"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

9 ago 2018

TRENT'ANNI DI DANZIG: LIVE AT O2 ACADEMY BRIXTON, LONDON - 07/08/2018


Ci sono concerti a cui fa piacere andare e ci sono concerti in cui si deve necessariamente presenziare. E quello chiamato a celebrare la storia trentennale di Glenn Danzig (tappa londinese del Danzig 30 Year Anniversary Tour - una manciata di date fra Europa e Stati Uniti) è inequivocabilmente uno di quegli eventi che, per il sottoscritto, diviene un imperativo categorico parteciparvi. 

Sono fan di Danzig da tempi immemori: era nel 1992 che, rapito dal videoclip di “Dirty Black Summer”, conobbi l’ugola maledetta dell’ex cantante dei Misfits: non trenta anni fa, ma ventisei, che non sono comunque pochi. “Danzig III: How the Gods Kill” e poi “Danzig”, “Danzig II: Lucifuge”, fino ad approdare a “Danzig 4”, ultimo tomo apprezzato di una carriera che in seguito non mi avrebbe più regalato particolari gioie. Abbandonai la nave con il tragico “Danzig 5: Blackacidevil”, maldestro esperimento svolto in direzione industrial: da quel momento per me niente fu come prima e di lì a poco avrei smesso di ascoltare musica a firma Danzig. Ci sono tuttavia sentimenti che vanno oltre ogni giustificazione razionale, per questo, con un biglietto inutilmente comprato molti mesi fa, sono stasera all’O2 Academy Brixton eccitato come un bambino in un gigantesco negozio di giocattoli. 

I quesiti che mi pongo mentre mi preparo per l’evento sono di varia natura: come mai un concerto di Danzig si tiene in un posto così grande? E perché questa data era stata promossa persino su Time Out, magazine di cultura che viene distribuito gratuitamente in metropolitana? Chi è che ascolta Danzig oggi? Ma soprattutto, come oggi viene visto Danzig? Mi faccio queste domande perché ai tempi, perlomeno in Italia, Danzig non se lo filava nessuno, anzi era da molti schifato, nonostante incarnasse diversi cliché dell’immaginario hard & heavy altrove invece apprezzati (tematiche occulte, machismo, cultura del fumetto, il tutto condito da seducenti diavolesse, che schifo non fanno...). E come sarà mai un concerto di Danzig? Cioè, tutti sappiamo che dal vivo gli Iron Maiden sono spettacolari e che gli Slayer spaccano il culo, ma Danzig? Danzig che combina dal vivo? 

Qualche risposta la trovo mentre mi avvio, uscito dalla metropolitana, verso il locale, seguendo il codazzo di rancidi punk cinquantenni che sbraitano e sghignazzano senza ritegno. Resistono evidentemente i seguaci dei Misfits, gente ridotta davvero male, e la cosa mi mette un po’ a disagio. Altre risposte le trovo nella lunga coda di gente che attende l’apertura del locale: molti, moltissimi rockettoni, quelli vestiti in pelle e giacchetti jeans degli anni ottanta, fra cui un buon numero di signore in grande spolvero (certo non capirò mai fino in fondo quale forma di masochismo spinga queste donne ad incarnare con convinzione l'avvilente modello della femmina-oggetto professato dal rock). Tutta gente di età elevata, fascia anagrafica trenta-cinquanta. Si scorge qua e là qualche maglietta di Slayer, Mayhem, Type O Negative, W.A.S.P., ma il metal parrebbe essere solo un fenomeno tangenziale all’universo oscuro di Danzig. Chiudono la parata, come prevedibile, i rappresentanti della cordata dark/gothic, alla cui causa ha sicuramente concorso la presenza sul palco dei Paradise Lost

Già, aprono i Paradise Lost, tanto per aggiungere gloria alla gloria. Avevo visto Holmes e soci lo scorso novembre in occasione del tour di supporto aMedusa, quindi la notizia della loro presenza non mi scompone, tanto più che non uscii particolarmente esaltato dall'evento. Ma i Para stasera ci stanno più che bene, considerato che anch’essi, come Danzig, sono un altro pezzo importante della mia storia personale. 

Un conto però vedere i Paradise Lost come headliner, a fine serata con ettolitri di alcool in corpo ad offuscare le emozioni, un conto vederli come opener con i “muscoli ancora freddi”. La sobrietà non è amica dei Paradise Lost, che sul palcoscenico rendono decisamente meno che in studio (ma questo oramai è un dato di fatto). Tanto per iniziare mi ripugnano alla vista (a vederli verrebbe da presupporre che a Halifax vi siano seri problemi di calvizie). Aaron Aedy e Stephen Edmonson sono modesti signori di mezza età che, con le loro teste rasate e le lunghe barbe brizzolate, potrebbero presenziare con disonore sul palco di un festival della Pizzica in Salento. Gregor Mackintosh con il suo look da punk a bestia c’incastra come i cavoli a merenda. E poi c’è Nick-ZeroCarisma-Holmes, il ragioniere del gothic metal

Da un punto di vista performativo, è ordinaria amministrazione allo stato puro, con Holmes diviso fra un fiacco growl ed un pulito che dal vivo continua a non convincermi. Il breve set (circa tre quarti d’ora) scorre nella prevedibilità più assoluta, con l’eccezione della cover di “Smalltown Boy”, stranoto hittone degli anni ottanta dei Bronski Beat: colpo di ruffianeria non indifferente da parte di una band che non pare avere più molte frecce nella propria faretra. Più di ogni altra cosa, è evidente come i Nostri non riescano più a coniugare la componente doom/death metal con quella gothic/dark: connubio che, paradossalmente, era stata proprio la chiave del loro successo. Dal “canzoniere dei ricordi” emergono “As I Die” ed “Embers Fire”, mentre “Say Just Words” chiude l’esibizione nel più ovvio dei modi. Nonostante questi brani siano per il sottoscritto autentici "piez’de’core”, oramai i Para non sono più cosa mia: triste ammetterlo, ma è così. 

