Glenn
Allen Anzalone, classe 1955 (sessant’anni tondi tondi festeggiati lo
scorso giugno – ma dov’era Metal Mirror??), in arte Danzig: un
personaggio indubbiamente controverso. Idolatrato, mitizzato, ma al tempo
stesso deriso, sbeffeggiato per i suoi risibili eccessi, per le sue pose
caricaturali, a tratti ridicole. Glenn Danzig, con il suo background
culturale a base di culturismo, fumetti horror, cinema di serie Z, suggestioni
porno/fetish e sanguinolento rock'n'roll, si è in verità dimostrato un originale
interprete del verbo metal, sebbene la sua corpulenta figura rimanga per molti
ancora legata all’universo punk, avendo egli prestato la sua ugola nei dischi
storici dei Misfits.
Un’esperienza
breve, quella in seno ai Misfts, ma che ha lasciato dietro di sé almeno due
capolavori (“Walk Among Us” del 1982 e “Earth A.D. del 1983) ed
una manciata di pezzi che faranno la storia del genere (brani immortali come “She” e “Halloween”,
raccolti poi nell’ottimo “Legacy of Brutality”). Con la sua voce da Elvis
indiavolato, il suo fisico da palestrato e le capigliature più improbabili,
Danzig si impose come il frontman carismatico di una band originale che,
per le tematiche trattate e l’immaginario adottato, fu catalogata come horror-punk.
Poi, nel 1983, la decisione di lasciare:
“Ho dato molto al
punk, cambio genere”.
E
così fu. I Samhain avrebbero costituito, in forma embrionale, i primi
vagiti della sua carriera solista. Album come “Initium” (1984) e “November-Coming-Fire”
(1986) declinavano l’approccio ancora scarnamente punk in un’ottica più pesante
ed oscura (ma non ancora propriamente metal). Alla fine il cantante decise di
rompere gli indugi e consacrarsi definitivamente al verbo del rock,
reinventandosi metallaro delle tenebre. La sua band avrebbe portato il
suo cognome d’arte, Danzig, ed è proprio di questa fase che
andremo oggi a parlare.
La
nostra non sarà una semplice cronistoria, ma una libera dissertazione sull’universo
musicale di Danzig tramite dieci brani che abbiamo selezionato
deliberatamente dai primi quattro album della band. “Danzig” (1988), “Danzig
II: Lucifuge” (1990), “Danzig III: How the Gods Kill” (1992) e “Danzig
4” (1994)
possono infatti essere considerati come un blocco a parte nella carriera del
Nostro. Anzitutto perché vi stava dietro la stessa formazione. Oltre a Danzig
al microfono, trovavamo Eerie Von al basso, John Christ alla
chitarra e Chuck Biscuits alla batteria: non dei virtuosi, ma dei
musicisti onesti, capaci di erigere quel sound grezzo ed efficace in cui
risaltava la magnetica voce del cantante. La loro stessa conformazione fisica
rispecchiava questo stato di cose: all’altezza di “How the Gods Kill” i tre
iniziarono a somigliarsi in maniera preoccupante (capello lungo liscio scuro e
barba, tutti nero-vestiti), facendo risaltare ulteriormente la figura burina
del leader, mascelloni glabri à la Ridge Forrester e
capello fonato in stile Renato Zero. Ma non fu solo una questione di
affiatamento della squadra, perché (e lo diciamo con il dolore dei fan traditi)
a partire dall’infausto quinto album, “Danzig 5: Blackacidevil”, il
flusso magico si interromperà per sempre. A dirla come si deve: sarà una vera tragedia.
Ma
lasciamo perdere quell’orribile esperimento in cui il Nostro decise malauguratamente
di darsi all’industrial: un lavoro abbietto ed inqualificabile che non temo di
definire il più brutto in assoluto della storia del rock e dintorni. Lasciamolo
perdere quell'aborto maledetto, in cui non si salvava nulla (ma proprio
nulla!): sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, un inciampo del resto si
perdona a tutti. Il vero problema fu che i lavori rilasciati successivamente,
chiamati a rinverdire i vecchi fasti con un affrettato recupero delle sonorità hard-rock/metal
(in un contesto tuttavia oramai compromesso in cui sopravvivevano certi umori
industrial rock à la Marylin Manson), relegarono il Nostro sotto le volte
senza speranza di una triste vecchiaia fatta di lavori poco ispirati e via
via sempre meno capaci di calamitare l’entusiasmo, persino del suo stesso
pubblico.
