5 ott 2022

DEAFHEAVEN - LIVE AT EARTH (Evolutionary ARTs Hackney) - 23/09/2022


Mi suscita sempre una grande fatica mentale recarmi ad Hackney, un po' perché è distante da dove vivo, un po' perché non ci arriva la metropolitana, ma quando ho comprato il biglietto per il concerto dei Deafheaven all’EartH (Evolutionary Arts Hackney, appunto) era ancora estate ed io mi trovavo immerso - confortato oserei dire - nel ricordo ovattato di vagoncini color pastello (la linea dell’overground) diretti allegramente ad East London come se fosse il gaio trenino della Loacker che transita placidamente fra il rosso rosato di dolci tramonti e paesaggi incantati (vedi Hampstead Heath e Gospel Oak). 

Oggi invece è praticamente inverno, fuori da questo mesto treno regna l'oscurità, dai finestrini non si vede nulla e le facce dei passeggeri mi sembrano corrucciate e smarrite in pensieri oscuri, sebbene sia venerdì sera e tecnicamente dovremmo essere tutti più felici. Scendiamo dall'overground e il mood cambia di colpo, l'accogliente dimensione di Hackney, brulicante di gente e locali, ci ben dispone nei confronti della serata. L'EartH è un'ottima venue per chi ama le sonorità alternative: non vi passano spesso gruppi metal, ma per dei fighissimi Deafheaven l'eccezione si può fare. 

Se è vero che il blackgaze lo hanno inventato gli Alcest, ai Deafheaven va il merito di aver sdoganato il black metal al mondo degli hipster, dando al "metallo nero" una grande visibilità al di fuori dell'angusto recinto degli appassionati di metal estremo. Da sempre promotori di un post-black metal fresco, spumeggiante e venato da belle ed ispirate melodie, oggi gli americani sembrano aver definitivamente "scollinato" verso sonorità shoegaze e post-rock, un tempo componente contaminatrice nel loro black metal, oggi indubbia quota di maggioranza nel loro suono. Riusciranno dunque i nostri eroi a 1) coniugare le due loro anime riproponendo sul palco brani che sembrano realizzati da due band diverse? e 2) a rendere bene, senza sbavature e stecche, le parti più melodiche e dunque i brani dall'ultimo album? Siamo qui per scoprirlo...

Sebbene l'evento non abbia raggiunto il tutto esaurito con le sole prevendite, fuori c'è una fila chilometrica che smorza il mio entusiasmo, ma mi permette perlomeno di farmi una opinione sul pubblico dei Deafheaven: giovani, senz'altro; alternativi, questo anche; ragazze, nel giusto quantitativo ma comunque in minoranza; metallari ortodossi, quasi zero: a dimostrazione di come un effettivo ricambio generazionale/culturale sia avvenuto nella popolazione metal grazie alle frange più ardite del post-black. Solo non si capisce se alla fine della fiera prevalga la gente "giusta" o gli sfigati. I nerd, goffi ed impacciati, abbondano e gettano un filo invisibile alla tradizione del regno del metal, ieri popolato da giovani brufolosi con i capelli lunghi ed unti, oggi da giovani non brufolosi con gli occhiali e i capelli corti (ed unti). Meno male che scorre la fila, perché dietro di me c'è un tizio che biascica il chewing-gum e la cosa mi infastidisce. 

Entro nel locale e mi sento a casa fra gente amichevole, sorridente, baristi gentilissimi e spazi vuoti: insomma, una dimensione a misura d'uomo. Si sta bene, ma ha un problema l'EartH: è rettangolare, o meglio, è uno di quei locali che si sviluppano in lunghezza con il palco sul lato più piccolo e con il mixer nel mezzo alla sala, un dettaglio che mi ha sempre rotto il cazzo. E poi non c'è la birra alla spina (perché la gente figa beve lo spritz), ma in questo caso decido di vedere il bicchiere mezzo pieno: le birre in lattina infatti 1) si possono mettere in borsa (così si può evitare l'annosa spola fra palco e bar per il rifornimento alcolico) e 2) possono essere messe nel taschino della camicia, cosa che di per sé può sembrare una idiozia, ma che in verità può agevolare certi momenti, come per esempio quando hai bisogno di una mano aggiuntiva per scattare una foto o fare un video e non sai mai dove cazzo mettere il bicchiere di birra. 