Non ammetto più delusioni, per questo inizio a bere con impegno. Da questo punto di vista l’O2 Academy Brixton è il locale perfetto, con i suoi mille bar, i bagni dislocati nei punti giusti, con la sua ampiezza che garantisce spazio vitale per sgattaiolare avanti e indietro continuamente. Il fatto che il pavimento sia in pendenza, infine, rende possibile assistere allo show da qualsiasi posizione e lontananza. Peccato però che ci sia un’acustica del cazzo...

Giunge il momento tanto atteso: un’introduzione sinfonica e la proiezione sullo sfondo del teschio-logo del Danzig solista preparano l’ingresso della band. Devo ammettere che avere l’"Almighty Danzig" (come l’ha definito Holmes salutando il suo pubblico) a pochi passi di distanza fa un certo effetto, ma non giriamoci troppo intorno: Danzig non ha voce. E non è che non ce l’ha da ieri, mister Anzalone non ce l’ha più da un sacco di tempo, lo si sente persino dai dischi, da molti dischi a questa parte: grosso problema per uno che è abituato ad urlare come un indemoniato in ogni intercapedine di canzone. L’impressione è che il Nostro sia più un animatore da villaggio-vacanze che un cantante vero e proprio: geme, incita, aizza, gesticola, fa le corna "a doppia mano", ma poi le canzoni le fa cantare al pubblico, rivolgendo spesso il microfono verso la platea. C'è da aggiungere inoltre che sputa come un lama. 

In teoria si parte male con tre pezzi del repertorio recente (ma perché?): non è questione di snobismo, semplicemente Danzig non ha voce e a questi brani poco incisivi tocca puntare tutto sul groove. Io punto sulle birre. Il fan più comprensivo penserà che il Nostro stia cercando di centellinare le energie per i classici, ma la verità è che, terminato il trittico di brani iniziali, il Glenn si rivolgerà al pubblico completamente svociato. E siamo a concerto appena iniziato (partiamo bene…).

Attacca finalmente “Twist of Cain” e la fantasia inizia a galoppare, perché ci vuole la memoria per collegare i brani originali a quelli suonati stasera. Sulla band non si ha niente da ridire, i tre musicisti suonano onestamente, senza comunque mai brillare: del resto tutti i riflettori sono sull’egocentrico front-man. A proposito: Danzig è bruttissimo. Tarchiato (indossa persino i tacchi), palestrato ma gravido di una pancia enorme, bazza spropositata, faccia gonfia, il volto tirato dal lifting: potremmo affermare che il nostro cantore delle tenebre finisce per assomigliare al Mickey Rourke di “The Wrestler”. E non è un complimento. 

La scaletta ripercorrerà in senso cronologico estratti dai primi tre album, che si aggiudicheranno la fetta più grande del concerto (scelta estremamente gradita a noi fan della prima ora). Il debut-album svetta con i cori da stadio della anthemicaTwist of Cain” e con le ritmiche impetuose della sabbathianaAm I Demon”, mentre gli episodi tratti da “Lucifuge” non mi scuotono più di tanto. Le prime grandi emozioni si hanno con “How the Gods Kill”, praticamente cantata dal pubblico: un momento di grande suggestione e comunione, con le calde luci blu a bagnare gli arpeggi di questa incredibile ballad. La mitica “Dirty Black Summer” passa quasi inosservata, ma oramai sono troppo ubriaco per capirlo. Del resto, finché le canzoni funzionano, possiamo fare a meno della voce, che in realtà tende a rafforzarsi con l'avanzamento dello spettacolo, come se, approssimandosi alla fine, il nerboruto cantante si sentisse libero di dare il massimo.

Aspetto “Mother” ed alla fine, dopo una inutile “Bringer of Death” (unico episodio tratto da “Danzig 4”), eccola che arriva puntuale a chiudere le danze. E devo dire che le aspettative sono confermate alla grande. Il classico per eccellenza della bandsi rivelerà infatti il vero momento top della serata: la voce del pubblico e quella del cantante sono una cosa sola; il Nostro nel frattempo ne combina di tutti i colori sul palco, trasmettendo incredibile energia ad una folla letteralmente in delirio. In un tripudio di corna e di bicchieri alzati al cielo, si scorgono andare avanti e indietro le sagome dei pazzi e delle pazze che si fanno trasportare gaudenti sulle teste degli altri spettatori. 

Onorato il “momento social” con un bel video a beneficio di amici e parenti, mi fiondo anche io in prima fila per i bis. “She Rides” è il classico blues che ti ci vuole ad un certo punto della notte, mentre la travolgente “Long Way Back to Hell” getta sabbia negli occhi e sinceramente, ad un certo punto della vita, è quello che desideri. E’ un’esperienza “totale” quella di ritrovarsi ubriachi fra ubriachi, circondati da ragazze urlanti che sanno i testi a memoria, tutti felici e strizzati, presi dalla morsa micidiale del pogo che preme forte sulla schiena, con in sottofondo musica che ascoltavi quando avevi ancora il moccio che colava dal naso. 

Si esce contenti e il bilancio è indubbiamente positivo: tanti fili dovevano essere necessariamente uniti dai ricordi e dal cuore, dato che Danzig purtroppo non ha più le corde vocali per farlo. Ma il suo carisma, quello è rimasto intatto. 

Long Way Back to Hell, Glenn!