"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

4 feb 2020

A NIGHT WITH... ABBATH: LIVE AT ISLINGTON ASSEMBLY HALL, LONDON (27/01/2020)



Lunedì e black metal, un binomio ideale. E quale miglior modo di iniziare la settimana se non quello di trascorrere una serata con Abbath? 

Ci allieta inoltre la notizia che della partita faccia parte anche David Vincent. Entrambi dei reduci, due monumenti dell’Estremo, stasera a dividere il palco in un improbabile capovolgimento di ruoli, dove il celebre ex cantante dei Morbid Angel con la sua nuova band Vltimas si ritrova a supportare l'ex front-man degli Immortal che certo ha guardato ai Morbid Angel come fondamentale fonte di ispirazione. A far loro compagnia, i 1349: black metal band norvegese di seconda fascia, nota ai più per ospitare in formazione niente meno che Frost dei Satyricon

Quando varco l’ingresso dell’Islington Assembly Hall stanno ancora suonando i Nuclear, thrash band cilena che possiamo tranquillante archiviare alla voce “Ma quanto mi piacerebbe essere gli Slayer”. Si apprezza la spontaneità ed un certo “selvaggiume” tipicamente sudamericano, ma per il resto non vedo il motivo per soffermarmi sulla loro (breve) esibizione. 

Meglio concentrarci sugli Vltimas, che oltre a David Vincent dietro il microfono, vedono la presenza alle sei corde di Rune “Blasphemer” Eriksen (Aura Noir e Mayhem) e  di Flo Mounier (Criptosy) alla batteria. Stasera il trio (coadiuvato sul palco da altri due musicisti) ci riproporrà per intero il debutto, nonché la sola opera ad oggi rilasciata, “Something Wicked Marches In”. Senza troppa fantasia i brani verranno riproposti nello stesso ordine del disco e se certo questo non sarà il concerto dalle mille sorprese, colpisce la coesione dell’ensamble. Da un lato il riffing geniale di Blasphemer e il drumming intricato e quasi progressivo di Mounier, dall’altro il growl portentoso di Vincent e il fantasma dei Morbid Angel che si riaffaccia continuamente, nelle parti più tirate come nei passaggi più fangosi e visionari. 

A catalizzare l’attenzione, ovviamente, è la figura carismatica di David Vincent, a questo giro dispensato dal basso e quindi con totale libertà di movimento. Intanto entra passeggiando, sfoggiando un ululato fra il tenore e il gutturale: di stazza enorme, testa taurina, cappello da cowboy e lunga palandrana, sembra quasi Tom Waits. Il Nostro si è fatto negli anni una nomea di sciupa-femmine, alimentata dalla bella moglie con cui divise il trascurabile progetto industrial-rock Genitortures e qualche pratica sadomaso. Ricordo ancora una intervista in cui il Vincent spiegava come, con la coniuge, si ponesse sia come dominatore che dominato, ed io, influenzato da questi discorsi, non posso stasera non immaginarmelo ammanettato a letto, pancia sotto, con la classica mela in bocca e sodomizzato dalla moglie con un fallo di lattice. E chissà se, di pratica in pratica, con il tempo il Nostro si sia aperto a “nuovi orizzonti”... Non lo dico con malizia, ma è surreale vedere quell’energumeno in abiti succinti, ascelle depilate, pancia da bevitore tornito dalla palestra, il trucco al viso e mosse decisamente poco virili per uno che canta come un orco. 

Aggiungono stranezza alla scena una prevedibile grettezza da provincia americana ed un vago atteggiamento da mestierante svogliato, del tipo: “Ma guarda te che me tocca fa pe’ campa’...”. Penso a Vincent come a quegli abili caldaisti che, mostrata una precoce brillantezza, hanno presto iniziato a maturare ambizioni professionali; per un periodo si sono anche evoluti, in ufficio a registrar fatture o a vendere porta a porta nel settore energetico. Ma poi qualcosa è andato storto e, raggiunta una certa età e rimasti disoccupati, il punto di forza del CV rimane quello del saper aggiustare caldaie. E questo sono costretti a fare per arrivare alla pensione. La stessa cosa con il death metal, ma c’è da dire che, volente o nolente, David Vincent rimane a suo modo un personaggio decisamente carismatico e, a cinquantaquattro anni suonati, il suo potente growl rimane uno dei migliori di sempre. 

Passiamo ai 1349. Che dire, il black metal infernale del quartetto sulle prime non mi entusiasma: la loro proposta non trasuda alcuna caratteristica peculiare, il modo di cantare di Olav “Ravn” Bergene è monotono, il suo atteggiamento sul palco il più tipico possibile per il genere: cattiveria ostentata, face-painting, bracciali e stivali chiodati. Eppure ad un certo punto qualcosa accade: passa un brano, due, tre, le perplessità iniziano a sfumare, poi al quarto la furia dei Nostri inizia ad avere effetti catartici su di me. L’ostinazione dei Nostri, la loro mancanza di compromessi sono a dir poco encomiabili: la batteria che non si ferma mai e che solo di rado abbandona velocità supersoniche per concedersi qualche onesta galoppata, i riff vomitati senza soluzione di continuità avvolti dal rimbombare apocalittico del basso, ogni brano che parte come era finito quello precedente. Non c’è tregua e in verità finisco per esaltarmi, perché a me il black metal piace e dopo averne pregustato dal vivo diverse versioni più evolute (dagli Schammasch ai Wolves in the Throne Room), imbattermi in una forma così pura, in qualche modo mi riconcilia con me stesso. 