Pisciata d'ordinanza: all'ingresso del cesso incrocio un tizio con la maglia degli Ulver ("Nattens Madrigal"), io ne indosso una di Burzum ("Hvis Lyset Tar Oss"), vuoi dirmi che siamo i migliori del locale? Sinceramente non credo, perché tolta la maglietta, l’essere ulveriano sembra uno studente di chimica appena uscito dal laboratorio dopo un esperimento andato male – aspetto che condivide con il 90% del pubblico dei Deafheaven. 

Apre Lauren Auder, classe 1998, giovanissima cantautrice anglo-francese dedita ad un barocco "orchestral pop" che, almeno sulla carta, nulla ci incastra con i Deafheaven....oppure sì: in fondo gli americani sono dei campioni della fluidità in musica, ben venga dunque una artista transessuale la cui musica, fluida anch’essa, oscilla continuamente fra Bowie, synth-pop e post-rock. La Nostra si fa accompagnare da un solo chitarrista, il resto saranno basi pre-registrate: una modalità di "musica dal vivo" che non posso sopportare. C'è tuttavia da dire che la cantante, con la sola voce (un vivace baritono) ed una mimica molto espressiva, sa tenere in pugno la platea. Dopo un inizio un po' teso (con un nervosismo che si è tradotto in un atteggiamento freddo ed altezzoso nei confronti del pubblico) la Auder si scioglie, divenendo più affabile brano dopo brano, applauso dopo applauso, finendo per mostrare sincera gratitudine per un pubblico che la ripaga con entusiasmo. Forse l'esibizione dura un po' troppo per uno stile ancora acerbo e che tende a ripetersi (ad oggi il repertorio della Auder conta un album, due EP, qualche singolo), ma la sensazione nel complesso è buona. Soprattutto ci si sente nel presente. 

La gente freme, i padroni di casa tardano a presentarsi sul palco (alla fine della serata ci renderemo conto che la band avrà eseguito un set leggermente ridotto di nove brani, per un’ora ed un quarto di durata complessiva, senza la riproposizione di “From the Kettle onto the Coil”, episodio tutto sommato trascurabile e di cui non sentiremo la mancanza). La tipa accanto a me sembra una figlia dei fiori in trance che attende di salire sull’altare per farsi immolare dal guru di turno; intorno ho i soliti ricercatori universitari sghignazzanti ed alti sei metri che, oltre ad occludere la visuale, non sono gradevoli alla vista stessa; un tizio dietro di me, esasperato, intona “Freezing Moon”, io mi giro con sguardo complice, lui fa un cenno di solidarietà (vuoi dirmi che siamo i migliori del locale? – non credo, in fondo lui è un buzzurro come se ne vedono tanti nei concerti metal, mentre io assomiglio in modo preoccupante ad un fan dei Deafheaven). 

Eccoli finalmente, anticipati da una breve introduzione di tastiere. Si parte chill out con le prime tre tracce di "Infinite Granite" (“Shellstar”, “In Blur”, “Great Mass of Color”). Subito un paio di considerazioni: 1) George Clarke ha poca voce, come mi aspettavo, ma compensa con una grande presenza scenica. Capello precisino à la Superman, camicia aderente nera (presto fradicia di sudore), il cantante non è proprio la quintessenza del blackster, ma forse è anche questa la sua forza, e le sue movenze da "molleggiato" sono a tratti esilaranti, cozzando in modo surreale con le dinamiche dei brani. Quello che mi colpisce è lo sguardo da pazzo, gli occhi sgranati, non so se perché è psicopatico per davvero o semplicemente perché si trova sotto gli effetti di stupefacenti. Se però voleva fare il bel tenebroso, quegli occhi spiritati si conciliano ben poco con tal proposito (e certo i filamenti di bava che gli hanno ciondolato dalla bocca in diverse circostanze hanno vanificato del tutto quel proposito). 2) La gente è esaltatissima, canta i testi a memoria e, cosa assai più strana, azzarda tentativi di pogo in momenti che tutto sommato hanno poco a che fare con il pogo, tanto che mi vedo costretto ad indietreggiare innanzi alla violenza di certi energumeni per brani davvero leggeri – stranezze della vita... 

