Impossibile parlare senza che
tremino i polsi di James Marshall Hendrix (e infatti mi stanno tremando...).
Del suo approccio rivoluzionario
allo strumento principe della musica rock, la chitarra, si sono scritti fiumi
di parole e quindi non staremo a esprimere nozioni e concetti sicuramente già
scritti in passato da una miriade di critici musicali senza dubbio più
preparati di noi.
Per quanto riguarda la nostra
redazione, quando Jimi suonava e rilasciava i suoi storici dischi con la Jimi Hendrix Experience eravamo tutti
lungi dal nascere e quindi come ne potremmo parlare in modo sensato senza
scadere nella migliore delle ipotesi in ripetizioni e/o banalità?
Mi butto allora senza paracadute
sull’argomento cercando di relazionarlo il più possibile con il metallo. E
nella cosa mi viene in aiuto la data di morte, a 28 anni, del genio di Seattle:
il 18 settembre 1970 (28 anni ancora
da compiere in realtà, visto che Jimi era nato in novembre; cosa che lo fece
appartenere al famigerato “Club 27”). Il giorno in cui ci lasciava Jimi veniva
pubblicato uno dei dischi più importanti della storia della Musica in generale
e del metal in particolare: “Paranoid”
dei Black Sabbath; cioè l’album che in quell’anno, assieme a “In Rock” dei Deep Purple e “II” dei Led Zeppelin (quest'ultimo uscito già a fine '69), sancì
ufficialmente, anche fuori dall’underground, la nascita del proto-metal. Un
caso? Coincidenze del destino? Può essere…ma romanticamente fatecelo pensare come un plastico passaggio di testimone. Un testimone passato di mano in mano a
due chitarristi, Jimi e Tony, accomunati dall’essere sì entrambi mancini, ma
così diversi sia nello stile che nel modo di stare sul palco.
Al di là delle coincidenze però, e
seppur ex-post, credo che ogni amante del metal si sia rapportato (e chi non
l’ha fatto lo dovrebbe fare) a quei tre magici album rilasciati tra il 1967 e
il 1968: “Are you experienced”, “Axis: bold as love” e “Electric ladyland”. E non ha potuto che
“farci i conti”, cercando di capire quanto e come abbiano potuto influenzare, oltre
alla tecnica chitarristica degli axemen che avrebbero fatto la fortuna di tanti
gruppi rock/metal nati nei decenni successivi, il nostro amato metallo.
La considerazione che mi spinge più di tutte le altre a scrivere sulla JHE riguarda però proprio quei tre dischi (si, mi sono autoimposto il limite di quel trittico
perché non ce l’avrei potuta fare se avessi considerato l’enorme mole di
discografia pubblicata postuma, tra studio, live, Greatest Hits e raccolte
varie): che siano tutti e tre delle pietre
miliari si è unanimemente d’accordo e non saremo certo noi a mettere in
discussione tale assioma. I dischi sono oggettivamente ottimi, scorrevoli,
pieni di intuizioni geniali, impreziositi in ogni brano dalle innovative
trovate chitarristiche di Jimi. Però, secondo me, non uniformi
qualitativamente. Cioè, in nessuno dei tre mi sento di dire che non vi siano
parti leggermente “inferiori” e/o più “trascurabili”, per quanto, questo va
sottolineato, anche in questi episodi le parti soliste di Hendrix ne innalzino
il livello che altrimenti sarebbe stato “solo” sufficiente o buono.
E così mi sono divertito, secondo
una tradizione ormai consueta per il nostro Blog, ad estrapolare 15 canzoni (si lo so, di solito sono 10,
ma questa volta non ce la siamo sentita di essere così “concisi”!) che, queste
sì, avrebbero fatto di un disco della JHE un capolavoro a tutto tondo, senza quegli sporadici “momenti minori”
che inficiavano leggermente il prodotto finale.
E allora andiamole ad analizzare
queste perle che hanno reso Jimi Hendrix quello che la Storia gli ha
riconosciuto essere: la prima (unica?) vera icona del Rock.
1. “Foxy
Lady” (da “Are you experienced”
- 1967)
Se Jimi è un’icona, “Foxy Lady” è
la canzone icona dell’icona Hendrix; probabilmente il brano che, in 200 secondi
scarsi, racchiude interamente l’epopea hendrixiana. Se siete amanti della
Musica (non del rock o del metal…proprio della Musica in generale!) non potete
non conoscerne a memoria ogni singola nota: dalla vibrazione della nota scossa
(la c.d. fingered note) dei primi secondi, fino allo scoppio della linea
ritmica dominante, fottutamente rhythm and blues. Linea che verrà ripresa dal
basso nel momento in cui Jimi si esalterà nell’assolo che apre la seconda
sezione del brano e in cui il nostro guitar hero verrà mirabilmente accompagnato
da un Mitch Mitchell alla batteria che ci darà dentro con battere proto-metal.