I quattro episodi selezionati dall’ultimo “The Infernal Pathway” (non vi poteva essere titolo più azzeccato) si allineano perfettamente a quelli più datati, anche se le incursioni nel passato si spingono non oltre “Hellfire” del 2005 con un paio di brani proposti in apertura e nella prima parte della scaletta. Se artisticamente i Nostri pagano il dazio di un eccessivo immobilismo stilistico, sulle assi guadagnano in dinamismo e forza d’urto (cosa non sempre piacevole dal vivo). 

E’ dunque con il giusto stato d’animo che mi pregusto l’ingresso di Abbath. Anche stasera, come per i Dimmu Borgir qualche giorno prima, non si registra il sold out (strano però, considerato che l’Islington Assembly Hall è molto più piccolo dell’O2 Kentish Town, dove più o meno un anno fa i Behemoth raggiungevano il traguardo del tutto esaurito), ma è indubbiamente meglio così: si sta più comodi e si ha la possibilità di stanziare a poche file di teste dal palco. 

Un intro disneyano precede l’entrata dei musicisti: Ukri Suvilehto alla batteria, “Raud” Ole André Farstad alla chitarra solista e il turnista Rustin Cornell al basso, chiamato a sostituire Mia Wallace che pare abbia già abbandonato la nave. Ma è l’avvento di Abbath a riempirci il cuore di gioia: una presenza fisica, la sua, che vale più di ogni altra cosa, persino della musica stessa. 

Abbath è un’icona: lo è per il suo mitico face-painting, per la sua armatura da guerriero di Blashyrkh, per le sue pose tamarre, il fare da bisbetico e la linguaccia perennemente di fuori. Gene Simmons dei Kiss viene spesso in mente, ma possiamo anche dire che il buon Olve Eikemo, con la sua storia, è un personaggio che basta a se stesso. Non sembra egli neppure preoccuparsi di farsi valere come ex front-man di una band leggendaria come gli Immortal: è onesto intellettualmente, forse orgoglioso nei confronti del suo ex collega Demonaz che si è tenuto il marchio, in ogni caso determinato a promuovere la sua carriera solista, giunta lo scorso anno al secondo atto con “Outstrider”, seguito dell’omonimo debutto del 2016. 

Musicalmente parlando Abbath è “Battles in the North”, è “Blashyrkh (Mighty Raven Dark)”: brani ahimè non riproposti stasera (e manco ce li aspettavamo), ma comunque ben presenti spiritualmente nelle sfuriate e nei mid-tempo battaglieri di bathoriana memoria di cui si compone la granitica visione artistica del Nostro, solo recentemente ammorbidita da umori rock. Che Abbath non sia un brillante songwriter, questo si sapeva: i suoi brani continuano ad assomigliarsi, ma la sua rimane indubbiamente una scrittura efficace. Come un Lemmy dell’Estremo, anche il norvegese, nella sua semplicità, è sempre in grado di dare il brivido, lottando coraggiosamente contro il caldo, dietro al trucco pesante e strippato nelle vesti attillate per sostenere fino in fondo il suo ruolo: un’icona tanto più importante per i più giovani, che lo hanno conosciuto nei buffi fotomontaggi che circolano per la rete. 

La musica passa quasi in secondo piano. Dei classici non ne sentiamo il bisogno tanto la cifra stilistica del Nostro è presente in ogni singola nota riproposta. A meritarsi la palma di migliore momento è paradossalmente l’epica “Warriors”, poderoso mid-tempo tratto dal trascurabile lavoro rilasciato sotto la sigla I. Preferiremo l'esecuzione di questo brano persino a quella degli episodi tratti dal repertorio degli Immortal, stasera rappresentati da due soli brani: “Against the Tide (In the Artic World)”, da “Damned in Black”, ed “In My Kingdom Cold”, da “Sons of the Northern Darkness” ("Mountains of Might", prevista in scaletta, non verrà eseguita per motivi di tempo, mannaggia la miseria...). 

Come si diceva in principio, è il repertorio recente a guadagnare maggiori spazi. Si parte con la velocissima “Hecate”, ma è con “Count the Dead”, virante verso efficaci tempi medi, che iniziano i veri brividi. Scatta il pogo più selvaggio, ma è solo questione di un attimo: una volta terminato il brano, le acque si calmeranno. Ed è giusto così, aggiungo io: quella di Abbath non è musica da salti e spinte, meglio piuttosto godersi la poesia nordica di certi passaggi od ondeggiare le teste ipnotizzati da quella figura pittoresca che, pur senza sfoggiare particolare dinamismo e grazie alla sola carismatica presenza, riesce a mantenere l’attenzione costantemente su di sé. 

La tosta “Harvest Pyre” e “Calm in Ire (of Hurricane)”, con i suoi momenti acustici, sono altri passaggi memorabili di una esibizione che vola via velocemente, concludendosi dopo poco più di un’ora con la micidiale doppietta “To War!” e “Winterbane”. Le orecchie accolgono con sollievo il silenzio, in fondo è stata una serata impegnativa, ma con un sorriso sulla bocca mi crogiolo ancora in quel brusio che evoca gli Immortal come i Morbid Angel, i Bathory come i Motorhead

Già, quanto mi mancano i Motorhead...