10 dic 2023

VIAGGIO NEL DEPRESSIVE BLACK METAL: SILENCER


Tredicesima puntata: Silencer - "Death - Pierce Me" (2001) 

A molti non piaceranno i Silencer, taluni ad ascoltarli rimarranno scioccati, altri non li prenderanno nemmeno sul serio, ma “Death – Pierce Me” è incontestabilmente un album-simbolo del filone depressive del black metal ed in particolare della sua variante suicidal: una di quelle opere che piaccia o meno hanno marcato un confine fra black metal e depressive black metal.

Attivi dal 1996 al 2001, i Silencer sono stati fondati dal polistrumentista Andreas Casado, in arte Leere. Solo in un secondo momento si sarebbe aggiunto Nattramn alla voce, con il quale sarebbero stati rilasciati una demo dal titolo “Death – Pierce Me” nel 1998 e tre anni dopo un album dal medesimo titolo. Il batterista Steve Wolz avrebbe figurato come un session-man, cosa che di fatto ha reso i Silencer un duo. E proprio nello scontro-incontro delle diverse visioni artistiche dei due membri principali si sarebbe forgiata l’unicità del suono dei Silencer. 

Da un lato Leere è in grado di confezionare un black metal solido, melodico e dagli sviluppi razionali. Dico questo per sottolineare il fatto che non ci troviamo innanzi ad uno sfrangiare insensato e fastidioso di chitarre che si protraggono per decine di minuti con il solo obiettivo di tracciare scenari di desolazione emotiva. Anzi, la durata contenuta dell’album (il platter si ferma a 49 giri di orologio) è sintomatico di una proposta misurata e poco dispersiva. Aiuta una produzione nitida e corposa che dà solidità e corpo a riff e refrain melodici. Non si disdegna l’alta velocità, i blast-beat abbondano e ben si integrano in una proposta variegata, che qua e là contempla momenti acustici ed anche incursioni di tastiere e pianoforte, credo sempre a carico del buon Leere. 

Come dicevo sopra, i brani, pur di estesa durata, si evolvono il modo ordinato e composto, in totale opposizione a quanto avviene dietro al microfono. Un esempio di questo contrasto è dato proprio dall’incipit dell’album, aperto dalle carezzevoli note di una chitarra acustica accompagnate da un pacato supporto ritmico: l’idillio viene bruscamente interrotto dalla partenza del brano vero e proprio, marchiato a fuoco da un grido straziante ed invadente. 

Nattramn non fa certo un ingresso in punta di piedi, ma nel resto del disco - mettetevi l'anima in pace - saprà fare anche di peggio. Egli è sicuramente uno dei personaggi-simbolo del DBM e questo per una serie di degni motivi. In ordine sparso: 

- usava infliggersi ferite sul proprio corpo durante le registrazioni per meglio performare a livello vocale; 

- si è amputato le dita delle mani per sostituirle con zampe di maiale; 

- è stato ricoverato in un centro di cure psichiatriche; 

- è fuggito da un centro di cure psichiatriche;

- ha tentato di uccidere una bambina di sei anni con una ascia;

- è stato nuovamente ricoverato in un centro di cure psichiatriche 

- ha una delle voci più agghiaccianti della storia del black metal. 

Ecco, soprassedendo sulla sua passione smodata per i maiali (cosa certificabile dal fatto che il Nostro ci ha anche scritto un libro sopra – “Cuore di maiale”), possiamo sostenere con sufficiente serenità che almeno uno dei fatti sopra elencati non è una leggenda metropolitana, ossia la sua voce. 

Un illustre precedente è stato Rainer Landfermann dei Bethlehem, ma qui si va oltre, più che altro perché il guizzo viene elevato a "normalità". Il buon Nattramn, di fatto, porta avanti la sua performance vocale con determinazione, costanza e grande senso di abnegazione, senza cedimenti e con invidiabile scioltezza (laddove Landfermann si capiva che faceva una fatica della madonna a spolmonarsi in quel modo). Il suo è un lamento acuto e stridente, un falsetto ostinato che qualcuno lo ha paragonato ad un verso di animale (un’emulazione del grugnito dei tanto amati suini?). Teatrale come Kind Diamond e sofferente come Varg Vikernes, ma di una sofferenza artefatta, enfatizzata, iperbolica che tuttavia colpisce l’ascoltatore turbandolo sulla lunga distanza. Perché è la reiterazione incondizionata di questo stile di canto che finisce per essere un innegabile elemento di pesantezza, la ragione per cui a tratti viene la tentazione di abbassare il volume. Fastidioso tanto negli acuti che raggiunge con il suo screaming quanto nei momenti di quiete apparente in cui la sua voce diventa un rantolo e si fa singulto, piagnisteo, Nattramn è il vero elemento “depressive” della musica dei Silencer. 