Pubblico…ma
Danzig ha mai avuto un pubblico? Nel suo caso è più lecito parlare di una
confusa “popolazione” di ascoltatori isolati, individui con background
diversi, spesso nerd che non resistono al fascino perverso del trash o del
comico involontario; atomi con orecchie, in definitiva, che venivano
attratti da quello strano e fiero rock dalle inedite tinte dark. Troppo cafone
per i rocker, troppo floscio per i cultori del metallo, Glenn Danzig non è mai
riuscito ad andare oltre lo status di personaggio di culto. Se poi si
pensa che la sua scesa in campo come solista avvenne in anni in cui il
rock nella sua accezione classica stava decadendo e nel contempo si stava
preparando il terreno per il modello culturale del ragazzuolo sensibile,
depresso ed incasinato, che poi esploderà definitivamente nei primi anni
novanta con l'avvento del grunge, le ragioni dello scarso successo ci sono
finalmente chiare. Quando manca il target di riferimento, del resto, non
c'è niente da fare, fin tanto che a poco o nulla è servita la pubblicità
gratuita da parte di gente illustre come i Metallica, da sempre
ammiratori di questo piccolo-grande artigiano della musica.
Eppure,
fin dai tempi dell'horror punk dei Misfits, a seguire con il death-rock
dei misconosciuti Samhain, e perfino con l'infelice esperimento "Black
Aria" (trascurabile parentesi di musica gotico-sinfonica, che poi avrà
anche un seguito, “Black Aria II”, in anni recenti), nell'arzigogolata
carriera del buon Glenn è rinvenibile un filo rosso, o meglio nero, che palesa
una coerenza d'intenti, di temi e di attitudine che ne fanno senz'altro un
artista strutturato e dalla forte e ben definita personalità. Un istrione
oscuro e visionario, questo Danzig, sempre e comunque sopra le righe e capace
di tingere di nero anche il rock'n'roll più scanzonato.
Ma
perché dieci brani più uno? Perché prima di partire con la nostra
breve rassegna, vorremmo introdurre il tema con un episodio che abbiamo pescato
al di fuori del cerchio magico dei primi quattro album. Il brano fuori concorso
da noi scelto per aprire le danze proviene dal mediocre ma dignitoso “Danzig
6:66: Satan’s Child”, l’album della “mezza rinascita”. Questo brano porta
il nome di “Thirteen” e devo dire che è riuscito a stupirmi per ben tre
volte.
La
prima di queste è ovviamente quando ascoltai l'album stesso, il quale, sebbene
nel complesso non fosse altro che uno scialbo revival, sapeva comunque
regalare in coda un gran bel coup de théatre: quella perla nera,
“Thirteen”, che, sulle movenze di un blues derelitto, celebrava ancora una
volta il carisma vocale di Danzig, il suo inconfondibile lamento baritonale
a metà strada fra un luciferino Elvis Presley ed il Jim Morrison
poeta maledetto.
M’imbattei
nel brano una seconda volta (diversi anni dopo) quando acquistai “American Recordings”
di Johnny Cash, LP che conteneva diverse cover, fra cui una
firmata da Glenn Danzig. Ma attenzione: l’album di Cash usciva ben cinque anni
prima rispetto a “Satan’s Child”, suggerendoci che il pezzo fu originariamente
concepito e scritto da Danzig proprio per l'Uomo in Nero (ci fu
sicuramente lo zampino di quel volpone di Rick Rubin, dato che la sua Def
American promuoveva all’epoca anche i lavori di Danzig), e poi recuperato
in un secondo momento (forse perché a corto di idee). Ottima la rivisitazione
folk/country di “Thirteen” fatta da Cash, ma continuo a preferire senza
problemi la versione elettrica di Danzig.
“Thirteen”
ebbe modo di stupirmi un’altra volta qualche anno dopo, ritrovandomela
baldanzosamente spalmata sui titoli di testa del film comico “Una notte da leoni”,
grandissimo successo ai botteghini. Stranezze della vita, ma è sempre una gioia
imbattersi in Danzig quando meno te lo aspetti.
Fatta
questa premessa, che ben ci spiega il personaggio, perennemente sospeso fra cultura
trash e arte vera, diamo dunque il via alla nostra classifica!