Devo ammettere che è stata una
pura fatalità quella di essermi ritrovato in quel piccolo grande evento che è
stato il concerto dei Dornenreich
alla St Pancras Old Church la sera
di venerdì 16 febbraio 2018.
Un evento indubbiamente esclusivo, visto che non si era più di
cinquanta, fra fan sfegatati e gente
lì per caso (me compreso, visto che i Dornenreich non li avevo mai ascoltati
prima): una affluenza di pubblico che la dice lunga sulla popolarità della
band, a maggior ragione se si pensa che i Nostri non calcavano terra albionica
da ben sette anni. Di certo il popolo londinese non è stato in questo lasso di
tempo a strapparsi i capelli aspettando la calata concertistica della band
austriaca…
I Dornenreich sono stati per me una sorta di ripiego in una serata che sarebbe stata spesa più che volentieri con i Soft Moon, una delle realtà più promettenti del panorama post-punk statunitense e che il sottoscritto segue da anni con un certo interesse. Ma il destino ha voluto che il concerto dei Soft Moon fosse inspiegabilmente sold out (mannaggia la miseria). Il genio del sottoscritto disponeva tuttavia di un discreto piano B, ossia recarsi alla Vecchia Chiesa di San Pancrazio per assistere alla esibizione di questi sconosciuti Dornenreich, attirato solamente dal nome e dalla suggestiva location (conosciuta in occasione dell’esibizione, lo scorso ottobre, della divina Jarboe con gli italianissimi Father Murphy).
Nella mia immaginazione l’ensemble avrebbe dovuto essere una band black metal prestata alla causa del folk di matrice esoterica, cosa che ho avuto modo di dedurre dal monicker e da qualche foto pescata dal web. Cosa che poi in effetti si è rivelata in gran parte vera (…che intuito da vecchia volpe mi ritrovo, dopo anni di onorata militanza nei meandri oscuri della musica più oscura…).
Si parte male: intanto venti
sterline di ingresso rispetto alle quindici annunciate sul sito. Secondariamente:
una platea di integerrimi bufali metallari invece che la schiera di vamp gotiche o di curiosi personaggi di
estrazione druida e forestale che mi sarei aspettato. No: solamente metallari e
non altro che metallari, principalmente di tipologia vighinghesca e qualche inevitabile caso umano che non può certo
mancare ad appuntamenti di questo tipo, ma che certo non solleva il morale.
Le sorprese negative non finiscono
qui: come artista-spalla ecco che mi ritrovo sul palco un tale di nome Duncan Evans, anch’esso facente parte
della scuderia dalla Prophecy e da
essa presentato come un cantastorie della
tradizione del folk inglese. La proposta del (finto)rosso crinito cantautore,
tuttavia, mi è sembrata senza capo né coda e per giunta impregnata di una
enfasi che mi ha irritato in più frangenti. Meno male che al mio arrivo l’esibizione
si era quasi conclusa.
Il lungo soundcheck dei Dornenreich, infine, sembra non dover terminare mai.
Il bel folk apocalittico lasciato fluire in filodiffusione è continuamente
inquinato dai fastidiosi schiamazzi della gente raggruppata nella sala di
ingresso della chiesa, dove è stato improvvisato un piccolo bar. L’aspetto dei
due che armeggiano sul palco, inoltre, non mi rassicura affatto. Jochen Stock (alias Eviga) sfoggia una bella capigliatura
in stile Cronos (“i capelli ormai ce
li ha tutti dietro”, osserverà la mia ragazza, povera vittima delle circostanze
che era stata reclutata per il concerto dei più abbordabili Soft Moon): il
cantante si muove con fare scattoso, mostrandosi assai irrequieto ed in palese
difficoltà nel trovare una collocazione soddisfacente fra sgabello, chitarra e
microfono. Thomas Riesner (alias Inve), dal canto suo, strimpella
allegramente il suo violino, sfoggiando di contro un atteggiamento di eccessiva
sicurezza ed elargendo sorrisi un po’ a tutti. Meno male che Eviga sta
accovacciato sullo sgabello, evitando così imbarazzanti scompensi di statura
fra i due, visto che il violinista in piedi più o meno è alto quanto il
compagno seduto. Mi sarei aspettato piuttosto due figuri insaccati in sai,
avvolti nell’incenso ed alle prese con imperscrutabili strumenti ancestrali tipo
campane e percussioni assortite. Ma qui devo ammettere che la colpa è tutta mia
e dei miei pregiudizi, visto che sono oramai assuefatto alle baracconate del
black metal odierno. Niente marketing, niente brand, niente cazzate: stasera le uniche protagoniste saranno le
emozioni.