Un altro elemento straniante è il fatto che Nattramn non sembra curarsi molto dello svolgimento dei brani: così come si è  manifestato, egli ama eclissarsi, i suoi sono soliloqui che si articolano in modo autonomo, indipendentemente da come i brani, dinamici e ben strutturati, si sviluppano e procedono. Potrebbe essere questo un punto di debolezza, ma tale è l’ispirazione che pervade il duo nella composizione/realizzazione di questi sei brani, che esso finisce per costituire un elemento di differenziazione ed ulteriore originalità. 

E se le due entità, musica e voce, entrano in collisione, possono capitare dei miracoli. Come per esempio nella lunga title-track, quasi undici minuti da inserire di diritto nel Manuale del Perfetto Depressive Black Metal. Accadono diverse cose, dall’incipit acustico (che abbiamo descritto sopr'anzi) ad un interludio di pianoforte, il tutto percorso da passaggi memorabili di chitarra. Vorrei tuttavia portare la vostra attenzione sulla parte finale del brano, caratterizzata da un bellissimo arpeggio elettrico e il pianto surreale di Nattramn, che peraltro potremmo quasi definire un poeta, essendo i suoi testi sì espliciti nel ribadire temi quali morte, desiderio di morte, auto-lesionismo e suicidio, ma anche pervasi da una morbosa poetica che li rende ancora più inquietanti e a tratti enigmatici. 

Un altro momento forte del platter sono i minuti finali di “Taklamakan”, caratterizzati da vorticosi giri di basso distorto (quasi in stile industriale) e il campionario di grida e versacci del cantante accompagnati da sinistre melodie di chitarra. L’attenzione rivolta su Nattramn non deve distoglierci dal fatto che anche Leere ha i suoi meriti nel confezionare un disco epocale, mostrando fantasia ed estro alle sei corde: ne è prova la struggente introduzione di tastiere e chitarra di “The Slow Kill in the Cold”. 

Come se non bastasse, Nattramn ha anche il buon gusto di gettare qualche scintilla di filo-nazismo nei suoi testi, cosa che lo rende ancora più detestabile (od adorabile, a seconda dei punti di vista). Sia quel che sia, anche solo per i suoni che emettono le sue corde vocali il Nostro va diritto inserito fra i cantanti più estremi che il mondo della musica abbia conosciuto. Insopportabile per molti, persino divertente per altri, di certo la sua non è una performance che si presta all’indifferenza. Per alcuni il Nostro sarebbe un buontempone che ha giocato a fare il personaggio strano, ma anche assumendo questo, nessun valore perderebbe la musica dei Silencer. In fondo la musica ci va ancora bene come rappresentazione metaforica degli stati d'animo, no?  

Come si diceva all’inizio, l’avventura del duo svedese si concluderà dopo il rilascio di questo unico album. Ritroveremo Leere/Andreas Casado nei connazionali Shining, fra le cui fila militerà per un breve periodo (fra il 2005 e il 2006) senza lasciare alcuna testimonianza concreta nella discografia della band. Un vero peccato, perché il Nostro, almeno per quello che abbiamo potuto sentire in “Death – Pierce Me”, è stato davvero un buon compositore e chitarrista. Quanto a Nattramn riemergerà qualche anno dopo alla guida del suo progetto solista “Diagnose: Lebensgefahr” (che, tradotto in italiano, vorrebbe dire “Diagnosi: pericolo di vita”), nel quale si occuperà di dark-ambient, mantenendo se non altro fede alla missione artistica che ha professato fin dalle origini. 

Che piaccia o meno: imprescindibili...

(Vai a vedere il resto della rassegna)