Distorsioni e feedback la faranno da padrona, andando a delineare da subito
l’innovazione dell’approccio hendrixiano alla materia blues/rock.
E poi il
cantato: caldo, sensuale, perfettamente integrato con la musica. E il modo in
cui pronuncia a svariate riprese il termine “foxy” (o “foxey” che dir si
voglia…) è roba che manco in un film di Tinto Brass…
Se il buongiorno si vede dal
mattino… il resto della giornata sarà una…gran giornata!
2. “Purple Haze” (da “Are you experienced”)
Se “Foxy lady” apriva la versione
britannica di AYE, quella americana veniva aperta da un altro pezzo da novanta,
quella “Purple Haze” di cui avevamo già parlato in relazione alla splendida
cover realizzata dai Winger (ma pensate: l’hanno coverizzata anche i Coroner!).
Questa song è puro, fottuto heavy metal, a partire dalla sezione iniziale, con
Mitchell che spacca il culo al drum kit fino all’ingresso del riffone che
introduce la strofa. Spigolosa, secca, cruda, guidata dal c.d. “Hendrix chord”
(cioè un MI7 con la 9a aumentata) che ha reso il riff di "Purple Haze" tra i più celebri
della Storia della Musica. Il tutto è corroborato, oltre che da un testo
volutamente ambiguo che ancora oggi crea dibattiti, dai soliti “numeri” mai
sentiti alla Stratocaster, e in cui le contorsioni finali della batteria (con
in sottofondo strani effetti rumoristici) non fanno che accentuare la
sensazione di aver ricevuto in faccia una bel pugno in pancia…mitica!
3. “Manic Depression”
(da “Are you experienced”)
Dopo averci colpito sul muso con
un gancio degno di Mike Tyson, Jimi ammorbidisce leggermente l’atmosfera
inserendo in posizione “2” la splendida “Manic depression”. Il singer ci
racconta della sua anima lacerata da una sorta di psicosi bipolare, dovuta
ovviamente a pene d’amore (“Woman […] you make love / you break love"), La
musica si tinge di un rock blues dalla venature acid/psichedeliche con un riff
portante degno di passare alla storia. Ma inseriamo il brano nella nostra
compilation soprattutto per il drumming di Mitchell, alquanto inusuale nelle
canzoni rock, un up tempo che sottolinea il saliscendi emozionali che la song
ci propone in una sorta di schizofrenica mania psico-depressiva che alterna
momenti dolci e altri brutali. La chiosa chitarristica è un crescendo
emozionale da pelle d’oca fino al collasso finale in cui la canzone deraglia tra feedback
e rullate in sottofondo…altro che depressione…qua ci pervade un’esaltazione!
4. “May This
Be Love” (da “Are you experienced”)
Fine, delicata, carezzevole. Sono
I primi tre aggettivi che mi vengono in mente ascoltando questa splendida rock
ballad con un testo davvero poetico. Ma non vi aspettate una mielosa sbrodolata: l’inventiva di Hendrix fa sì che dopo appena 1’ la song si impenni
in un bridge rockeggiante che crea una piacevole varietà fino a che il motivo
iniziale torna dominante. Ancora decisivo Mitchell (che fenomeno, Mitch!) capace di creare un ritmo
quasi tribale. La coda strumentale del brano è impreziosita da un lungo e
rarefatto assolo di Jimi.
Assieme a “The
wind cries Mary”, probabilmente la più bella ballata del chitarrista di
Seattle.
5. “Third
Stone From The Sun” (da “Are you experienced”)
Della serie: il jazz
incontra/scontra la psidechelia sessantiana. "Third stone from the sun" inizia come una jam session
jazzistica ma dopo 40” comincia il sinuoso tema portante del pezzo.
Fondamentalmente strumentale, la canzone va avanti per accumulo di sezioni che
vanno, come detto, dal jazz al hard
rock, dalla psichedelia (che occupa la lunga parte centrale del brano) fino all’acid rock tanto sperimentale
quanto “fastidioso” per le malcapitate orecchie dell’ascoltatore. A fare da
trait d’union tra le diverse parti, il tema portante che ritorna ciclicamente.
Nel mezzo le digressioni chitarristiche di Hendrix sono da incorniciare, con un
utilizzo estremo di distorsioni e feedback. Il testo, composto da versi
parlati, filtrati e lasciati in sottofondo, ci immergono in un’ambientazione
quasi fantascientifica. Insomma, difficile da descrivere a parole. Per chi
scrive una delle canzoni più importanti di tutto il rock sessantiano sia per
inventiva che originalità.
Sperimentazione allo stato puro!
Ma ora tiriamo il fiato…per le
ultime dieci essential songs, aprite il prossimo post di Metal Mirror!