In una ipotetica classifica
dei dieci migliori album di post-black metal (che forse un
giorno stileremo) non metteremmo di certo questo “Aesthethica” dei Liturgy.
Semplicemente perché non riteniamo che sia fra i dieci migliori parti di questo
sotto-genere, anche se di diritto un posticino in classifica spetterebbe probabilmente
anche a loro…
Perché da un punto di vista
concettuale “Aesthethica” è un manifesto consapevole della volontà di superare
gli stilemi classici del black metal. Il leader Hunter Hunt-Xendrix
ci ha pure scritto un libro sul black metal: “Trascendental Black Metal”,
saggio che analizza l’emergere di un “nuovo” black metal americano. E su questo
siamo d’accordo: a partire dai seminali Weakling (ed in particolare del
loro unico lavoro dato alle stampe, “Dead As Dreams”, del 2000), il
continente nord-americano è stato un gran proliferare di band black metal che
hanno saputo rileggere ed aggiornare le lezioni della grande scuola
norvegese degli anni novanta. Sia sul fronte del depressive (Xasthur,
Leviathan ecc.) che su quello del post-black metal (Agalloch, Wolves
in the Throne Room, Nachtmystium ecc.).
Alla base della teoria di
Hunt-Hendrix vi è un’accezione del black metal come estasi annichilente,
un vuoto perfetto: una trascendenza che trasforma il nichilismo
in affermazione e che si ottiene attraverso la frenetica reiterazione.
Una reiterazione supportata da quello che egli definisce il burst-beat,
ossia un blast-beat fluido, capace di contrarsi e dilatarsi. Il black
metal ha però d’essere “de core” e, come già sostenuto una miriade di volte, è
uno dei generi più malleabili che ci sia: contaminatelo con il post-rock,
macchiatemelo di shoegaze, buttateci la psichedelia, strizzatelo nelle mille
dissonanze come fanno i Deathspell Omega, ma non meccanizzatemelo, per
carità! Tutti gli esperimenti volti a disumanizzare il black metal, a
prelevarne gli stilemi per disporli in un nuovo ordine sul tavolo operatorio in
un “ambiente sterile”, sono stati a mio parere fallimentari. A questi esperimenti
appartiene anche quello dei Liturgy, di stanza a New York.
Come gli Orthelm,
altri inquilini della Grande Mela, la creatura di Hunt-Hendrix attua una
metodologia da “catena di montaggio” e tenta la via del minimalismo isterico,
improntando le composizioni su un concetto di ripetizione: una modus operandi
che non ha niente a che fare con il moto oscillatorio della musica di Burzum,
ma che si avvicina semmai all’universo del math-rock (c’è addirittura chi ha
tirato in ballo colte influenze extra-metal come i noiser Boredoms
e Lightning Bolt). Quindi frasi spigolose ripetute nervosamente alla
velocità delle luce, riff stridenti mutuati certamente dal black metal, ma
smontati e rimontati e disposti su geometrie cervellotiche che precludono ogni
possibilità di coinvolgimento emotivo da parte dell’ascoltatore. E con sopra
una voce che si muove coerentemente con il resto della baraonda: ossia un
monotono ed indistinto stridere di aquila privo delle benché minima
espressività (a venire in mente sono le vocalità acute e frastagliate degli In the Woods… della loro opera prima “Heart of Ages”).
Ok, tutto intrigante, il
fatto però è che sessantotto minuti sono tanti e dopo un po’ questa
musica, oltre che annoiare, inizia a dare anche un po’ di fastidio. Non è un caso
che i brani più gradevoli alle orecchie siano proprio quelli meno tirati, ossia
le due strumentali “Generation” e “Veins of God”: la prima un
assalto math-rock in crescendo protratto con grande energia per più di sette
minuti; la seconda un esercizio sabbathiano che finirà per tramutarsi in
thrash metal tout court.
Salvo il singolone “Returner”
(di cui circola anche un curioso videoclip), che ha il buon cuore di
durare non più di tre minuti, e qualche breve siparietto (le vocalità a
cappella di “True Will” e “Glass Earth”, i landscape frippiani
di “Helix Skull”) c’è ben poco da
ricordare. E se ci ho tenuto a rammentare la provenienza del quartetto, è
perché la mente, durante l’ascolto, non può non andare al controverso “Metal Machine Music” di Lou Reed, altro newyorkese doc, se non IL musicista
newyorkese per eccellenza. Se l’intento dei quattro blackster è comunque
costruttivo e non esclusivamente provocatorio quale è stato quello dell’ex Velvet
Underground, gli esiti non cambiano di molto.
Il fatto è che, se l’album si
fosse chiamato “Dark Woods of Evil” e non “Aesthethica”, e se vi fosse stata in
copertina una testa di caprone o una foresta, invece che essere figa &
minimal, completamente bianca con due croci stilizzate (una rovesciata, l’altra
no), non so quanto oggi staremmo a parlare dei Liturgy.
Il black metal non passa da
New York.