Si passa ai due estratti di "Ordinary Corrupt Human Love" (“Honeycomb” e “Worthless Animal”) che io tendo a preferire rispetto a quelli dell'ultimo album, se non altro perché son lunghi e tortuosi, con diverse sezioni interessanti e soprattutto con un Clarke più credibile allo screaming. Post-rock, melodie shoegaze, arpeggi ed escursioni psichedeliche: i Deafheaven danno il meglio in questi brani-fiume dallo sviluppo imprevedibile e che sanno mettere in risalto il talento melodico di Kerry McCoy, tanto abile nel tessere riff vincenti quanto dimesso come persona. Anche McCoy, con la sua presenza ordinaria e pacata, non vince il premio di "true metaller del secolo", anzi, non sfigurerebbe nel cast di "The Big Bang Theory", ma a noi va benissimo così: se una entità originale come i Deafheaven è esistita e si è affermata è proprio per l'approccio non ortodosso di gente come lui e Clarke. 

Concludono la prima parte del set altri due episodi da "Infinite Granite": "Gnashing" e "Mombasa". Che dire, al pubblico piace davvero l'ultimo album, io però sui toni soft dell’incipit di "Mombasa" preferisco virare verso il bagno e resettarmi con una bella pisciata per poi fare un salto al bar ed assicurarmi un'ultima bevuta in vista del gran finale. 

Eccoci finalmente ai bis: attacca una violentissima "Brought to the Water" (da "New Bermuda"), ma è con la conclusiva "Dream House" (irrinunciabile opener del capolavoro "Sunbather") che avremo il meglio della serata. Clarke ne approfitta per ringraziare il pubblico e per celebrare il compagno di merende McCoy, che non batte ciglio, poi parte il caratteristico riff e l'inferno si scatena su di noi. La gente è in visibilio, il pogo esplode nuovamente ed addirittura Clarke si tuffa (di schiena) sul pubblico. Seguono dieci minuti da "Manuale del perfetto post-black metal" fra riff intensi, melodie trascinanti, velocità supersonica e cambi di ritmo azzeccati, con sopra un Clarke indiavolato madido di sudore: non ha la voce di Freddie Mercury, ma non si può certo dire che si sia risparmiato stasera. Gli ultimi minuti hanno dell'epico, con rallentamenti apocalittici, chitarre che girano che è una bellezza e Clarke, in piedi su un amplificatore, ad officiare con gesti plateali la fine della "messa". 

Se l'esibizione nel complesso era stata buona, grazie a "Dream House" le quotazioni si sono alzate decisamente: del resto se i Deafheaven sono da considerare una delle più importanti realtà del black metal del nuovo millennio un motivo ci sarà e stasera lo abbiamo capito. Tornando ai quesiti iniziali: sono riusciti i Deafheaven ad omogeneizzare un repertorio sostanzialmente black metal con l'approccio più radiofonico adottato con l'ultimo album (che a conti fatti ha occupato più della metà della scaletta)? E ha saputo la band rendere sul palco le complesse tessiture sonore annodate con meticolosità in studio? Ni, la band si è rivelata maggiormente in palla con i brani più datati, ove Clarke, più a suo agio con lo screaming, ha dato il meglio. In quei brani la band è letteralmente esplosa (nel senso positivo del termine) mentre in quelli più recenti è apparsa più trattenuta, prudente, attenta a non sbagliare, con le già esposte incertezze dietro a microfono da parte di Clarke, il quale non ha stonato né si è macchiato di particolari nefandezze, ma si è rivelato un interprete debole sui registri puliti. C'è da dire però che laddove la band ha peccato di incisività, essa ha saputo compensare in compattezza, energia e capacità di coinvolgere il pubblico, con un instancabile Clarke che non è stato fermo un attimo, aizzando continuamente la folla con cazzuta attitudine hardcore (altro paradosso). 

Insomma, i Nostri passano l'esame a questo giro, solo il futuro ci dirà se gli orizzonti a cui essi tendono saranno nefasti o coincideranno con la totale consacrazione, se avremo, in altre parole, un addio definitivo al metal oppure una formula ricalibrata che si porrà a giusto compromesso delle diverse anime che ne compongono la cifra stilistica. Cosa più importante di tutte: mi è tornato il buon umore, anche solo per il fatto che è sempre bello assistere a dei concerti veri, suonati, vissuti con partecipazione da musicisti giovani (o non troppo vecchi) che hanno ancora dell'energia da spendere sul palco, e non solo il nome, la storia, lo status (per ulteriori dettagli si legga qui). 

La strada per casa è lunga, ho un bus notturno da prendere e poi finalmente la metropolitana che va avanti per tutta la notte. Scendo dal bus e, davanti alla stazione della metro, campeggia sopra i tetti, e davanti al cielo nero, la cupola bianca, illuminata, della Saint Paul Cathedral. Ma che bella Londra di notte - penso - con gli aerei diretti a Heathrow al posto delle stelle...