momenti più esplosivi, come il finale giustamente assegnato alla stupenda “Melt”, il mio brano preferito e, credo, il classico per eccellenza della breve ma significativa carriera della cantante, fra chitarre sferraglianti ed un ritornello plateale da cantare a squarciagola. 

Qualche dettaglio tecnico: la Williams si difende bene sul palco, forse è impacciata come persona ma si destreggia in modo soddisfacente alla chitarra elettrica come al piano, e c’è da dire che ci tiene a tenersi sulle spalle il grosso della sua musica, lasciando ai colleghi le rifiniture. Anche dietro al microfono non smentisce quella sua fama di ugola strabiliante dal vivo; certo stasera non tira giù il soffitto, ma forse è il posto in sé che non ha saputo supportarla adeguatamente. Di grande suggestione, in ogni caso, sono stati i momenti in cui la cantante, per lo più nei frangenti quieti, è stata illuminata da un cono di luce blu con l’oscurità a fare da sfondo, creando una atmosfera liturgica, da raccoglimento, quasi chiesastica, mentre nei momenti maggiormente tumultuosi il palco divampava di rosso come se esso sprofondasse di colpo nelle viscere dell’inferno. 

Ci sono dei momenti perfetti, momenti in cui alcol ed elettricità si intrecciano e si abbracciano in una stretta estatica fra pianto e risa. E in quei momenti ho come l’impressione che questa musica sia profondamente ispirata da Burzum, che Burzum sia stato il Bob Dylan degli anni novanta, che Burzum abbia ridefinito i canoni del cantautorato moderno, rendendolo ancora più lacerante, degradato, eppure spirituale, con quelle chitarre elettriche quasi ambient, ma forse sono solo ubriaco. 

Già, perché, posso ammetterlo, mi sto muovendo con estrema professionalità, come se le skill tecniche e gestionali maturate in tanti anni di onorata carriera concertistica fossero riemerse in me nel momento del bisogno: ho saputo scegliere i frangenti giusti per andare a bere e pisciare, agevolato da un locale a misura d’uomo, dove tutto è a portata di mano e la gente è tranquilla, civile e a distanza di sicurezza. Avrei potuto riguadagnare facilmente la mia posizione sotto il palco, penetrando negli interstizi di questa folla sorniona ed educata di dark-lady e metallari dai capelli sfibrati e dalle lunghe barbe, ma alla fine ho preferito la zona vicino al bar, che comunque è vicinissima al palco e da dove peraltro ho goduto di un’ottima visuale. 

Ah, dimenticavo, il momento migliore è stato quando sono andato al cesso e ho trionfalmente svuotato la vescica cullato dai suoni ovattati del concerto che provenivano da dietro alla porta, rimmergendomi in una sensazione quasi dimenticata di mille altri concerti, un ammaliante déjà-vu, un piacevole sprofondare in una “anima profonda” che permea ogni evento dal vivo, piccolo o grande che sia. 

Peccato solo che a Londra non sia più possibile improvvisare: puoi avere tutto a Londra, basta prenotare per tempo e pagare, ma quando sei in ballo sai già come andrà a finire. I concerti iniziano e, ahimè, terminano puntuali: alle 10:00pm siamo già nel silenzio e nel chiacchiericcio, senza bis, perché i bis sono una cosa vecchia, sono superati. Ma cazzo A.A., sei nella tua città, domani è sabato, fra mezzora te ne stai fra le coperte, siamo tutti qui per te, solo per te, e facci un bis, regalaci un fuori programma, cazzo! No, niente, impossibile sgarrare a Londra (solo gli Anathema hanno provato a scardinare questa logica e nelle orecchie mi echeggiano ancora le bestemmie di Daniel Cavanagh costretto dalla security a lasciare il palco dopo quasi tre ore di concerto). 

Pazienza, abbiamo avuto quello per cui abbiamo pagato, ed abbiamo anche salutato/ringraziato personalmente la Williams che si era posizionata tronfiamente al banchetto dei cd a farsi sommergere dagli elogi, ma adesso si torna a casa. Si torna a casa con la consapevolezza che la voglia di concerti non è stata affatto saziata; anzi, la fiamma, che giaceva silente nella brace, è stata riattizzata e c’è gran voglia di tornare a rockeggiare. Del resto l’appetito vien mangiando…