Ecco che finalmente si
spengono le luci. Solo due faretti rossi illuminano le sagome collocate sul piccolo
palco: tutt’intorno oscurità e gli inquietanti simboli, sospesi fra paganesimo
e cristianesimo, che costellano le navate della chiesa. Già dai primi fraseggi
mi posso rendere conto che la musica del duo austriaco brilla di una rara
ispirazione: Eviga può contare su un suggestivo recitato che va dal subdolo
sussurro al monologo brechtiano,
condito qua e là da sprazzi di screaming
che non risulterà mai invadente. Il suo modo di suonare la chitarra è vigoroso
e tradisce in più di un frangente un background
metal. Inve, da parte sua, azzecca con il suo violino tutte le linee melodiche
possibili, dimostrandosi ben più di un orpello aggiuntivo.
Durante l’esibizione verranno
in mente le grandi glorie del folk apocalittico: i Death in June,
ovviamente, per l’austerità degli ossessivi giri di chitarra; i Current 93 per il “recitar cantando” da
invasato di Eviga; i Sol Invictus
per lo struggente modo di integrarsi delle sei corde con il violino. Nonostante
questo la missione artistica dei Dornenreich conserva la sua integrità,
portando avanti un modus operandi che sembra mutuato più dal pragmatismo del
metal che dall’universo folk: i brani dei Nostri presentano infatti l’andamento
imprevedibile e dispersivo che è riscontrabile nei loro album: svariate saranno
le variazioni melodiche e continui i cambi di tempo, escamotage stilistici e schemi che sembrano derivare più da un modo
di comporre che è tipico del black-metal che dalla scrittura minimale degli
artisti neo-folk.
A posteriori (poiché, nei
giorni successivi avrò modo di approfondire la discografia dei Nostri) potrò
affermare con certezza che è stato letteralmente saccheggiato il masterpiece “In Luft Geritzt”. Molti, inoltre, saranno gli estratti dall’album
di prossima uscita “Du Wilde Liebe Sei”,
che parrebbe proseguire sulla scia dell’album appena citato, prediligendo però una vocazione più marcatamente strumentale. Non
conoscendo il repertorio dei Nostri, l’impressione è che della scaletta della
serata abbiano fatto capolino anche dei brani originariamente metal
ri-arrangiati per l’occasione in versione unplugged.
Lo si capisce dalla complessità delle strutture e delle trame sonore, nonché
dal fascino esoterico che va oltre i cliché
del folk per trarre forza dagli abissi che solo il metallo più nero sa
esplorare.
L’atmosfera che i due riescono
a creare con la loro povera strumentazione è infatti qualcosa di prodigioso: note
che letteralmente scavano nell’anima e che giungono in luoghi veramente lontani
dalla sfera cosciente. E se non fosse stato per gli sparuti colpi di tosse che
venivano risaltati dal religioso silenzio che aleggiava sulla platea, l’impressione
è quella di essersi ritrovati in un sogno, in un'altra dimensione, in un altro
tempo. Questa è il potere evocativo della
musica quando dietro vi è passione e l’incrollabile determinazione a
portare avanti la propria visione artistica.
Essendo reduce da una serie di
concerti che hanno puntato quasi esclusivamente sulla sensazionalità e
l’impatto visivo (Batushka un nome
su tutti), magari basandosi su scalette riproposte in modo programmatico serata
dopo serata e quindi con uno spazio concesso al “fuori-programma” pari a zero, è
stata davvero una bella sensazione quella di poter entrare in contatto con una
così pura ed essenziale manifestazione artistica: l’estesa durata del concerto,
i molti scambi con il pubblico, gli svariati bis proposti, l’atmosfera d’insieme
mi hanno dato l’impressione che i figuri sul palco non fossero due mestieranti,
ma degli onesti musicisti che credono fermamente nella loro arte, ci piaccia essa
o meno.
E certo, il lunghissimo,
raggelante screaming sfoggiato nella
bellissima “Jagd”, vero climax
emozionale della serata e perfetto commiato per un evento permeato di sacrale
intimità, nonché brusco salto nei recessi più ferali del black metal, rimarrà
nella mia memoria come uno dei momenti più potenti della mia vita
concertistica.
Standing ovation